REGOLE
Sandro Lezziroli
Sandro Lezziroli
Dunque niente più pane, pasta, pizza, dunque carboidrati in generale, niente più cioccolato, dolci, torte, dunque zuccheri in generale.
Dunque regole.
Niente ironia, nudità, porno, sesso, alcolici, oppiacei.
RE-GO-LE.
Niente manifestazioni, niente opposizione, nessun pensiero.
Da oggi l’unica parola è:
SISSIGNORE!
SISSIGNORE!
REGOLE! REGOLE! REGOLE!
Le nostre…ovviamente.
Niente più sport, teatro, cinema, dopamina, divertimento in generale.
Niente più amore, tristezza, odio, rabbia, da oggi…moderazione.
Oppure la parola all'ordine del giorno sarà “Riccardo”.
…Scherzo.
REPRESSIONE!
Vabbè, non è una cosa brutta. Noi adesso diciamo repressione, ma diciamo che non è proprio repressione repressione, vedetela più come una corsia delimitata dove non potete correre, saltare, stare fermi, salutare mamma, QUI POTETE SOLO CAMMINARE, non troppo veloce però, mi raccomando.
E poi diciamocelo, la repressione nel 2025 non esiste più.
È una moda passata.
Forse quest’anno abbiamo esagerato.
Ma io dico, CHI È CHE NON HA MAI SBAGLIATO?!
Siamo umani.
Errare è umano, perseverare è malvagio, lo sanno anche le macchine.
Abbiamo anche detto troppo.
PRODUZIONE, ecco la parola del 2025.
Nuovo anno, nuovo incentivi, nuovi progetti, nuove somme, nuovi obiettivi.
Tu, si… tu, riesci a vedere l’occasione che hai davanti?
Tu per noi sei unico, sei stupendo, noi senza di te non andremo da nessuna parte.
Tu sei fantastico e noi, non solo ti apprezziamo, no, noi…TI AMIAMO.
Tu sei la cosa più pura che c’è, la cosa più bella che c’è:
Tu sei una macchina, tu sei una puleggia, tu sei un bullone, tu sei una vite, tu sei una cinta di trasmissione, tu sei una pompa, tu sei tutto per noi, e noi siamo tutto per te.
Tu puoi fidarti di noi.
Oggi, come è stato ieri, come sarà domani, è una giornata da ricordare, una giornata da raccontare a mamma, una giornata da portare dentro il nostro cuore, cuore che però, essendo estremamente altruisti e di buonanima, diamo a tutti, tutti i giorni.
Il nostro cuore a voi.
Adesso in coro.
Ricordati e ripeti insieme a me:
“IO SONO UNA MACCHINA E LE MACCHINE LAVORANO, IO SONO FONDAMENTALE, MA RIMPIAZZABILE, IO SONO LIBERO, LIBERO DI LAVORARE”
Bravissimo!
Bravo come pochi direi.
E dato che sei così bravo, ti sei guadagnato il diritto di scioperare e di avere dei giorni di malattia, ma, c’è un ma, purtroppo per delle policy lavorative, in questi giorni non verrai retribuito, ma d’altronde perché dovresti sentirti male o ribellarti se ti trovi così bene, no?
Opsss è finito il tempo, imbocca al lupo!
ADESSO TORNA A LAVORARE LA PAUSA PRANZO È FINITA!
Federico Scotti
È possibile desiderare la sofferenza a tal punto da posizionarla come ambizione maggiore della propria esistenza? Condurre una vita irragionevole e straziante sembra essere l’unico motivo per avere una vita dignitosa, secondo il protagonista delle “Memorie dal sottosuolo” di Fëdor Dostoevskij, pubblicato per la prima volta nel 1864.
L’individuo presentato dall’autore russo avrebbe un profondo ardore di dolore e di umiliazione, accusati da una società che corre dinamicamente tentando di diffondere ideali ottimistici e schivando il vero affanno che contraddistingue la vita di ognuno di noi. L’uomo del sottosuolo, il quale rimarrà anonimo per l’intero romanzo, è malato e maligno e cerca di integrarsi in una società che scarta, disprezzandoli, gli umani sensibili ed eccessivamente riflessivi, che non riescono ad agire e ad imporsi delle mete che possano coronare il cammino della loro vita. Il personaggio, pertanto, tenta in svariati modi di entrare in contatto con il variabile spettro della comunità, trascinato da un estremo all’altro e umiliato su ogni pigmento della sua stessa pelle, a partire da uno scontro con un ufficiale fino alla frequentazione con una prostituita. È qui che il reietto comprende l’inquietudine della vita e che la sofferenza che nasce con la stessa ci abbraccia con artigli che lasciano vivide ferite sul nostro corpo, segnando indelebilmente l’orizzonte tragico di ognuno di noi.
La preferenza dell’uomo nel confrontarsi con la sofferenza permette all’individuo che abita il sottosuolo di captare l’irrazionalità della vita, poiché la stessa è resa peculiare dal sentimento, in particolare da quello negativo, e per poterselo procurare e vivere nel desiderato tormento occorre abbandonarsi alla mancanza del razionale, esaltando la volontà individuale. Per promuovere quest’ultima l’autore propone un prodotto banale, secondo il quale moltiplicando il due per se stesso otteniamo quattro, e ritenendo di cambiare il risultato finale con un cinque crede di poter far trionfare la suddetta volontà; risultando la stessa una conquista vana, all’uomo non rimane che rifugiarsi e strisciare sul terreno delle interiora della terra: il sottosuolo.
Ma è vero che la vita è solo afflizione? È possibile, nell’uragano del rodimento, trovare uno scorcio che possa farci vedere e percepire il tiepido sole oltre la parete ventosa dell’uragano stesso? Secondo Dostoevskij ciò non è contemplabile, e l’uomo tende spesso a rincorrere una superficiale, momentanea gioia mentre il nostro protagonista continua a porsi una domanda oziosa: “che cos’è meglio, una felicità da quattro soldi o delle sublimi sofferenze?” Ed è quello che possiamo chiederci anche noi, abitanti di una realtà che maschera la tristezza e l’indolenzimento, nascondendoli sotto un’apparente felicità e una momentanea gioia pur di non sentire i sentimenti negativi, abbracciarli e far si che possano aiutarci, perché perfino il dolore può farci bene, talvolta.
Nella realtà in cui stiamo crescendo è diventato comune raccogliere il razionale in ogni cosa che facciamo, e lasciare per terra tutto ciò che concerne la sfera sentimentale, per sotterrare con piacere, cosicché non ferisca, il tormento che fa sanguinare. In tal modo
finiamo non solo nel perdere l’occasione di vivere un’emozione, ma buttiamo via pure noi stessi, rifiutando di sorridere a una parte di noi che cerca di emergere e che tuttavia riceve le nostre stesse spalle, volte a non voler vedere ciò che dentro si agita. Così, gettando noi stessi da una parte e privandoci pure di riconoscere la totalità del nostro essere, giungiamo nell’universo del nullo, e nell’oblio non riusciamo più ad essere nessuno, “nemmeno un insetto”.
Emma Consonni
Wes Anderson non smette mai di sorprendere. Dalle simmetrie fotografiche ai personaggi bizzarri, fino alle atmosfere sospese, il regista regala allo spettatore un’esperienza surreale, irripetibile, immersa in una plasticità che però non perde mai vitalità.
Una caratteristica che incontrerete spesso se deciderete di entrare nel microcosmo di sfondi disegnati e profondi personaggi di questo artista è la vicinanza alle tecniche narrative del teatro e della letteratura. Nello specifico i suoi ultimi prodotti cinematografici sembrano quasi richiamare da vicino un caposaldo della nostra letteratura novecentesca: Italo Calvino. Un altro autore che spesso lascia spiazzati con i suoi personaggi fuori dal comune, ma soprattutto con i paesaggi che disegna nelle pagine delle sue opere, luoghi surreali e fantastici. Questo autore, elemento di punta della letteratura italiana si inserisce in un contesto culturale nel quale risulta più preponderante che mai; la realtà è un mare non più analizzabile nei singoli elementi. Ma Calvino si inserisce in questo contesto attraverso la consapevolezza che non ci si può più inoltrare in quel mare, ma lo si può solo solcare sulla superficie. E da qui l’abbandono di una rappresentazione realistica, per dirigersi verso mondi immaginari, quasi plastici, che abbracciano il molteplice. La letteratura, in questo senso, rappresenta la possibilità di costruire un ordine. Con lo strutturalismo, ora la narrazione prosegue attraverso un mazzo di tarocchi, ora attraverso i multipli dei numeri di una scacchiera (Il castello dei destini incrociati e Le città invisibili). Da qui non si può non ravvisare un filo conduttore tra questi due estrosi artisti.
I film di Wes Anderson spesso abbandonano l’idea di una narrazione continua, ma sembrano seguire una suddivisione in “capitoli” o, per avvicinarci alla figura di Calvino, una serie di racconti. Le vicende, alle volte, sembrano separate l’una dall’altra e The French Dispatch è l’esempio più evidente, oltre a essere una delle rappresentazioni che più si avvicinano a una forma letteraria, quella della rivista. Il film sviluppa visivamente una serie di articoli di vari autori legati a una rivista culturale. Nonostante il genere letterario di riferimento sia quello che più aderisce alla realtà, quello giornalistico, le vicende sfuggono comunque dalle maglie del verosimile, rappresentando quadretti surreali e vicende comicamente al limite del possibile.
Calvino ha sempre preferito la forma del racconto a quella del romanzo, forma letteraria a cui difficilmente si avvicina, soprattutto nella maturità. Similmente, Wes Anderson sembra più raccontare una serie di episodi legati da un medesimo paesaggio e tempo, che per altro risultano dei “non luoghi” fuori dal tempo, piuttosto che una narrazione unica e continua (sensazione nota a chi si addentra nel mondo letterario di Calvino).
Tra gli ultimi prodotti di Wes Anderson, inoltre, si annoverano una serie di cortometraggi, dalle tinte quasi novellistiche, sempre accompagnate dalla voce narrante dello scrittore, che
ha un posto anche sulla scena. In questo caso, però, il riferimento è esplicito: Roald Dahl. A questo autore Wes Anderson è sicuramente debitore. Lo scrittore britannico è spesso ricordato per aver stravolto la letteratura d’infanzia, sostituendo le raffigurazioni esemplari con piccoli mondi che, seppur immaginari, non mancano di presentarsi più veri e reali sotto la loro superficie bizzarra rispetto alle fiabe edificanti. Qui assumiamo il punto di vista dei bambini, personaggi a sé stanti con le loro emozioni e caratteri, che arrivano spesso a superare gli adulti. Ma non sono solo gli ultimi quattro cortometraggi di Wes Anderson a richiamare esplicitamente le raccolte di racconti di Roald Dahl, ma anche uno dei più celebri film di Wes Anderson in stop-motion: Fantastic Mr. Fox. Il film, con la sua palette tenue, ricostruisce visivamente ciò che Dahl raccontava nell’omonimo racconto attraverso personaggi animali estremamente umanizzati.
Risuonano gli echi del celebre ideatore della fantastica fabbrica di cioccolato anche in altre opere, tra cui The Royal Tenenbaums, in cui il regista statunitense segue la crescita di tre fratelli prodigio, e certamente non stonerebbe in questa famiglia un piccolo genio come la Matilda di Dahl.
Dalle note decisamente più teatrali, invece, è Asteroid City, che si incentra proprio su una rappresentazione teatrale messa in scena in un programma televisivo. Ma, oltre a svelarci fin da subito il set televisivo e poi il palco teatrale in cui si chiudono a matriosca le vicende che noi poi viviamo in terza istanza, la vicenda si intreccia a tratti con le vicende degli attori, varcando il confine tra realtà e finzione. La riflessione stessa che i personaggi e attori fanno sul teatro porta gli echi del teatro nel teatro di Pirandello, come in Questa sera si recita a soggetto. Nell’ultimo surreale film di Wes Anderson, i personaggi sembrano alle volte sovrapporsi agli attori che li interpretano: il personaggio Augie, in lutto per la moglie insieme alle figlie, condivide il sentimento del lutto “reale” dell’attore Hall per Earp, lo sceneggiatore dell’opera. Ma non si esaurisce qui il criptico legame tra attori, teatro e personaggi: Hall si trova spesso confuso dallo spettacolo, ma anche dal suo stesso personaggio, del quale l’attore fatica a trovare le ragioni profonde.
Wes Anderson risulta un regista incredibilmente straordinario nella sua fotografia e nelle sue inquadrature, surreale nei paesaggi e nelle atmosfere, e criptico nelle vicende narrate. Quest’ultimo elemento lascia spiazzati i fruitori delle sue opere, che spesso tendono a concentrarsi sulle immagini piuttosto che sull’elemento narrativo. Ma a un occhio più attento non potranno, e non devono, sfuggire non solo le vicende e i loro significati sottesi, ma anche l’universo paratestuale che il regista tratteggia con la sua tenue tavolozza.
“Quaderno proibito”, il titolo di un libro che già decontestualizzato cattura la nostra attenzione, ci chiama, ci induce a prenderlo in mano, a sfogliarlo. Pubblicato nel 1952 e ambientato negli stessi anni, il quaderno proibito è in realtà il diario di Valeria, donna romana di 43 anni madre, moglie e figlia. Questi suoi ruoli sono talmente precisi e radicati in lei che la sua persona sembra ridursi ad essi, non traspare più alcun tratto del suo carattere, della sua femminilità, almeno agli occhi della sua famiglia.
