Lo sguardo docile dell’uomo ha dovuto da sempre ricercare compromessi contro le intenzioni guerrigliere del mondo.
Siamo abituati a combattere; nonostante questa parola appaia a tutti noi, o almeno alla maggior parte di noi, distante e impregnata di un odore acre che difficilmente riusciamo a sopportare. Combattiamo fin dal primo momento in cui le nostre consapevolezze divengono l’essenziale respiro di ciò che ci permette di tracciare, irreversibilmente, il sentiero che scegliamo di navigare. Combattiamo per modellare le nostre idee, difendere i nostri sogni dalle strette giudicanti di chi ha deciso di barattare quest’ultimi per un incubo addolcito dall’indifferenza, per esalare quei respiri affannosi che rallentano la voracità dei nostri pensieri, quando le acque taglienti d’un oceano sconfinato cominciano ad annegarci.
Combattiamo poiché la resa sarebbe il modo più semplice per abbandonarci alla follia del vuoto. Combattiamo per il fervente timore di vederci sconfitti.
Per quanto questa parola sia vicina e al contempo privata dei suoi lineamenti, resi amorfi da una foschia di perbenismo, tutti noi, abbiamo scelto di battagliare perché l’altra possibilità, aveva le medesime sembianze di una morte, privata dei ricordi, che le concedono il valore del suo significato.
Impariamo a guerreggiare, non nasciamo impavidi e ricolmi della certezza che si erge sul piedistallo dei vittoriosi.
Imparando, ci feriamo.
Alcuni smettono di armeggiare per la paura di trovare cicatrici che non saprebbero come lenire. Altri piangono, gioiosi per una vittoria, o solcati da lacrime di consapevolezza, intimoriti dallo scatenio di una sconfitta.
Le lacrime allagano ogni nostra battaglia, riflettono la luce speranzosa che traspare da ogni passo che riemerge da una melma inconfondibile.
Piangere è la lampante dimostrazione che la cruda narrazione della nostra storia è riuscita a trafiggerci, ma ci ricorda, con ogni vitrea lacrima, che siamo ancora vivi per poter riesumarci dal terreno arido che ci ha sepolto.
Proprio per questo, non mi ferisce osservare una persona che piange rimembrando le sue battaglie o descrivendo i fendenti che la stanno ferendo, però mi strazia, soffocando le mie speranze, il volto di un innocente macchiato dalle lacrime di chi è stato designato colpevole, ancor prima che potesse decidere con quali colpe sporcare le proprie notti.
Mi inquieta lo sguardo appassito di chi ha perduto l’ingenuità per colpa di certezze acerbe.
I pianti, stretti tra i denti, di coloro che non avrebbero motivi per poter piangere con coscienziosità e nemmeno l’età per poter farsi assalire dalla coscienza.
Le braccia, marchiate a fuco da bruciature di sigaretta, di coloro che hanno perso la vista offuscati dal fumo persistente della miseria.
Quegli innocenti non sono combattenti, ma sconfitti, che hanno deciso con inimitabile coraggio di riscrivere una storia, la loro audace storia, in cui l’epilogo è tristemente confuso, scarabocchiato dalla penna di un destino bisbetico.
Victor Hugo, nel suo capolavoro ottocentesco “I miserabili”, descrive in modo minuzioso la sofferenza scaturita dalla miseria.
Una miseria dipinta non solo come condizione sociale ed economica, ma come cappio che stringe, senza indulgenza, il collo di chi desidera salvarsi, rubando un futuro più roseo.
La miseria non sopravvive solamente nelle stanze occupate di un angusto appartamento che, invisibile, contribuisce ad alimentare l’ombrosa imponenza del cemento che regna egemone nei contesti in cui, anche il sole, sembra intimorito dal donare i suoi raggi.
La miseria è uno stridio che irrompe la complessa sinfonia suonata da un musicista che, stonando le note, ha imparato a giostrarsi tra le armonie del pianoforte.
La miseria è una condizione che perseguita i corpi dei sopravvissuti, privandoli dell’idea di una quiete perpetua.
La miseria, anche se si riesce a fuggire da palcoscenici fatiscenti in cui i colori sbiadiscono ancor prima di poter essere sognati, rimane una sfumatura rossastra che difficilmente si riesce a diluire. Le notti di chi ha provato a colorare il suo mondo, dileguandosi dalle ombre che lo rincorrevano instancabili, ne sono l’esempio.
Non sono notti sollecitate dal ristoro e dal tepore del fuoco di casa, ma ore, scandite dal perforante tonfo delle lancette, dove ogni ricordo e ogni rimorso danzano, come pitture riesumate da un’accecante e fioca luce, sulle pareti che tagliano lo sguardo di chi vorrebbe osservare il cielo. Vi esorto a guardare con ammirazione la perseveranza, che ogni virtuoso vincitore utilizza come unica arma di cui servirsi, in ogni duello in cui, le circostanze, sembrano sgambettare decise contro la vittoria; ma disperatevi osservando i fangosi vincitori, gettati in duello già vinto dalla vita, in cui tutto ciò di cui possono servirsi è la speranza di poter brandire i propri sogni e i propri successi, per potersi vedere, prima o poi, ripuliti dai solchi scarlatti, scavati sul volto, dalle lacrime degli innocenti.
06/03/2024