Il diario contiene il racconto di alcuni mesi della sua vita densi di sensazioni, sentimenti e piccole esperienze casalinghe e non.
Una denuncia alla famiglia basata su principi patriarcali, una denuncia che si infila fra le parole, non gridata ma sussurrata, tuttavia chiara e perentoria. No, non leggerete un racconto entusiasmante, se state cercando un libro di avventure questo non è il vostro, ma se deciderete di dargli una chance scoprirete la storia emozionante di una donna “d’altri tempi”, così lontana dalla nostra realtà, eppure così vicina se riuscirete a sbirciare fra le righe. Alba de Céspedes riesce ad incarnare nella sua protagonista tutte le difficoltà, i dubbi, le scelte difficili che una donna si trova a dover affrontare nel corso della sua vita, e nonostante Valeria ci sembri del tutto diversa da noi, ci assomiglia più di quanto crediamo. Con tempi moderni si verificano problemi moderni, ma alcuni dilemmi, alcune questioni morali tipicamente femminili, rimangono oggi le stesse degli anni ‘50, innescate dal sistema patriarcale radicato nella nostra cultura da secoli.
Ogni sfaccettatura dell’essere donna viene esplorata all’interno del “diario”, il rapporto con il marito Michele, un amore che diventa col passare del tempo un’abitudine, quello con il figlio Riccardo, il perenne conflitto con la seconda figlia Mirella, e poi l’essere figlia lei stessa, l’essere amica, l’essere lavoratrice. Traspare la lotta interiore della protagonista fra il senso del dovere e la devozione verso la famiglia e la necessità e la voglia di mettere il suo benessere prima di tutto. Perchè il quaderno è proibito? Perché racchiude al suo interno tutte le verità più profonde e impronunciabili che una donna degli anni ‘50 si portava dentro, verità che solo la scrittura poteva rivelare, i desideri più impuri, i sensi di colpa più affliggenti. È proibito perché rivela l’immagine di una madre, di una moglie diversa da quella che conosce la sua famiglia, che ha dei pensieri che vanno oltre il marito e i figli, ma che si estendono a sé stessa.
Scrivendo, per la prima volta Valeria si sente Valeria, chiamata col suo nome proprio, non con il ruolo che le è stato assegnato.
“Temo che, ammettendo di aver goduto sia pure un breve riposo, uno svago, perderei la fama che possiedo di dedicare ogni attimo del mio tempo alla famiglia”. Le parole limpide dell’autrice riescono a penetrare il lettore e catapultarlo nella vita della protagonista, riescono a dargli i suoi occhi, le sue orecchie, la sua mente. Se siete donne come la sottoscritta vi immedesimerete voi stesse in Valeria, se siete uomini penserete sicuramente a vostra madre o vostra sorella nei suoi panni. Ecco perché lo sentiamo così attuale: perché una donna degli anni ‘50, cresciuta durante la seconda guerra mondiale e durante il regime fascista, ci sembra che ci
rappresenti, che abbia i nostri stessi pensieri e questo ci fa riflettere ma soprattutto ci fa paura. Siamo davvero così lontani, mentalmente e ideologicamente, dagli anni del dopoguerra o in fondo un problema di base resta ancora, dopo tutto questo tempo? Alba de Céspedes scrive un libro che ogni donna, sposata o nubile, madre o senza figli, lavoratrice o non lavoratrice dovrebbe leggere, un libro che ci suggerisce di non dimenticarci mai del nostro inestimabile valore.
Apro gli occhi ma sono già sveglio da un po’.
A quest’ora è tutto così silenzioso, così mite, il mondo è ancora immerso in quel torpore denso di sogni, da cui presto tutti saranno svegliati. Silenzio. Potrei sentire i pensieri dei miei compagni di stanza che si rincorrono, che viaggiano lontani nonostante siano lì, vicini a me.
Io ultimamente dormo poco, ma quando finalmente le palpebre si fanno pesanti, e quell’inerzia inspiegabile mi porta con sé, sogno anch’io. E sogno soprattutto il mare. Il mare di Ostia, quello che conoscevo, quello che da ragazzo raggiungevo a giugno, finita la scuola e quello che agognavo per tutto il resto dell’anno.
Il mare è sempre stato la stella polare della mia vita. Mi sentivo come lui, invincibile, infinito, come lui senza una dimora precisa, ma libero di andare ovunque, abbastanza determinato per riuscire ad arrivare lontano ed infrangermi sulle coste.
È questo che più mi fa male della malattia. Mi ha tolto ogni libertà. Sono attaccato a questa maschera d’ossigeno e a questi macchinari, e lo sarò per sempre.
La luce si accende. Un’infermiera ancora assonnata controlla i parametri nel monitor. Nulla è cambiato, tutto è come il giorno precedente, e quello prima ancora, ed è così da due anni.
Come tutti i giorni verrà la mia compagna, forse mia madre, un amico passato lì per caso che decide di venire per ricordare un tempo che è stato e non sarà mai più, poi chiuderò gli occhi di nuovo.
Ecco che arriva Francesca. Che bella che è. Con quegli occhioni grandi e quel sorriso timido nascosto tra i capelli chiari entra nella stanza e la inonda di luce. È questo che mi ha fatto subito innamorare di lei: il sorriso. E anche la semplicità.
Ogni mattino temo di svegliarmi e di non vederla più. No, non per altri effetti dell’incidente. Ho paura che si stanchi di prendersi cura di un uomo che non può più fare né dire niente.
Mi sistema la maschera dell’ossigeno e mi accarezza il viso.
Quanta delicatezza dopo i gesti frettolosi dell’infermiera.
Mi asciuga gli occhi umidi, e mi guarda.
Chissà se ricorda il giorno in cui ci siamo conosciuti, una primavera di dieci anni fa, in una gelateria a Roma, quella vicino Ponte Milvio, e lì ci siamo innamorati.
Dopo l’incidente non credevo che decidesse di rimanermi accanto, io non posso neanche più parlare, dipendente da questa maschera, e lei mi rimane seduta accanto, ancorata tenacemente alla volontà di farmi rimanere in vita.
Questo amore disinteressato, innocente mi commuove e mi spezza il cuore al tempo stesso.
Le vorrei urlare di andarsene, di lasciarmi qui a combattere con i miei demoni e di non permettere che la mia vita riempia di tenebre la sua.
Ma come faccio a dirle tutto questo, io che riesco solo a muovere gli occhi.
Arriva il dottore a rassicurarla, a dirle che le mie condizioni sono stabili, che posso sentirla.
Da quando le hanno comunicato questo, dieci mesi fa, non mi ha mai rivolto la parola.
È una cosa strana. Mia mamma appena l’ha saputo ha iniziato a fare monologhi, a espormi pensieri, a farmi domande pur sapendo bene che io non avrei mai potuto rispondere.
Francesca invece no.
Si era chiusa in un silenzio denso di aspettative, di speranze.
I primi tempi credevo che provasse rabbia, o vergogna, o entrambe.
Solo ora capisco che alle volte, quando la vita va così, non c’è proprio nulla da dire.
E allora lei si siede, e mi guarda.
Non è uno di quegli sguardi vacui, di chi pensa ad altro e guarda l’orologio aspettando il momento opportuno per andarsene.
No, lei mi scruta, mi osserva per capire come sto davvero, come sto dentro.
Tra poco se ne andrà e inizierà la sua giornata, porterà Elia a scuola, andrà a lavoro e tornerà domani, pronta a farsi rompere un altro pezzettino di cuore vedendomi.
E infatti si alza, mi da un ultimo bacio sulla guancia, e attraversa quell’uscio bianco, portando via con sé il calore di un amore che è solido, integro, e lasciandomi in pasto ai miei dubbi, alle mie paure.
Credo che gli altri dormano ancora ma non riesco a vederli e non sento nemmeno le voci dei loro parenti, di chi ancora non si rassegna a vederli come vegetali, a vedere me come un vegetale.
Il nostro reparto è paradossale.
Spesso mi chiedo il perché uomini che conservano solo un anelito di vita, che a volte non hanno la mia stessa fortuna e non riescono nemmeno a muovere gli occhi, siano circondati da una speranza di vivere così prorompente.
Tutti sembrano ricordarci che siamo vivi, ma che ne sanno loro di quale sia la nostra vita?
Che ne sanno loro del freddo che si sente la notte, del fastidio del bip delle macchine, della maschera che stringe e irrita il volto, eppure ci tiene in vita.
Mia madre oggi non è venuta, come biasimarla.
Sono già le sette, un’infermiera sistema la flebo per nutrirmi, accende la tv e se ne va.
Alle nove sulla stanza cala il buio, solo la luce di qualche lampione giù in strada riesce prepotente a penetrare oltre le serrande mezze rotte, e si sente qualche voce lontana, forse ragazzi pronti per una festa, forse due anziani che dopo una passeggiata tornano a casa, forse una famiglia felice pronta per la cena.
E mi addormento così, con l’immagine impressa nella mente di quella che avrebbe potuto essere la mia famiglia, la mia condizione, e invece non è questo che il destino aveva scritto per me.
Mi risveglia un turbinio di voci, apro gli occhi ancora annebbiati dal sonno, e penso di essere arrivato in Paradiso.
La stanza è inondata di luce e intorno a me ci sono un uomo dal camice bianco, Francesca, Elia, mia madre, Vittorio, grande amico e collega, e mia zia.
Se tutta questa gente si è riunita devo essere morto. Sai me la immaginavo peggio la morte. A catechismo ti dicono che devi comportarti bene, altrimenti finisci dritto all’Inferno. Quello però non sembrava il luogo buio e tetro descritto da Dante, ma anche come Paradiso era un po’ deludente. Il Paradiso in un ospedale.
Mi chiamano, apro gli occhi e tutte quelle figure etere e sfocate divengono più vivide, più materiche. Sono ancora vivo, il bip della macchina me lo conferma.
A parlare è mia madre, che con le parole non ha mai fatto fatica:” guarda, guarda cosa siamo riusciti ad ottenere grazie all’aiuto dell’ospedale, guarda, guarda che bel regalo”.
Ora lo vedo, il dottore tiene in mano un piccolo schermo nero.
Mi spiegano che attraverso un sensore ad infrarossi e non so quale altra sperimentale tecnologia potrò avere una voce, e parlare, non più solo con gli occhi.
Sistemate le attrezzature mi chiedono di provare a visualizzare con gli occhi una scritta e questo è il vero dramma.
Erano due anni che pensavo a quante parole avrei voluto dire alla mia famiglia, alle frasi che non avevo mai pronunciato e erano rimaste in sospeso, a creare voragini tra me e loro.
Eppure l’unica cosa che riesco a pensare e che poco dopo il computer dice in modo metallico ad alta voce è “voglio morire”.
L’ilarità generale si spegne dopo questa affermazione e anche io mi pento subito di queste parole che mia madre, Francesca, ma soprattutto mio figlio hanno sentito.
No, non è vero che mi sono pentito.
Diciamo che mi stupisco del coraggio che tutto d’un tratto sento pulsare nelle vene, nella testa, alimentato dal bip assordante delle macchine.
È vero, io volevo morire, e lo voglio ancora.
Voglio morire perché dopo una vita intera da magistrato, pronto in prima linea a smascherare stupratori, assassini, ladri non voglio dipendere da una maschera.
Voglio morire perché ho sempre difeso i diritti degli altri, soprattutto il diritto alla libertà, e ora voglio che anche il mio venga salvaguardato.
Voglio morire perché questa per me non è vita, rilegato su un letto d’ospedale, elemosinando cure, attenzioni, senza però poterne dare nessuna.
I giorni seguenti sono un inferno.
Francesca tace, come sempre, e raramente porta Elia in ospedale, a salutarmi.
Mia mamma piange disperata, e cerca in tutti i modi di dimostrare a quell’unico, sventurato figlio la bellezza della vita, una vita sicuramente diversa, ma non meno valida, non meno dignitosa.
Ogni tanto porta in ospedale don Luigi, un omino basso e sempre allegro, che conosco da sempre poiché era il sacerdote della parrocchia che da ragazzo frequentavo.
Parlo a lungo con lui.
In realtà è don Luigi a fare il suo monologo.
Dopo la disfatta della mia prima prova mi ero infatti rifiutato di continuare ad usare il computer e mi limitavo ad ascoltare, esattamente come prima.
È molto bello ascoltare le parole del don.
Parla spesso di una qualche speranza nuova, di una salvezza piena e gioiosa che aspetta me e chiunque vuole essere salvato.
Parla di un Dio che capisce il valore delle creature ferite, o cadute, perché anch’egli si era fatto uomo.
E poi sorride, di un sorriso che viene da lontano, che viene da un’anima che si sente serena anche in mezzo alla tempesta, di un’anima che aveva sperimentato un amore disinteressato, puro, e ora voleva annunciarne la bellezza.
Sono sempre stato guidato, in tutta la mia vita, da un forte senso di spiritualità, non per un dio in particolare, il faro che ha illuminato i miei passi sono stati i grandi ideali: la giustizia, l’amore, la libertà.
E io don Luigi lo capisco, capisco anche mia madre.
Io stesso se fossi stato dall’altra parte, se fossi stato io lì, in piedi, di fronte al letto di un uomo morto solo per metà, non so se mi sarei arreso all’idea di lasciarlo andare.
Perché chi non lo prova sulla propria pelle non può capire cosa voglia dire vivere morto su un letto, percependo i ritmi di una vita che non potrà mai essere tua ma allo stesso tempo non ti abbandona, tenacemente attaccata a ciò che rimane di un corpo.
La chiamano eutanasia, “bella morte”. Stronzate. La morte non è mai bella, soprattutto se hai vissuto la vita, quella vera, e poi non puoi più farlo e conosci perfettamente il valore di ciò che hai perso.
La morte ora non mi spaventa.
Forse anche per tutti quei discorsi fatti con don Luigi, non che abbia iniziato a credere ad un Aldilà fatto di luce in cui ritroverò tutti coloro a cui ho voluto bene, però la vedo come una porta verso qualcosa di infinito, e di infinitamente straordinario.
Mia madre crede che sia un pazzo, un folle che ora ha perso anche quel briciolo di lucidità testimoniato dagli occhi vispi, e pronti a cogliere tutto quello che era loro concesso.
Invece oggi per la prima volta Francesca mi parla e con un sussurro dice tutto ciò che vorrei sentirmi dire.
Bisbiglia che capisce, comprende, che se potesse mi strapperebbe lei la maschera che ho in viso.
Mi chiede di aspettarla, ovunque andrò dopo la morte mi chiede di rimanere lì, di proteggerla, di proteggere Elia, perché poi un giorno mi raggiungerà.
Ma lei è bellissima, fragile stella senza cielo, e io sono solo una testa senza corpo.
E poi non è così facile, non siamo sposati e lei non potrebbe dare il permesso di staccare i macchinari, oltretutto in Italia, dove situazioni come le mie, decisioni come le mie, vengono ignorate se non giudicate, e l’eutanasia è illegale.
Nonostante questo, sono felice che almeno lei, da sempre capace di guardare oltre, non mi consideri un pazzo, capace solo di portare dolore nelle vite degli altri.
Ci guardiamo, e come sempre accade quando due anime affini si trovano e non si lasciano più, una pace pervade il mio corpo, e sono certo di poter dire anche il suo.
E rimango di nuovo ancorato qui in ospedale, con un peso nel cuore che sembra un macigno.
Immaginando la vita di altri, non potendo vivere la mia.
Chiedendomi come stia mio figlio, come vede le cose, come le sente.
Chiedendomi quanto ancora mia madre resisterà, in quella devozione totalizzante nei confronti dell’unico figlio.
Chiedendomi quanto ancora resisterò io, schiacciato dal peso di una maschera che non voglio mi appartenga più.
Siamo a Donna Olimpia, Monteverde, nel cuore di quello che in “Ragazzi di vita”,
è l’habitat dei protagonisti. É qui che prendono vita e forma i famosi Riccetto, Marcello, Agnolo e tutti gli altri “pischelli”: qui Pasolini li rappresenta e li studia, e al tempo stesso qui li vive. Silvio Parrello, nel romanzo “Er Pecetto”, è uno di loro, uno dei testimoni che ancora può raccontarci in modo vivido e puro la figura di Pier Paolo Pasolini, senza filtri, neppure linguistici, rendendoci ancora più partecipi di quei momenti che abbiamo vissuto sfogliando le pagine del romanzo. Pasolini arriva a Monteverde nel 1954, trasferitosi inizialmente in via Fonteiana, subito quella ricerca sociologica che arriva a noi in veste di romanzo e che ci permette di comprendere, o almeno, di percepire, quella che era la vita di borgata. Silvio ci conferma infatti che, come nel libro, la sua e quella dei suoi amici era una vita fatta di espedienti, di sotterfugi, di difficoltà opprimenti che in un modo o nell’altro, si dovevano schivare.
Ecco, in una realtà come quella, dove la quotidianità di un ragazzino consisteva nell’ingegnarsi faticosamente per racimolare qualche soldo, la generosità di Pasolini non poteva che incantare quei ragazzi, e questo non equivale a dire che essergli amico conveniva per tornaconto, ma, piuttosto, che in quella condizione misera, un aiuto del genere ti lega in modo forte, a maggior ragione se sei un ragazzo.
“Pier Paolo era generoso come pochi, na vorta a mi madre glie lasciò 10 mila lire e mi madre alla vista della banconota a momenti se sturba, lei che ne guadagnava 25 mila ar mese.”
“Ce lasciava nei tasconi della 600 tante de quelle monete, perché sapeva che noi poi se le annavamo a pia.”
Poesie, aneddoti, ricordi che contengono impliciti la stima e l’ammirazione per l’uomo che era Pasolini, per quell’animo ribelle e anticonformista, per la lungimiranza con cui vedeva le cose, per quei gesti di generosità e per il suo essere così estremamente complicato e contemporaneamente così tanto semplice. “Quando giocavamo a pallone ai campetti vicino ai grattacieli o se annavamo a fa er bagno ar Tevere era uno de noi, poi quanno stava da solo ripiombava nella sua malinconia”. “Era amico co tutti, dar politico allo stracciarolo”.
Per questo capiamo che “Ragazzi di vita” non è uno strumento ne’ un documentario, “Ragazzi di vita” è invece l’amore che Pier Paolo Pasolini provava nei confronti di questo mondo, degradato ma vitale, aspro ma ingenuo, genuino.
E alla domanda “Come avete vissuto la pubblicazione del romanzo?” Silvio ci ha risposto:
“Lì per lì male, a esse sinceri i più grandi glie volevano anna a menà, poi però qualcuno s’è accorto che parlava dei problemi nostri e in un certo senso ce aiutava”. Una risposta che forse appare simpatica e goliardica ma che velatamente nasconde un dramma, quello della riconoscenza dovuta al sentirsi finalmente rappresentati, compresi e soprattutto mostrati a un pubblico nazionale, in una Roma in cui la borgata contava meno di zero, e i loro abitanti ancor meno”.
Quindi chi è Siddartha? Con questa domanda il lettore disattento e svogliato potrebbe prorompere, fermo al titolo del libro di Hermann Hesse, il quale s’intitola proprio Siddharta. Der suchende, “il cercatore”, dal tedesco suchen, “cercare”. Cosa potrà mai cercare un ragazzino, principe brahmano di buona famiglia con un futuro limpido davanti a sé? A tali quesiti risponderei nel seguente modo: In tutto il libro 3 cose Siddharta rammenta di aver imparato da giovane, quando abbandonò le mura domestiche per andare a vivere nel bosco con i saggi monaci samani: pensare, aspettare e digiunare. Queste tre abilità a noi “uomini bambini”, come direbbe il protagonista, sembrano banali e provocano un certo riso misto a tenerezza, come a dire: “E’ dunque così facile capire il mondo?”. Tuttavia tramite le suddette facoltà le cose, le persone e le situazioni scorrono naturalmente verso Siddharta. La gente comune si fa dirigere nella vita da desideri e passioni, mentre i cercatori da pensieri e da intuizioni. Siddharta conobbe in giovinezza il Buddha, colui la cui anima era arrivata al termine delle reincarnazioni terrene perché aveva raggiunto la sapienza sulla vita e nonostante ciò ha bisogno di perdersi, necessita di sperimentare il mondo, di cercare nel profondo. Con coraggio lascia l’amico d’infanzia Govinda, che sempre l’aveva seguito, alle predicazioni di Buddha, convinto della sua santità ma ancora più convinto che la saggezza, a differenza del sapere, non si possa insegnare. Così procede per la sua strada : scopre, sbaglia e impara. Aspetta di maturare, aspetta di capire. Quando è sprofondato nell’abisso delle passioni e dei vizi terreni pensa, e con forza abbandona di nuovo tutto e digiuna nel bosco. Al fiume, dal barcaiolo Vasudeva, apprende l’ascolto; la voce del fiume che aveva insegnato quest’arte al barcaiolo ora la insegna a lui perché il mondo è più saggio e più antico di noi. Grazie a suo figlio scopre l’amore che vive come qualcosa che lo allontana dal pensiero, perchè rende irrazionali e ciò lo spinge a compiere azioni che solo un uomo che ama può fare, per poi comprendere che come il Buddha aveva lasciato libero lui di sperimentare la vita allo stesso modo la saggezza da lui accumulata non poteva impedire a suo figlio di commettere i suoi stessi errori, perché la saggezza non la si può apprendere da altri. La realizzazione finale di Siddharta è l’unità, la consapevolezza che tutto è presente e il tempo è un’ illusione, io sono in te e tu sei in me. Vivere significa pensare in ogni istante ed essere consapevoli dell’unità e della totale interconnessione delle cose. Il nirvana è tutto e niente, è ovunque e da nessuna parte e il momento che stiamo vivendo è tutto quello che abbiamo. Ci troviamo davanti un libro che ha tanto da insegnare ancora oggi a ognuno di noi. Qualcuno ora si trova a scegliere l’università, qualcun’altro deve decidere se abbandonare quello sport oppure quella persona, altri ancora sentono di aver sbagliato tutto o di voler ricominciare. A fronte di questo Siddharta risponde semplicemente di respirare, inalare l’istante presente a pieni polmoni, e di prenderci il nostro tempo per sperimentare e, casomai, anche di sbagliare. La lettura fornisce delle “armi” per vivere e sopravvivere a tutti i tipi di vita sociale, validi oggi come un secolo fa : la più semplice ma complessa di tutte è l’ascolto. Ci troviamo sommersi da persone che parlano dovunque poniamo la nostra attenzione, dai social media alla scuola, quando la sera torno a casa sembra di affogare in questo mare di parole. Trovo sia a questo punto che la differenza tra il banale sentire e l’ascolto vero acquisisce un ruolo determinante, provare a capire davvero chi abbiamo davanti fornisce una maggiore presenza mentale e un pensiero critico più ampio che ripara anche da quei discorsi vuoti o disinformati in cui sempre più di frequente può capitare di imbattersi nell’era moderna. In ultima analisi, esattamente come termina il percorso dell’illuminato, la realizzazione mentale dell’unità della materia del mondo può essere assunta come un esercizio per stimolare la propria empatia verso il prossimo. In un mondo, per certi versi, corrotto da individui superficiali e insensibili, avere quella scintilla di compassione che permette di entrare nei panni dell’altro come fossero i propri può davvero fare la differenza per molte persone.
Uno dei capolavori dello scrittore francese Emile Zola è "L'opera", un romanzo che racconta della vita di Claude Lantier, un'artista insoddisfatto che cerca di realizzare il dipinto perfetto da esporre al Salon del Louvre. L'artista viene accompagnato, nel dramma dell’impossibilità di dare vita alla propria creatività, dalla sua amata Christine, musa ispiratrice del suo capolavoro. Ritengo però che sia necessario concentrarsi sulla figura di Christine, un personaggio a cui si dà voce solo nel capitolo 9 del libro. È una donna forte, che ha abbandonato tutto per andare a vivere in campagna con colui che la prima volta che si sono incontrati la ha spinta a posare nuda per la sua grande opera, che finirà nel Salon des Refuses. Una donna dolce e gentile, anche lei appassionata d'arte, interesse ereditato da sua madre. Una donna disponibile, che farebbe di tutto per aiutare suo marito, nonostante la mortificazione che prova quando si mette a nudo. L'amore tra Christine e Claude è felice, prospero, si potrebbe pensare che abbia un lieto fine, ma man mano che si avanza nella lettura dei capitoli, si incomincia a deteriorare il loro amore giovanile. I due si trasferiscono in campagna e hanno un figlio, Jacques, un bambino con la testa troppo grande e ritenuto “stupido”, e ogni volta che Claude cerca di lavorare e viene interrotto dai suoi pianti Christine interviene sgridandolo "Lascia lavorare tuo padre". Claude viene in continuazione rifiutato dai musei, si ritrova in gravi condizioni economiche, diventa una persona violenta, fredda. Christine diventa gelosa di quell'opera, l'opera a cui ha donato il suo corpo nudo. Ormai non è più giovane, non ha più il corpo di una volta, il suo corpo non è più longilineo e il suo volto è coperto da rughe, e Claude continua a ricordarglielo ogni volta che posa, sminuendola. Incomincia a rendersi conto che Claude non è innamorato di lei, ma della sua figura idealizzata, della lei nel dipinto, preferisce la sua copia, ormai il marito la tradisce con la sua creazione. “Ah come avrebbe voluto riprenderlo a quella pittura che glielo aveva portato via!”. Christine rivorrebbe suo marito per sè, lo rivorrebbe accanto nel suo letto, fa di tutto, si spoglia in continuazione per fargli da modella, ma non funziona. La stanza è gelida, e così anche il rapporto tra i due “innamorati”. ”Quel corpo, ovunque ricoperto dai suoi baci innamorati, ora non lo guardava più, non lo adorava più se non come artista”. Ormai quel suo ritratto Christine lo considera una “concubina”, colei che le ha portato via il suo amato Claude, ma nonostante ciò non è arrabbiata con il marito. Le cose si complicano con la morte del figlio, a cui non è mai stato dato amore, che verrà dipinto dal padre ed esposto al museo, e criticato. Christine ritrova l’artista insieme all’altra donna, quella del quadro, e imponendosi, usando finalmente la sua voce, riesce a riprenderselo, a farlo rifugiare nelle sue braccia e a convincerlo a passare una notte di fuoco. È convinta di avercela fatta, di riavere suo marito, ma la mattina seguente, Claude non è più nel letto, ma impiccato sulla grande scala, davanti alla sua opera. “Lei ti ha ripreso, lei ti ha ucciso”, dice soffocata dalle lacrime. In conclusione, la figura di Christine può essere considerata il cuore della vicenda, una donna che ha donato così tanto amore, ma che in cambio non ha mai ricevuto nulla. Lei ha ispirato l’artista, ma non è stata lei ad ucciderlo, ma il desiderio di creare qualcosa di perfetto, e ciò è impossibile da realizzare, e questo Christine lo aveva capito da tempo.
“C’è un lago vicino alle mura di Enna, profondo, che si chiama Pergo, e neppure il Caistro ascolta sulle sue onde più canti di cigni. Un grande bosco corona le acque da tutti i lati, e con le sue fronde fa velo al fuoco del sole. I rami danno fresco, la terra umida produce fiori: è un’eterna primavera.” Nel libro quinto delle ‘Metamorfosi’ Ovidio narra la gara canora tra le Muse e le Periedi, figlie del macedone Pierio: dopo il canto blasfemo delle fanciulle mortali, Calliope celebra la grandezza della Natura e della dea Cerere. La Musa apre il racconto con il rapimento di Proserpina ad opera del dio degli inferi. Ovidio però non si sofferma tanto sugli effetti del dardo di Cupido, quanto sul locus amoenus, un’ambientazione idilliaca la cui serenità viene messa a repentaglio dall’arrivo dirompente di Dite. Il lago Pergo, oggi Pergusa, data la rarità di specchi d’acqua in Sicilia, mette ancor più in risalto l’eterno rigoglio primaverile celebrato dal poeta latino: una selva cinge il lago e lo ripara dal sole; Proserpina coglie fiori di campo facendo a gara con le sue amiche, quando l’amore furente di Plutone la proclama infine donna: “In questo bosco Proserpina mentre gioca a raccogliere viole e candidi gigli, e ne riempie con zelo fanciullesco le ceste e il seno, e in ciò cerca di superare le sue compagne, fu subito vista e amata e rapita da Dite, tanto irruppe a precipizio l’amore.” Nel Seicento fu Gian Lorenzo Bernini che tradusse il racconto di Ovidio in un capolavoro marmoreo e quasi carnale. Oggi quel lago, che aveva visto nascere le stagioni e gli dei rincorrere il divenire degli uomini, è per responsabilità di questi ultimi che si sta prosciugando e, ridotto ad una pozza di poche decine di metri, è destinato a scomparire del tutto, con gravi ripercussioni sulla circostante area lacustre. Ovidio, nel ricostruire il Rapimento di Proserpina, avrebbe forse pensato che la vitalità del lago potesse svanire per volontà di un dio: mai, di certo, per colpa della misera mano dell’uomo. La mitica età dell’oro di cui avevano favoleggiato i più grandi autori dell’età classica voleva soltanto giustificare il degrado, la lascivia a cui l’uomo si era lasciato andare. Quando ci siamo arrogati il diritto di poter usare violenza sulla natura, abbiamo dovuto pagare il prezzo della nostra avidità: il primo ad aver detto ‘questo è mio’ ha messo a repentaglio l’esistenza di tutta l’umanità. Per sua natura l’uomo sente di dover acquisire sempre di più, pur non avendone effettivamente bisogno. Siamo abituati ad apprezzare tutto il bene che la vita ci ha dato, solo quando ci viene tolto con forza: è quando non possiamo più porvi rimedio che ci rendiamo conto dei nostri errori. Il Lago di Pergusa, unico bacino endoreico della Sicilia - oltre che un’area di vitale importanza per la corrente migratoria di molte specie e ideale per la nidificazione - ha dovuto fare i conti, suo malgrado, con lo sperpero di questa società del ‘benessere’, in cui ci si accontenta di bisogni passibili e temporanei, e si dà per scontato un’eternità che è solo apparente. Il ver aeternum vantato da Ovidio oggi non esiste più, si perde in chilometri di fango e desolazione. Il ‘lago di sangue’ ha smarrito il suo colore e la vita ha smesso di traboccare dalle sue sponde. A colpire duramente l’ecosistema del bacino è stata soprattutto la costruzione dell’autodromo, che lo cinge e lo isola dalle colline circostanti. Il suo ciclo vitale è determinato dalle piogge e dalla naturale evaporazione estiva. Il lago si è ridotto alle dimensioni attuali a causa della mancanza di manutenzione dei canali di alimentazione, l'immissione di specie aliene e la siccità che, malgrado quel che sostiene il Ministro dell’Agricoltura Lollobrigida, da anni colpisce duramente il Sud. Il mito del ‘Ratto di Proserpina’ rispondeva alla necessità di comprendere la nascita delle stagioni, spiegando come la morte della Natura sia fuggevole e solo temporanea, perché seguita sempre da un’eterna rinascita, in un movimento perpetuo che pare discendere dalla volontà divina. Se Plutone aveva inquietato la serenità del lago di Pergusa, quando il furor amoroso lo aveva spinto a possedere Proserpina, oggi è la forza di una divinità ancor più potente ad imporre il proprio volere sul mondo, ad oscurare quel ver aeternum: l’avidità e l’indifferenza della miseria umana.
Nato a Roma nel 1947, il Premio Strega è il più celebre premio letterario italiano. Ogni anno da ormai settantasette anni una giuria composta da quattrocento persone fra uomini e donne elegge quello che viene considerato il “miglior libro” degli ultimi dodici mesi. Nella lista dei vincitori, sin dal 1947, spiccano grandi nomi come quello di Pavese, Moravia, Morante e molti altri ancora.
Se molti di voi in questo momento state pensando che il Premio Strega non lo avete nemmeno mai sentito nominare, non temete, non verrete classificati come ignoranti. Infatti col passare degli anni la popolarità di questo premio che un tempo veniva considerato prestigioso è andata scemando, sempre meno persone se ne interessano, sempre meno lettori si recano in libreria per acquistare il “libro Premio Strega dell’anno”, che ormai si riconosce solo grazie alla fascetta gialla sulla copertina. Ma a cosa è dovuto questo calo di curiosità nei confronti di una così iconica istituzione? Forse nella società di oggi ci siamo un po’ stufati dei premi, delle classifiche, della nomina del “top del top”. Nessun cinefilo che si rispetti si affiderebbe più agli Oscar o ai Golden Globes per decretare il film più meritevole dell’anno, poiché premiazioni del genere risultano in qualche modo corrotte ed estremamente prevedibili, facendo vincere film che di originale non hanno proprio nulla e che ripropongono sempre la stessa polverosa struttura. Il Premio Strega non è la solita “americanata”, ma è innegabile che il mondo della premiazione è un mondo in crisi, probabilmente perché le persone hanno i loro preferiti, i loro piccoli premi personali e vogliono che vengano rispettati. Nel 2024 il Premio Strega è stato assegnato a “L’età fragile” di Donatella Di Pietrantonio, scrittrice abruzzese già conosciuta perchè autrice dei romanzi “L’Arminuta” (2017) e “Borgo Sud” (2020).
“L’età fragile” è la storia del rapporto conflittuale tra una madre e sua figlia Amanda, una ragazza che dalle alte montagne dell’Appennino sbarca a Milano per studiare e per sfuggire dalle grinfie del suo piccolo paesino di nascita. Con l’avvento del Covid, tuttavia, Amanda deve tornare a casa e confrontarsi con la realtà del suo complicato legame con la madre, protagonista e narratrice del romanzo. Una storia tutta al femminile che si intreccia con il tragico racconto di un fatto di cronaca nera realmente accaduto, spesso ricordato come il “delitto del Morrone”. Un romanzo che descrive la difficoltà di essere donna, non solo rispetto alla disparità sociale nella vita privata e nell’ ambito lavorativo, ma rispetto alla violenza fisica, alla paura di incontrare la persona sbagliata nel momento e nel luogo sbagliato, al disagio dell’essere il continuo oggetto del desiderio sessuale di uomini che di umano hanno molto poco.
Roma, 5 ottobre 2024
Ormai pare,
che lottando per la vita altrui
si rischi soltanto di perder la propria.
Manifestando, si muore
non manifestando, si è già morti.
A costo di scomparire, manifesteremo.
Non fermatevi
Che alla fine,
all'innocente grido di morte,
risponde soltanto
il tonfo sordo della repressione.
Niente fa più paura
di una piazza vuota,
piena di ribelli corpi
ormai vuoti.
Hanno parlato.
O sì! Hanno detto la loro,
si sono fatti avanti
e lì son rimasti.
Li hanno abbattuti,
ammazzati, repressi, estirpati
di qualunque forma di vita.
Colpevoli d'essere umani.
Ma nessun manganello
ha messo a tacere
le idee vissute nelle grida
che si udirono in quella piazza ormai vuota.
Brevità
Il fugace sguardo, e
l'amor che ti travolge per l'intera vita,
sono, anche se diversi, la stessa cosa.
in un giardino, affacciato su di un prato
attende un sepolcro vuoto
e la gente che passa per la via accanto
curiosa guarda la lapide spoglia
cerca con gli occhi la terra smossa,
ma il sepolcro aspetta, a braccia aperte
solitario con nulla da poter stringere
e io con lui, con la terra e con i passanti
che si scavi il mio nome sulla pietra
e lentamente, come in sogno
mi scivoli sulle palpebre un sonno profondo
vorrei ritornare a quel luogo segreto
dove ancora la mia voce mi risponde
e i miei pensieri sono intimi e familiari
senza forestieri ad invaderli,
vorrei tornare nella mia stanza
isolarmi in un silenzio violento
e invece prepotente il frastuono
non mi lascia mai il tempo
per un piacevole intermezzo
ecco
ora che non c’è più speranza qui
nella mia stanzetta buia
e non c’è tormento nelle mie orecchie
ora che fingo, mi trastullo, indugio
pronuncio il tuo nome di rado
allora adesso c’è silenzio, c’è quiete
nulla si agita più
non c’è paura, non esiste tremore
ora che sono di nuovo guarita
da questa malattia fastidiosa
torno invincibile
a un mare piatto e lucente
ad una calma di sale
ad un silenzio invincibile
10/07/2024
A te
Di questi versi
Non frega un cazzo.
Non ti cambieranno, forse
Non li leggerai nemmeno, è così
Non cambieranno me.
Il tempo
Li divorerà, passerà poi a noi
Nulla resisterà, nemmeno la bellezza immortale
Avrebbe dovuto salvare il mondo la bellezza
Nessuno, ahimè, ha salvato lei.
Dio ha creato piccoli giochi e
Ce li ha messi nel petto
Marchingegni d’amore, non funzionano da soli.
È la dolce condanna di giocare con l’altro
Che tu chiami resurrezione, non si rivive uscendo da un sepolcro
Basta questo, un gioco d’amore
Perciò rivivi con me, fai il bagno nel sole
Risorgi anche tu, nei giochi del cuore.
LA DOLCE GUERRA
Il mio cuore era giornalmente
condannato a morte d’improvviso
prolungavi inaspettatamente la sua pena
ma a lui, piaceva
viveva ogni istante della sua vita in pienezza assoluta
ora è un vecchio generale
che ha abbandonato la guerra
non ce la fa più a camminare
e di se non sa che fare.
Si vive per combattere
Si combatte per amare.
10/07/2024
Inferno è una delle parole più ricche e complesse della nostra lingua. Di origine latina, l'aggettivo infernus racchiude al suo interno la sfumatura inferus, stando quindi a indicare una zona piuttosto bassa rispetto allo spettatore, addirittura nascosta, fino a identificarsi con la dimora dei di inferi, la terra promessa dei cadaveri, la prigione dei dannati. Col trascorrere del tempo, insomma, la parola Inferno ha sprigionato una forza immaginifica tale da lasciarci spesso attoniti dinnanzi alle sue personificazioni letterarie, cinematografiche, artistiche e via discorrendo.
Nello sconfinato panorama letterario italiano, tuttavia, non è ancora apparsa un'opera tanto evocativa, profonda e viscerale da superare, quanto meno scalfire, quella rappresentazione dell'Inferno, capace di influenzare l'immaginario dei paesi circostanti (e non solo) senza dominando sulle piaghe del tempo.
Lasciata ogni speranza e superata la celebre porta, l'Inferno di Dante Alighieri si apre a noi come uno scrigno oscuro che custodisce non soltanto le cruente punizioni a cui i peccatori sono sottoposti per aver rifiutato la luce di Dio. Qui ha luogo una delle più incantevoli contraddizioni della letteratura: nonostante le atrocità a cui assistiamo attraverso gli occhi di Dante, l'opinione pubblica non accenna a cambiare: il regno dei dannati è ancora oggi la cantica più apprezzata, perché l'umanità trasuda da ogni verso. Anche quando assumono forme demoniache, ci raccontano le loro colpe e poi ci restano a guardare, incattiviti, mentre noi proseguiamo con il viaggio, le creature che Dante incontra nell'Inferno sfiorano le corde della nostra empatia lasciando un graffio rosso dentro ognuno di noi. Un tocco che il Purgatorio e il Paradiso, per quanto siano luoghi certamente più sacri e "vivibili", è in attesa di compiersi senza mai arrivare al finale, come nell'affresco di Michelangelo La creazione di Adamo.
Il fascino terribile che l'Inferno dantesco esercita sin da sempre sui lettori, forse, non è solo frutto della tendenza, propriamente umana, al non resistere alle tentazioni. O meglio, non si tratta solo di questo. Una motivazione potrebbe risiedere nella natura stessa dell'Inferno, in quanto anche il regno dell'etterno dolore, nonostante tutto, è un'opera d'amore. Una dimostrazione magistrale della giustizia divina che si compie, progettato in origine per gli angeli che si ribellarono insieme a Lucifero, una creazione che sancì la fine delle cose eterne e l'inizio di quelle periture.
Da quel fatidico giorno rifiutare Dio, e quindi servirsi in malo modo del libero arbitrio, è un peccato che va patito per l'eternità.
Tutto esiste in virtù di questo Primo Amore.
Ma si può dire lo stesso delle cose compiute dall'uomo in nome di Dio?
Esiste un punto oltre il quale operare per Lui non è più accettabile? Se l'Inferno stesso è un luogo di sofferenza, sarà forse quest'ultima il baluardo della giustizia divina?
Questi sono solo alcuni degli innumerevoli interrogativi che sorgono nel lettore quando si addentra nella lettura di "Dopo di noi venne l'Inferno". Nello scenario apocalittico descritto da Andrew Joseph White, di cui altri due romanzi sono previsti in uscita quest'anno, sono molteplici le riprese dantesche, più involontarie che volontarie, ma sono altrettante le divergenze, com'è giusto che sia.
La verticalità non è la caratteristica principale dell'avventura di Benji, il protagonista di Dopo di noi venne l'Inferno. Come sarà proprio lui a dichiarare, "l'Inferno ci ha seguito sulla Terra e io sono il mostro che gli ha aperto la strada".
La storia non si sviluppa nell'oltretomba, ma affaccia su un futuro dove è stata presa una decisione estrema, che ha comportato la scomparsa di buona parte dell'umanità, una sorta di primo giudizio universale innescato da altri umani per "volere di Dio". Il piano non è ancora giunto al termine, ed è proprio su Benji che grava un dovere superiore, "il colpo di grazia" potremmo definirlo. A differenza di Dante, tuttavia, Benji si sottrae con tutte le sue forze alla sorte impostagli, opponendosi a tutti coloro che vogliono figurarsi come sua guida, arrivando a tentare la fuga e, fallita questa, a essere accusato di miscredenza.
Ma siccome Benji rappresenta il punto cruciale per il compimento del piano, nessuno può sbarazzarsi di lui: il ragazzo deve essere assolutamente riportato sulla diritta via.
Così Dante definisce l'allontanamento dall'ortodossia religiosa, come una strada smarrita in seguito a uno stato di dormiveglia. Va anche detto che Benji è additato come peccatore soprattutto per un altro motivo: perché non è un ragazzo vero, ma dice di sentirsi tale sin dalla nascita. E le persone facenti parte della comunità queer, specialmente negli ambienti fortemente religiosi, sono accusate di sfregiare l'ordine naturale delle cose, "così come lo ha voluto Dio". Ciò, purtroppo, è dimostrato ancora oggi dalle atroci terapie di conversione che si effettuano in diversi stati del mondo.
Già accennato prima, uno dei temi portanti della Divina Commedia è quello della guida. Sia Virgilio che Beatrice, così distanti eppure legati dalla necessità di accompagnare Dante nel suo cammino, sono permeati da una premura, un'humanitas, che nel canto II li spinge a dimenticare persino leggi fondamentali dell'oltretomba.
Sono molte di più le persone che cercano di ricoprire questo ruolo nella vita di Benji, ma senza successo. A cominciare dalla madre, dal viso angelico quanto spietato, il cui amore sembra orientato più verso il ruolo che spetta a Benji ("mamma aveva detto che sarei stato venerato come il vero strumento della volontà di Dio, santo quanto i cherubini, i troni, i regni e le virtù") che verso Benji stesso. Prima di lei c'è stato suo padre, l'unico a non condannarlo per il fatto di essere un ragazzo transgender, deciso più che mai a sottrarlo al suo destino anche se non sembra esserci altra via di fuga per Benji. Sebbene lasci la storia troppo presto, e anche in maniera alquanto brutale, le parole di suo padre sono una costante nell'avventura di Benji, una voce che gli risuona in mente durante le notti più buie e dolorose. C'è una promessa che legherà per sempre padre e figlio, anche se resta solo uno di loro a compierla attraverso l'Inferno terrestre. Infine, c'è Nick, il ragazzo a capo della resistenza, tacito e serio, consapevole che il potere di Benji sia "terrificante come quello del Diavolo e doppiamente giusto", e tuttavia disposto ad accettarlo nel suo gruppo, rifugiato nel centro di accoglienza LGBT+ di Acheson, nella speranza di vivere fino a diventare grandi, insieme.
Alla fine di tutto, è interessante osservare come per Dante l'idea di Inferno esista e persista principalmente come aldilà, restando quindi più legata al significato originale della parola. Non stupisce che il lavoro dantesco risulti insuperabile, in quanto rappresenta anche la più grande ripresa mitica greco-romana mai attuata, seppur filtrando tutto attraverso il messaggio cristiano.
L'Inferno di White, invece, è più vivo che mai, come la rabbia che vive avvinghiata all'autore. Lui stesso, nella breve lettera che apre il libro, dichiara che il tema principale è la sopravvivenza contro le atrocità che vengono commesse nel nome della fede. Anche il suo Inferno è popolato di mostri, di umani che mettono al primo posto gli umani anche voltando le spalle a Dio; e altri, quasi tutti adulti, che scelgono sempre se stessi e la propria salvezza.
L'aspetto più inverosimile del romanzo potrebbe essere il fatto che tutto si ritrova nelle mani di ragazzini, ma è in verità il tratto più solido. Perché quando non si è ancora "nel mezzo del cammin di nostra vita", lottare per la salvezza è un dovere morale per poi "uscir a riveder le stelle".
10/07/2024
Il profumo della mia elegante accompagnatrice mi guida fin sul mio palchetto riservato.
Ma non sarei rimasto sveglio a lungo.
Stanotte ho sognato che il pubblico era finzione e il palcoscenico era reale. Gli attori si muovevano, correvano come cani, saltavano, strappavano la vita via dai fiori e strappavano i petali lungo il fondale nero della notte che ingoiava il mondo.
Il pubblico era immobile, fermo nel nero della morte.
Nero tinto di rosso, il nero è la morte e il rosso è vita che fugge, rosso sangue, sorge la luna e la mia pelle bianca si congela.
Sono fermo nel mio palco che osservo, non so se dormo o se sono sveglio, non so se mi ghiaccia la luce bianca della luna o lo sguardo color ghiaccio della mia accompagnatrice. So solo che non posso muovermi, perché sono parte del pubblico e posso solo guardare il palcoscenico che vive e respira, il ritmo del respiro sono le mille corde tese nel bianco della sua luce.
Ora siamo in due nel palco, io e la luna. ma “io” esiste sempre meno, è solo una delle tante ombre che si spengono tra il pubblico.
E ancora una volta s’illumina la notte.
Nessuno ci aveva avvisato che il protagonista era il buio. Se da sempre, a teatro, le luci e il loro gioco regnano sulla scena, in “S’illumina la notte” appaiono poche volte, e mai per caso: l’intero spettacolo si svolge in un universo notturno in cui lo spettatore non si aspetta mai la luce, e perciò quando la vede sa che sta per succedere qualcosa; questo è l’ingrediente principale dell’opera, un ensemble della poetica del grande drammaturgo siciliano Franco Scaldati, eseguito da Livia Gionfrida e portato in scena da teatro metropopolare, una compagnia di origini sicule, ma da anni operativa anche a Roma e Prato, dove fra il 20 e il 25 febbraio si è svolta la prima nazionale.
Lo scopo di Gionfrida è presentare al pubblico un grande contemporaneo come Scaldati, drammaturgo e soprattutto poeta, che in questo spettacolo rende la poesia, nella sua irrazionalità, narratrice a tutti gli effetti. Ci riesce, grazie a due elementi tradizionali del teatro: la scena, allestita con corde, petali bianchi, un centinaio di stivali e poco altro, ma completa in questo binomio fatale tra buio e luci; gli attori, che si calano nei panni di personaggi “gobbi e deformi”, irrazionali, con abiti e gestualità fuori da ogni luogo e tempo, eppure così esperti nel parlare al nostro pubblico del terzo millennio.
Con la loro gestualità accesa, le loro voci concitate e qualche espressione dialettale di tanto in tanto, i personaggi parlano in siciliano, ma sono immersi in un mondo di tenebre in cui l’uomo ha ormai distrutto ogni appartenenza e ogni capacità di relazione: lo si capisce dal modo in cui i personaggi più disparati e diversi per abito e classe sociale comunicano, provano terrore nel guardarsi a vicenda e poi corrono da tutte le parti; e come nel più terribile dei sogni, non esistono forme stabili, e il bellissimo principe della notte un momento dopo abbaia come un cane. Siamo in un universo tragicomico, distante dal quotidiano, in cui le musiche di carillon, le danze e le voci dei personaggi ci divertono, ma il mondo in cui sono immersi ci mette terrore. “S’Illumina la notte” è un carillon da incubo che vuole svegliarci in preda al fiatone per farci incontrare la poesia vera e propria, il logos degli antichi che crea amicizia e uguaglianza tra tutte le creature e che rischia di essere spento per sempre.
22/05/2024
Diego - ciclabile senza musica
sei silenziosa di pomeriggio
nel timpano non ho più
un filo di scossa
non più la musica
mi incanta nel passeggio
si rivela il mondo nel silenzio
e cammino sul tuo corpo fatto a pezzi
dove sorgono fili d’erba e fiori grigi
piante tenaci
vincono sulla tua tetra corazza
il metallo dei cancelli e dei mezzi
abbandonati, è vivo come mille insetti
sulla pelle, morsi di mille braci
mille odori nuovi si alzano perfetti
e suona il fiume, ti lambisce il fianco,
ora che la musica non mi risponde
senza parole, mi sento stanco
eppure mai così bene
la strada si mostra d’un tratto
nel rovo intricato che serra le catene
Nicole
piove di su noi
su quello che c’è stato di segreto
piove e sciupa i boccioli
la grandine frusta i frutti
piove sulle mie speranze cangianti
piove sul mio affetto
pioverà forse per sempre
su questo silenzio corrotto
piove forte, ora piove piano
presto bisognerà trovare riparo
lacrimano su di noi gli alberi, le fronde
mi schiaffeggiano i rami e le spine
tutti mossi dal vento, turbati
perché piove sul non detto, sull’affetto
piove sulla volontà di omissione
pioverà ancora e ancora sul tuo inganno
Martina
morirò senza rendermene conto,
immersa nel cielo cobalto.
questa morte sarà musica:
inno alla libertà.
l’ossigeno non avrà più importanza,
perché di morte io sarò viva,
ballando sulle teste umane,
anima schiusa dal peso di nascere.
22/05/2024
Carrie non è il primo romanzo di Stephen King. O meglio, è il primo che sia stato pubblicato, ma non il primo che ha scritto. King infatti si è dedicato alla scrittura sin da adolescente, scrivendo sui giornali del liceo e dell’università. Quando nel 1974 Carrie viene pubblicato per la prima volta, King aveva già scritto molti racconti (qualcuno di questi uscito per pochi dollari in delle riviste, e poi sono stati raccolti per la maggior parte in Night Shift) e diversi romanzi (alcuni di questi rifiutati dalle case editrici) fra cui The Long Walk. Quando King si ritrova a dover scrivere Carrie quindi, non è un giovane scrittore alle prime armi che vuole intraprendere la sua prima opera, ma è già un uomo che ha dovuto superare precedentemente tutti gli ostacoli si presentano davanti a uno scrittore alla prima stesura di un libro. Alla luce di ciò, non stupiscono l’organizzazione, lo schema e la fluidità della narrazione.
Attraverso la storia di Carrie, una ragazzina bullizzata da tutti sin da quando era piccola e che vive con una madre fanatica religiosa, King riesce a dipingere e a restituire la realtà della vita nelle cittadine americane. Il romanzo è ambientato a Chamberlain, una piccola città nel Maine, in cui tutti i cittadini vivono tranquilli le loro vite e sembrano apparentemente felici. Ciò che King riesce a far risaltare con grande abilità è la caratterizzazione dei personaggi, senza mai tuttavia cadere nella generalizzazione più estrema. È proprio attraverso i personaggi che King analizza e critica tutte le componenti della vita in America.
Innanzitutto, la maggior parte dei ragazzi che frequentano il liceo di Chamberlain sono figli di borghesi benestanti, non hanno nessun problema sociale e/o familiare e trascorrono sereni la loro adolescenza. Fra questi c’è il classico gruppetto di ragazze viziate (la cui cattiveria viene mostrata in apertura di romanzo), il belloccio della scuola, il ragazzo violento pluribocciato tutto macchine e gelatina ma senza cervello. Sebbene questi possono sembrare (e lo sono) i classici stereotipi ormai noiosi, ognuno di questi personaggi vive invece un travaglio personale interiore dopo l’atto di bullismo con cui inizia il romanzo. È interessante notare come venga dato molto spazio anche agli adulti: nel libro ci sono infatti ampi dialoghi che mostrano come consciamente o inconsciamente anche loro subiscano i comportamenti dei propri figli e le ripercussioni del “caso White”.
King riesce a mostrare questo grande affresco senza mai entrare con voce giudicante all’interno del racconto, grazie al continuo cambio di narratore. Il romanzo infatti è strutturato in modo tale che ogni porzione del racconto sia estratta da fonti scritte composte in precedenza sul caso White (è un espediente narrativo dell’autore, che attraverso questa composizione riesce a mostrare i punti di vista della comunità scientifica, dei magistrati, e dei sopravvissuti al massacro che hanno scritto libri o sono stati intervistati al riguardo). Se il lettore riesce a filtrare tutte queste informazioni riconducendole ad un unico e solo grande tessitore (Stephen King), vede il punto di vista dello scrittore. King si pone come un regista con il solo intento di mostrare, e non attacca nessun personaggio moralmente. Si percepisce però l’intento da parte di King di voler mostrare l’ipocrisia di queste cittadine e dei loro abitanti, e le pressioni che la sua generazione ha subito in quell’America devastata dall’esperienza in Vietnam e di una politica noncurante dei propri cittadini. Emblematico di questo aspetto è il personaggio di Thomas Quillan. Figura che compare solo verso la fine del romanzo, e che non ha un ruolo nemmeno secondario ma terziario (se non ancora inferiore); è un onesto lavoratore che il giovedì (giorno di paga) va a sbronzarsi al pub locale. Tuttavia, ha la “sbronza cattiva” e sa che quando l’alcol sale deve andare direttamente al commissariato così da passare la notte in cella a dormire e non commettere guai. Quando Thomas racconta del suono della sirena partito a causa dell’incendio provocato da Carrie, dice: “non avevo mai sentito suonare la sirena di notte da quando è finita la guerra del Vietnam.” Ora, noi non sappiamo se Thomas Quillan abbia partecipato o meno alla guerra del Vietnam (è probabile considerando che non è sicuramente un ragazzino; ed è anche probabile che sia proprio per quei traumi che ha bisogno di ubriacarsi settimanalmente) sta di fatto che questa esperienza è stata per lui, e per la generazione di King, traumatica. Questo semplice esempio ci ricorda che il talento di un grande autore sta nei dettagli, la grande critica nelle cose non dette, e la letteratura nell’ambiguità.
Fino ad adesso non ho mai parlato della protagonista, Carrie White, se non tratteggiandola appena, e accennando solamente qualche cosa anche riguardo al massacro che compirà. Questa cosa avviene anche nel romanzo. Carrie non viene presentata subito, ma si scoprono tratti di lei man mano che si va avanti con la lettura. Carrie è una protagonista molto atipica, sappiamo il suo punto di vista ma raramente è lei a raccontarcelo. La sensazione che il lettore ha di Carrie non proviene soltanto dalle azioni e dai pensieri di Carrie, ma anche e soprattutto dalle impressioni che ne hanno i vari narratori. Nonostante questo, è ben chiaro chi sia Carrie: una ragazzina che ha solo bisogno di qualcuno che le voglia bene, ma che non l’ha mai avuto. Durante il massacro finale diversi personaggi che entrano nell’area dove Carrie sta sfogando il suo potere sovrannaturale percepiscono che lei sia Carrie White, anche se non l’hanno mai conosciuta, intuiscono che quella carneficina sia opera sua, anche ne avrebbero potuto avere idea. Carrie, persino nel momento in cui ha perso la ragione e si è lasciata dominare dal potere, fa quello che ha sempre fatto sin da piccola: ha chiesto aiuto. Aiuto da parte di chiunque passasse, di chiunque fosse disposto a immetterla correttamente nella società (e Carrie fa sempre di tutto per essere ammessa). Per questo motivo va in chiesa a nonostante le ferite, perché questo è quello che sua madre le ha insegnato: quando si deve chiedere aiuto lo si chiede a Dio.
King in Carrie si dimostra uno scrittore conscio di ciò che vuole comunicare e che sa comunicarlo. La dimostrazione di ciò si dà dal fatto che il lettore, immerso nel racconto, riesca ad empatizzare e rivedere un pezzo di sé in quasi tutti i personaggi. King sa che noi essere umani (e noi borghesi) siamo pieni di contraddizioni. Ed ecco allora che diventiamo Carrie White: persone comuni che non sono mai state ascoltate ma che in realtà dentro celano un intero mondo (fatto anche di bellezza, come è la stessa Carrie alla notte del ballo studentesco quando decide di trasgredire le regole della madre e di vestirsi da sera e di truccarsi); ma siamo anche Sue Snell: membri del branco che per mantenersi deve trovare il capro espiatorio, ma che ad un certo punto rifiutano questo modello e capiscono la giusta strada; siamo Tommy Ross: stronzi ma buoni; e infine siamo anche Christine Hargensen: non ci importa se sappiamo di essere nel torto, quando ci levano da sotto il naso ciò che abbiamo sempre avuto, vogliamo vendetta. Ed è nel finale di Carrie che King dimostra di conoscere la più grande delle lezioni che la filosofia di Schopenhauer ci ha insegnato: l’uomo non impara, e la storia si ripete.
22/05/2024
Capelli neri, Cassandra, lunghi, Cassandra, pelle d’avorio, Cassandra, luccica di riflesso, Cassandra, forma spigolosa, Cassandra, pungente, Cassandra, parole di ghiaccio, Cassandra, occhi artici, Cassandra, espressione marmorea, Cassandra, labbra dure, Cassandra, voce nera, Cassandra, maledetta Cassandra.
Mi fisso le dita troppo affusolate, aghi per filare, sbagliate rispetto alle mani di soffice delicatezza delle altre donne. il piatto d’argento mi mortifica rinviandomi l’immagine spiritica, inveisce al mio orgoglio, le altre brune ed io di neve sono tinta; la bellezza non mi appartiene, non come alle mie sorelle.
Mi giro, schiocca il legno della porta, entra Ecuba, forse dovrei chiamarla madre. No, la sua bellezza non mi appartiene, la chioma di terra non è la mia, la pelle ambra non mi si accosta, le forme abbondanti ed accoglienti non si riflettono nelle mie: mi è sempre stato fatto notare. Elegante, regale anche nel feroce passo domestico, viene verso di me col pettine intarsiato. Vorrei urlare ma non mi è permesso aprire la bocca. Vorrei scappare ma sono assediata.
Dita, tanto fini quanto violente, mi stringono tenendomi da sotto la nuca: la mia testa è ribaltata, i capelli notturni sfiorano il pavimento. Si accanisce. La tortura quotidiana inizia: tira, strappa, risale, riscende:
Quanti capelli perdi. Mah, almeno se diventi pelata ti metto una parrucca di un colore normale.
io ci sono nata così. Ne ho colpa. Strappa ancora, il dolore è soffocante, velenoso, tagliente.
Io Cassandra maledetta, con le parole distruggo e da parole non mi lascio narrare, blocco e porto sfortuna, errori di distrazioni ma poi maleficio, distruggo quel che mi riguarda perché di me niente si sappia, perché di me niente rimanga.
Le mura della mia cella sono decorate, fini di donne ben posate, donne giuste dai sorrisi lucenti, calde nei seni e nei caratteri. Propiziatorie. Le guardo, il cuore si ferma, sono errata, la macchia nera sulla stirpe di Priamo. La mia morte è auspicabile e lo so bene. Mi viene ripetuto sempre:
Che gli dei prendano te prima che chiunque condivida la tua aria muoia.
L’amore mi ripudia, quello dei genitori sempre negato, tramutato in odio che ormai mi scorre nelle vene. L’amore di fratelli e sorelle congelato nell’attimo in cui dissi le prime parole funeste, fingono ora che io non esista, ma la mia esistenza effettivamente è effimera, esisto solo nella condizione di esistenza datami da queste quattro mura che mi rilegano. Gli uomini mi fuggono, non vogliono morire nel talamo né condividere la casa con un rigurgito dell’Acheronte, figlia illegittima delle melme dell’Ade.
Lentamente, mentre assorbo quelle immagini, il mio cuore ricomincia a battere: dei tonfi irregolari, tuffi nel vuoto che risalgono dal profondo dello stomaco, stomaco nel quale Paride doveva infilare una lama lucente; sale e il cuore ci si tuffa, dolore che piange dalle mie viscere, silenzioso serpeggia levandomi il respiro, bloccandomi ogni pulsione vitale. Le donne davanti a me vivono più di me, sopravvivo vanamente per dispiacere la mia terra; loro dipinte nella pietra sono morbide, invitanti, io scolpita nella carne, repellente. Hanno uomini, hanno amore: ricordo a palazzo ambasciatori che apprezzavano la meraviglia di queste donne danzanti, la amavano come la bravura canora delle mie sorelle, parole d’oro e fiumi d’ambrosia dalle loro gole dicevano, abissi di morte e aliti d’inferi dalla mia bocca, dicevano.
Sono contrapposta ad un mondo che rovino, sono estranea nella bellezza della terra, terra che non mi è mai stata mostrata, l’avrei distrutta con il mio passo.
La luce è fuggita dalle nostre terre, abbandonato disertando la mia stanza. Non ho candele, ceri né qualsiasi altro tipo di fonte di luce. L’unica scelta è quella di mettersi nel letto, sprofondare in una tomba oscura di disperazione stratificata. Sono pietra. Con movimenti rapidi rimbocco e sistemo il giaciglio nel quale anche questa notte morirò con la speranza di non resuscitare, di tornare nell’Ade dal quale sono stata sputata fuori.
Tremo leggermente, tutto tace, le cicale non suonano più. Sento delle risate, le palpebre iniziano a tremolare, come un tic nervoso. Mi agito. Sta per succedere. Il mio corpo scatta, lo sento aprirsi a stella, non risponde ai miei comandi. Gli occhi si spalancano. Tutto è nero, gli occhi non vedono. Il rumore risorge dal profondo del mio animo, boati e fiamme, legno che arde nelle mie orecchie. Vorrei strapparmi i timpani. Vorrei strapparmi il cuore. Le ombre si manifestano, prendono limiti, confini. Si muovono. Urlano distruggendo la mia razionalità. Sono in un’estatica tortura sulla quale non ho potere. Troia è assediata, mio padre morto, mia madre schiava. Mio fratello solca il la circonferenza delle mura con il cranio spaccato. Il sangue sgorga dalla trachea di Eleno, corre giù per le mura annaffiando le terre aride. Troia brucia, un rogo di legno equino, il cranio di Paride è infilzato su una lancia, i muscoli del collo penzolano sbrindellati. Mi alzo di botto, urlo, vomito, il cranio mi sanguina per le ciocche di capelli che mi sono strappata.
È tornato tutto nero. Calmo. Piango.
Sono risorta anche questa mattina. Sono stanca, il cuoio capelluto è coperto di sangue raggrumato, la mia linfa è stata bevuta dalla maledizione di Apollo: maledetta dal giorno in cui mi negai al Dio. Sbatto le palpebre e in quel millisecondo rivedo tutto, le fiamme e la morte. Sono perseguitata. Arida dentro dalla consapevolezza che le mie parole non sono ascoltate, solo un malaugurio destinato all’avversarsi.
Mi alzo e vado davanti lo specchio d’argento, voglio farmi mortificare, voglio essere giudicata. Mi guardo e la mia immagine è tanto distrutta quanto le mie viscere: la pelle sotto gli occhi irritata e spaccata dalle lacrime e lo strofinio per asciugarle, lo scalpo pieno di capelli solo in alcuni punti, impastato di marrone sanguigno; gli occhi artici spenti, non riflettono più, pieni delle ombre della morte, pieni della guerra. Sono pazza. Ho l’aspetto di una pazza. Sono rinchiusa e nonostante questo la mia follia riesce a rovinare l’esistenza idilliaca disegnata dagli dei. Ha ragione Ecuba, nella mia anima corrotta serpeggia il soffio di follia instillatomi dalle anime dannate, sono dannata e dannatrice, peccato e peccatrice.
Rido e rido di gusto, una risata essenziale e primordiale. Continuo a ridere guardando il cadavere nello specchio. Gli occhi sono spalancati più del normale, il dolore sta scappando nero dal mio corpo. Mentre rido si riversa nella stanza, quando guardo fuori dalla finestra si riversa sul mondo. Continuo a ridere perché mi sta salvando, gli occhi continuano ad aprirsi; sto inondando il mondo della mia sofferenza. Voglio guardarmi. Corro avanti e indietro per la camera: cerco quel che riflette, ogni superficie che possa sdoppiarmi. Rido, rido, rido perché non trovo niente, non ho mai avuto diritto a nessun oggetto non essenziale:
Sarebbe sprecato per te.
Allora continuo a ridere perché ora lo vedo, il dolore mi abbandona e la lucidità di un’esistenza schifosa si palesa sempre di più. Salto, urlo euforica ed in preda all’estasi più totale. Trovo l’unico oggetto che possa sdoppiarmi, ma ha anche il pregio di liberarmi.
Mi allungo saltando verso il letto. Afferro una daga affilata e lucente, regalo e messaggio di quel che avrei dovuto fare anni fa. Mi devo liberare. La sollevo e un raggio la fa riflettere di speranza e vendetta. Rido con tutto il cuore in festa, letizia pura. Lo abbasso. Lo punto dritto sull’unica uscita disponibile in quella stanza. Lo spingo con tutta la forza che ho, giro la lama tanto fredda quanto affilata per aprire la fessura il più possibile, intanto rido.
Non rido più. L’uscita è spalancata. Sono libera.
Mi guardo il ventre: la veste bianca è inzuppata di sangue zampillante, socchiudo gli occhi e non sorrido neanche più; godo della libertà, godo della vendetta. Tutto il mondo ora sarà conquistato e distrutto dal mio sangue nero, tortura liquida a cui mai nessuno ha voluto dar retta. Ora tutti se ne pentiranno.
06/03/2024
Conosco un tempo in cui tutto fu e niente sarà
neanche le anime più tormentate vagano in pena
Inorridite da frontespizi conditi d’acidità
Scivolate di soppiatto dalla vitale altalena
Riflessi nei bulbi non son più paesaggi
Ma ragnatele di pensieri intrecciate al buio
Penelope che con cura sfiorava i suoi telaggi
è ora intrappolata nella rete dei proci come anobio
Scendono lenti i ricordi sulle gote pallide
Che tanto agognano le risate di un tempo passato
Le lancette al muro sembrano però perfide
Costringendoci a percorrere una via di cui abbiamo abusato.
Pensavamo di poter volare, nessuno l’ha notato e siamo morti
Caduti a picco come Lucifero nel cuore della terra,
Rimasti però sospesi nel limbo fluttuando assorti
Pagando pene di un residuo dopoguerra
06/03/2024
Mille baci e poi cento e poi altri mille, tutti quanti per il nostro amato Oscar Wilde.
La sua tomba, situata nel cimitero di Père-Lachaise a Parigi, è stata per molto tempo ricettacolo di grandi sentimenti. Le parole lasciate dall’autore irlandese hanno fatto breccia fra cuori di tutto il mondo, a tal punto da spingere migliaia di ammiratrici a ricoprire buona parte della sua tomba di baci. Esatto, avete capito bene!
La tomba dello scrittore fu proprio il luogo scelto dalle sue accanite lettrici per lasciare traccia del loro smisurato amore attraverso numerosissimi baci.
Fu verso la fine degli anni ’90 che apparve la prima impronta, impressa da un rossetto rosso proprio sopra la statua della Sfinge, divenuta per questo motivo un simbolo dal grande potere erotico. Così, in poco tempo, la tomba di Oscar Wilde si è trasformata in un monumento all’amore, un sentimento che trasuda da ogni bacio, da ogni scritta e da ogni cuoricino che le nostre ammiratrici provenienti da ogni parte del mondo hanno deciso di dedicargli. In questo modo le donne hanno scelto di ringraziare un autore, con le sembianze e la fama degne di una rockstar, per le sue magnifiche opere e divertenti aneddoti.
Un bacio può rovinare una vita, scrisse così Wilde; pensate se avesse saputo della quantità di baci che a lungo hanno trovato dimora sulla sua lapide!
La tomba è stata ripulita e ora si può nuovamente ammirare il suo candore originario. Le autorità hanno deciso di aggiungere di fronte ad essa anche un vetro protettivo, installato il 30 novembre 2011, in occasione del suo anniversario di morte, per cercare di proteggerla da ulteriori dimostrazioni d’amore da parte dei passionali fan.
Questa è stata una precisa richiesta da parte di Merlin Holland, nipote del grande scrittore, che ha lamentato la fragilità e la porosità della pietra a seguito dei vari interventi di pulizia.
Non sarà certo, però, un vetro protettivo a fermare l’amore folle delle ammiratrici che il nostro Oscar ha colpito nel cuore. La grandiosità di questo autore, come abbiamo potuto constatare, è tale da superare anche le barriere della morte e della memoria del defunto: mai potremmo dimenticarci di lui e delle sue parole. I baci sono simbolo di questa memoria e di questa devozione che durerà per sempre, che andrà oltre l’inesorabile scorrere del tempo. La sua è stata certamente una vita difficile ma ora, nel suo momento di riposo, migliaia sono le persone pronte a ringraziarlo per quello che ha fatto, per essere stato un personaggio che ha scaldato a tal punto i nostri animi e che, anche se solo per pochi istanti, ci ha fatto sentire bene.
Date alle donne occasioni adeguate ed esse saranno capaci di tutto.
06/03/2024
Questa sera mi sento rissoso. Stringo i polsi e attendo impietrito. Sono frustrato agli occhi di quello che mi tocca guardare: un bruco si sta mangiando una mela; prima la buccia, poi la polpa, il torso e il picciolo. Mangia così lentamente che forse la mela marcirà ancor prima che quello finisca di mangiarsela! Morirà di fame, insomma, ma la colpa è solo mia: -vedete- dovevo fare dei bruchi più grandi o delle mele più piccole; la fame più lenta o la bocca più veloce. Un completo disastro, mi toccherà rifar tutto daccapo, per l’ennesima volta.
Nel farsi della notte impastavo la terra.
Il mio desiderio era piuttosto semplice d’altro canto: già, ma cosa volevo? A stento ricordo ciò che ho sempre voluto.
Toccava lavorar di notte. Quando l’argilla se ne stava fresca ed il silenzio del buio mi aiutava a dipingere i corpi delle persone: li facevo coi vestiti, le camicie e le cravatte; persino con orecchini e gemelli. Ad alcuni facevo delle labbra più sottili delle mie, ad altri -forse- delle iridi più colorate e dei capelli più lunghi.
Ancora. Di notte. La terra.
Stupidamente credevo che il mondo avesse bisogno di compagnia, come se avesse avuto bisogno del respiro, dei passi e delle parole delle persone. In verità, io ne avevo bisogno. Per questo motivo faticavo e sudavo disperatamente; i miei desideri più profondi rantolavano nel buio e, coi palmi delle mie mani sudate, cercavo di portarli alla luce.
Allo sciogliersi dell’alba raccontavo una fiaba.
La terra era difettata. Ve lo giuro, credetemi: era rotta o bacata! Se ne stavano tutta la notte immobili e fisse altrove; fin su in alto nel cielo, là dove volano farfalle e rondini. E non appena i primi raggi del sole svelavano il mio egoismo, le mie fatiche si sgretolavano in mille ciottoli e polveri fino a coprirmi la vista e riportare la notte nel mondo intero. Dimenticavo qualcosa: già, ma che cosa?
Ancora. All’alba. Una fiaba.
Palpitava il mio cuore, mentre dalle macerie scricchiolavano voci e risate che mi facevano indietreggiare e sudare fin sotto i talloni; scivolare per terra e sbattere la testa su una corteccia di sughero -io sono un codardo e di farmi male non ne voglio mica sapere!
Dalla sabbia emersero delle creature estranee alla mia intenzione: le nottole. Proprio in quell’istante la mia Frustrazione si fece carne: proprio quella che stringevo quando fallivo. Erano la negazione del mio lavoro, del mio desiderio; avevano il manto fatto di Vergogna e il corpo di Lussuria. All’ombra del meriggio, il preludio della fine.
La pelle della nuca si scotta. Il sole del mezzogiorno brucia e arde la pelle: ero costretto così a fare ombra ai miei occhi, costretti a guardare dove le nottole si stavano cacciando. Vagavo senza direzione alcuna sulla sabbia calpestata solo dalle mie caviglie incrinate; le burrasche e i fulmini. Tu dove sei?
Ancora. Al meriggio. La fine.
Ve lo dico io! Quelle vedevano le cose a testa in giù: la speranza e il timore al contrario, il bene come se fosse il male; addirittura, come se le radici degli alberi fossero i rami e le frasche. Come se le nuvole fossero la terra e i prati.
La notte, l’alba e il meriggio.
Presto mi trovai costretto in una grotta e, nudo, dovevo subire le Loro cattiverie. Mi mostravano giochi di ombre, illusioni di viole e tulipani; bugie e frattaglie. Mi mentivano dicendomi che fuori -nel mondo- c’erano persone e cose proprio come io stesso me le ero immaginate. Ma io sapevo che nemmeno nei sogni la realtà poteva essere così perfetta, tantomeno qualcosa fatto da me.
Ancora.
Ma all’imbrunire balbettavo. Le nottole scappavano irretite dalle loro tane; la notte che le aveva concepite le terrorizzava e le faceva urlare maledizioni contro di me.
Solo, osservavo la luna mentre mi raccontava il vero: faceva chiaro sui miei dubbi e curava la mia pelle dalle bruciature. Riuscivo, per un momento del giorno, a sentire i Suoi mormorii: troppo lontani e silenziosi per essere ritratti. Schiariva la mia voce dai dubbi e immediatamente capivo dove sbagliavo, come se il cranio si fosse aperto ed avesse esposto la carne del cervello all’aria; le idee nocive e superflue erano volate via col vento della sera.
<<Ho fatto dell’uomo un mestiere e non un’arte; la vita una necessità, non un’opportunità! Ho deciso, voglio la Luna!>>.
La notte. L’alba. Il meriggio.
Provo per l’ultima volta con la terra: <<Questa volta senti le mie intenzioni, lo voglio a testa in su, e che guardi il mondo dal verso giusto; questa volta, dev’essere un uomo a regola d’arte!>>.
Attendo nudo nella caverna, sopportando i soliti spettacoli. Questa volta le ombre sono accompagnate da strilli, risate e versi blasfemi. Ma la Luna m’impedisce di soffocare e tiene vivo il mio corpo, oramai al limite.
La notte. L’alba. Il meriggio
Questa volta la sabbia si scioglie, cola per terra, bolle per poi evaporare. Sento dei colpi di tosse, la visione non è ancor nitida. Silenzio. Malapena respiro dall’ansia e perfino i miei pensieri balbettano alla sola idea di dover uscire, ma non ho più tempo per le domande.
La sagoma di un uomo mi si avvicina. Vedo dei colori. L’immagine sfocata s’infrange in un ghigno aberrante; stringo la mia carne. Era un giullare. Porta al collo una serpe e tutt’intorno alle braccia, delle catenelle. Fra i denti tiene una collana sporcata dal suo rossetto, lo stesso colore del naso. La serpe striscia fra la sua parrucca di mille colori e nessuno; sibila e mi mostra le fauci. Stringo la mia carne: questa è Paura.
Ancora.
<<Dammi la Luna!>>. Volevo gridagli a pieni polmoni, ma le catene di quel giullare mi strozzavano e sbavavo dalla bocca. Mi ha poi sbattuto fuori dalla grotta in pasto alle nottole. Mentre mi mangiano vivo piango. Prima, le lacrime bruciano i miei tagli poi, scavano la terra fino a inondarla del tutto: che fortuna, le nottole non possono finire di mangiarmi.
Il giullare cammina sul mare delle mie lacrime; s’avvicina con le sue meste danze mentre i miei fallimenti volano sopra di noi. <<Voglio solo che la Luna mi sussurri parole con cui raccontar delle fiabe, nulla di più>>. Mi ripeto mentre stringo la mia carne.
Ma il giullare non sente e con la collana sprofonda la mia testa nell’acqua. E con gli occhi a penzoloni sul gracidio delle sue menzogne; annego nella mia perdizione e il rimpianto di non aver potuto parlare con quelle mie creature. Avremmo potuto provare con gli specchi e col verde che fanno quando li metti uno di fronte all’altro; avremmo potuto usare i segni, i versi o le botte; avremmo potuto insieme piangere fuori dal tempo. Sto annegando.
La notte. L’alba. Il meriggio.
Infine, un pettirosso appoggia le zampe sulla mela oramai bacata da un pezzo e si mangia il bruco.
POESIE
nella notte
sentii la mia collera sbiascicare fra le mie braccia; ossia
mentre tentai di strapparmi il dubbio di dosso. Invano caddi a terra e tutto d’un tratto,
presi sonno in grembo
al deserto cocente.
di meriggio
vagabonda,
la mia mente sulle brune
Spiagge; si frantuma
in Silenzio.
all’alba
e come le spiagge
anche il cielo. i Suoi frammenti
han fatto le stelle, ed
io solamente
potei vederti fissa
lì
in alto.
06/03/2024
“L’uomo non ha fatto altro che inventare Dio per vivere senza uccidersi” : è la cruda affermazione 1 pronunciata da Kirillov, uno dei personaggi de I demoni, romanzo scritto da Dostoevskij e pubblicato per la prima volta nel 1873. Otto anni più tardi, il filosofo tedesco Friedrich Nietzsche scriverà ne La gaia scienza: “Dio è morto! Dio resta morto! E noi l'abbiamo ucciso!” 2 .
Dunque, non solo abbiamo creato Dio per non ucciderci, ma ci siamo sporcati le mani del suo sangue, partecipando in prima persona alla sua distruzione. Privata di quell’illusione che Sigmund Freud, padre della psicoanalisi, descriveva come una “cattiva scusa” , la vita appare spogliata del suo senso. Essa 3 diviene vita assurda. E se è vero che non c’è un senso, a quale scopo l’uomo, privato dei propri appigli metafisici, dovrebbe continuare a vivere?
A discorrere sull’assurdità della vita fu soprattutto Albert Camus, scrittore e filosofo francese nato nella prima metà del Novecento, nonché importante esponente dell’esistenzialismo. Per lui l’umanità si è illusa, attraverso la religione e quegli altri surrogati creati per colmare il vuoto lasciato dal loro abbattimento, che la vita avesse uno scopo preciso. Ma consegnare il senso della vita ad un’entità esterna e superiore è, per l’autore, un vero e proprio suicidio filosofico, una mera consolazione per sfuggire agli angoscianti dubbi che conseguirebbero dalla presa di coscienza dell’assurdità e del nonsenso. Accettare questa condizione significa accettare dunque l’assenza di un significato definito.
È proprio la dialettica tra il desiderio umano di ordine e sicurezza e la realtà caotica e indifferente che lo circonda a dare vita a questo assurdo che impregna la nostra esistenza. La nostra ragione pone delle domande al mondo, ma esso tace: in questo consiste l’assurdo. Camus non fu il primo a rendersi conto di questa assurdità, ma coloro che prima di lui vi arrivarono tentarono di sottrarvisi attraverso la speranza – come fece, ad esempio, Kierkegaard con la speranza e la fiducia in Dio –, il suicidio o dando un significato generico all’esistenza. Camus sostiene, opponendosi a questi altri pensatori, che tali tentativi non facciano altro che negare questa scoperta.
Che fare, dunque, di questa vita priva di senso? Camus sostiene che dall’assurdo non bisogna fuggire. Al contrario, esso dev’essere accolto e sopportato. Non si tratta di una visione nichilista e pessimista della vita; si tratta di scorgere, nell’assurdo, la strada verso la propria libertà. L’uomo deve accettare l’assurdità della vita, badando a non affidarsi a cieche vie di fuga consolatrici. Sopportando l’assurdo, l’uomo vi si ribella, ed è questa ribellione – che si esprime nell’arte, nella solidarietà, nella giustizia e nell’amore – il mezzo che lo rende libero. Una ribellione passionale e creatrice, quella dell’uomo assurdo, che per Camus deve vivere consapevolmente la propria condizione e creare il proprio senso, sfidando il mondo senza illudersi e godendo della propria libertà senza ignorare i propri limiti. Un senso, questo, che non deve essere preformato, già deciso e imposto dall’esterno, bensì un senso autentico e personale. La vita assurda è il destino finale a cui l'essere umano deve pervenire, e il punto di partenza di questo percorso risiede proprio nel riconoscere e accettare l’assurdo. Per Camus non è importante vivere bene, ma vivere il più possibile, ovvero intensamente e consapevolmente, spinti dalla “passione di esaurire tutto ciò che ci è dato” . Questo è 4 l’amor fati di Camus, il suo dire “sì” alla vita. L’unico ostacolo a questo vivere è la morte, intesa sia come morte fisica che metafisica – disconoscendo l’assurdo e rifugiandosi nella speranza. L’ ”uomo assurdo” sceglie la storia all’eterno, la fugacità della vita alla consolazione dell’infinito.
Camus individua la migliore personificazione dell' “uomo assurdo”in Sisifo, personaggio della mitologia greca, da cui deriva il titolo di una delle sue opere più conosciute e influenti, Il mito di Sisifo. Punito per aver offeso gli dei con la sua astuzia e la sua empietà, Sisifo è condannato da Zeus a spingere eternamente un masso su una collina, che rotola a valle appena raggiunta la cima. Camus non vede questa condizione come una condanna. Al contrario, Sisifo è padrone del proprio destino: il macigno gli appartiene; compiendo il suo lavoro privo di senso, egli diviene consapevole della sua condanna e silenziosamente vi si ribella, diventando un uomo libero. Un inno alla vita, quello di Camus, che può essere riassunto attraverso le ultime parole di questa illuminante opera: “Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice”.
1 Dostoevskij F., I demoni, Einaudi, Torino, 2014
2 Nietzsche F., La gaia scienza, Adelphi, Milano, 1977
3 Freud S., L’avvenire di un’illusione, Bollati Boringhieri, Torino, 2012
4 Camus A., Il mito di Sisifo, Bompiani, Milano, 1947
06/03/2024
A guardare con occhio critico i giganti dell’Ottocento e del Novecento, tra quelli che hanno scelto le donne come protagoniste dei loro romanzi, risalta subito una certa somiglianza in alcuni aspetti di queste eroine. Sembra esserci quasi un modello declinato che salta fuori ripetutamente, uno schema, una figura onnipresente e fastidiosa. Questa donna, la donna costruita, è una figura che non è altro che la metà complementare di un uomo idealizzato. Tratti di questa donna emergono anche in capolavori come Anna Karenina di Lev Tolstoj, Madame Bovary di Flaubert e Lady Chatterley di Lawrence. Ma chi sono queste donne, e come fanno a rappresentarne una sola, univoca? La donna di cui parlano Tolstoj e Flaubert si tratteggia nel tentativo di riempire il vuoto del maschio, a scapito dell'inverosimilità del risultato. Se l’uomo è razionale, controllato, corretto e integro, la donna sarà irrazionale, isterica, moralmente inconsistente. Per esempio, quando nel capitolo XXIX di Anna Karenina viene descritta la caduta da cavallo di Vronskij, Anna sembra essere fuori di sé. Vuole andare via ma non riesce a staccare gli occhi dalla scena, ignora suo marito, addirittura sembra insofferente alla sua presenza e disattenta alle sue parole. “Ella di nuovo voleva andar via. — Vi offro ancora una volta il braccio, se volete andare — disse Aleksej Aleksandrovic, toccandole il braccio. Ella si scostò da lui con ribrezzo e, senza guardarlo in viso, rispose: — No, no, lasciatemi, rimango.” Cosa emerge in questo scambio freddo e scostante tra i due coniugi è la distanza, provocata dall’amore di Anna per Vronskij e un’incapacità di controllarsi della donna, un istinto più forte della volontà e di ciò che sarebbe corretto fare in una situazione del genere. E dall’altra parte c’è suo marito che impassibile esternamente si controlla, non lascia che il dubbio serpeggiante che si sta insinuando in lui alieni i suoi comportamenti, la sua gentilezza o fermezza. Aleksej è saldo, Anna instabile. E come Anna del resto Lady Chatterley. Il romanzo di Lawrence che fece al tempo tanto scalpore da essere proibito fino al 1960 rappresenta una rivoluzione in letteratura, un testo passionale che racconta la vitalità dei sensi contrapposta all’atrofizzazione sempre più dilagante nella società inglese industrializzata. E se nel libro l’adulterio di Connie sembra essere simbolo di una ribellione profonda, i connotati di questa donna non sono poi così distanti dalla donna inventata di cui parlavamo prima. Lady Chatterley si dovrebbe distinguere per un’educazione più libera, aperta e innovativa, ma nulla sembra frenarla dal divenire un prolungamento del marito disabile. E sebbene lei si mostri una moglie paziente e disponibile, la sua natura animale, di creatura inferiore e istintiva la porta a tradire suo marito con un uomo sano e vitale. Ed ecco che riappare: la donna costruita. Da una parte sottomessa, materna e caritatevole, dall’altra animalesca, irrazionale e istintiva. Come queste esistono mille esempi di donne costruite. Potremmo nominare Carla, de Gli Indifferenti, facilmente abbindolata da Leo ma in fondo consenziente alla violenza. Oppure ancora la Andrée di Simenon de “La camera azzurra” che è così sensuale, primitiva nella sua ricerca del piacere e così priva di dignità. Naturalmente in capolavori immensi come Anna Karenina e Madame Bovary la psicologia di queste donne è talmente sviluppata e complessa da lasciare minimo spazio a questa costruzione, che però riesce comunque a baluginare in alcuni passaggi. Queste figure appartengono tutte a un’idea della donna che si è andata delineando nel tempo, un’incomprensione che si è trasformata in affermazione. È stato dato un nome a una sensazione: l’immenso dubbio che assale quando si entra nell’universo femminile. E non per difficoltà di comprensione, quanto più per la volontà di trascurare, di ignorare. Ad un occhio attento non può sfuggire come tutte queste donne siano identiche l’una all’altra nella loro indole annoiata e nel loro carattere malizioso. Sono uguali perfino nell’invenzione di un desiderio sessuale femminile, che sembra questa grande scoperta all’uomo ma che in realtà non descrive nulla della vera visione della donna sulla sessualità.
04/01/2024
Neppure noi sapevamo d’essere al mondo.
Sarà capitato a tutti, chi più chi meno, di sentir parlare, nel corso della propria giovinezza, di battaglie e conquiste, fortezze e cavalli, armi e cavalieri che le indossano. Ma ci si è mai chiesti chi si cela davvero dietro le corazze?
I nomi posseduti dai fanti di cui cantano le epopee sono sempre tra i più insoliti: Aglovale, Mordred, Loderingo... e Agilulfo. Quest’ultimo nome, che tanto ci ricorda l’Astolfo di cui scrisse Ludovico Ariosto, è proprio del prode paladino la cui storia è narrata da Italo Calvino nel suo romanzo “Il cavaliere inesistente” (1959), l’ultimo della cosiddetta “Trilogia degli antenati”. Questa storia si configura in un’epoca Medievale indefinita che prende forma tramite rimandi reali e luoghi di fantasia.
Ciò che distingue Agilulfo dagli altri combattenti lo si può evincere dal titolo del libro. Nel momento in cui Carlomagno, a capo dell’esercito, domanda al cavaliere di alzare l’elmo per mostrare il suo volto, ecco che al posto delle tipiche fattezze umane compare il nulla. Agilulfo, dunque, è un cavaliere che riesce ad essere presente grazie alla sua sola forza di volontà, nascosta dalla pesante armatura bianca e splendente che sfoggia con fierezza.
Per utilizzare un’espressione dello scrittore, è un cavaliere che non c’è, ma che sa di esserci.
Agilulfo è diverso dai suoi compagni d’armi non solo per motivi “estetici”; conferisce ordini e infligge punizioni, così come il protocollo cavalleresco comanda, inimicandosi gran parte dei commilitoni. Inizia dunque a risultare evidente il paragone che lo scrittore crea con la condizione dell’uomo contemporaneo: un uomo alienato, dedito ai doveri, incapace di concedersi un momento per poter esplorare il proprio mondo più intimo, con la costante paura di perdere il controllo delle cose. D’altronde la nostra vita è costituita da un insieme di distrazioni: più l’animo è tormentato, più queste crescono così che la mente possa restare quanto possibile “al di fuori”.
«A quell’ora dell’alba , Agilulfo aveva sempre bisogno d’applicarsi a un esercizio di esattezza: contare oggetti, ordinarli in figure geometriche, risolvere problemi di aritmetica. È l’ora [...] in cui si è meno sicuri dell’esistenza del mondo. Agilulfo, lui, aveva sempre bisogno di sentirsi di fronte le cose come un muro massiccio al quale contrapporre la tensione della sua volontà, e solo così riusciva a mantenere una sicura coscienza di sé.»
Il paladino nel corso del romanzo dovrà affrontare una serie di sfide, tramite le quali verrà a conoscenza del suo opposto, Gurdulù, che c’è ma che non sa di esserci, incapace di distinguere il sé dall’altro: l’uomo libero dal fardello dell’oggettività.
E i personaggi/tasselli che vanno a comporre il puzzle dell’umanità non sono finiti: ci sono Bradamante, la donna combattente, Torrismondo, causa prima dei tormenti del protagonista, Rambaldo, desideroso di vendicare la morte del padre, e così via. Tutti loro, a differenza di Agilulfo, sono tangibili. Eppure, la loro incessante ricerca di sé prosegue senza sosta, attraverso morali pratiche e assolute.
Calvino innesca innumerevoli interrogativi sorprendentemente attuali. Non esistono manuali che possano fornirci delle risposte oggettive alla problematica dell’essere. Tutti siamo, ma la consapevolezza di tale affermazione la si può acquisire solo con il tempo, e con un incessante lavoro interiore. Come si debba essere, sta al singolo individuo decifrarlo.
Conquistare l’essere significa trovare l’equilibrio.
Di certo bisognerebbe che ognuno indagasse a fondo nell’animo per ritrovare la propria identità, facendo attenzione a non piegarsi ciecamente alle regole del mondo.
Anche ad essere si impara.
04/01/2024
Il nome della rosa
Un libro che tutti vorremmo aver letto, o che raccontiamo di aver letto, ma che nessuno ha letto o ha voglia di leggere: un classico. Questo è Il nome della Rosa: un classico tra i più vicini a noi nel tempo ma almeno in apparenza tra i più lontani nei temi, un classico che parla in latino attraverso codici miniati e dispute teologiche, eresie insulse e abbazie medioevali. Un libro d'elitè, che fa spavento, e non mi sento di rimproverare chi si è tenuto distante finora da quelle pagine dense e avvelenate; tuttavia se siete ormai inseriti a dovere nel mondo della lettura, prima o poi gli scaffali della biblioteca dell'Abbazia diverranno un passaggio obbligatorio, e una volta dentro e poi fuori non resterete più alieni nelle chiacchere tra lettori, non ci sarà nemmeno bisogno di fingere di averlo letto per darvi un tono intellettuale.
“in nomine Rosae” viene rilasciato al pubblico nel 1980 (Bompiani) e nel 2020, ben quattro anni dopo la morte dell’autore, viene riedito dalla casa editrice fondata da lui stesso, La Nave di Teseo, con l’aggiunta dei disegni e degli appunti dello stesso Eco, realizzati al momento della prima stesura; ma è stato scritto a partire dal 1978, e benché ci introduca in tutt’altra realtà storica, l’autore traccia “di nascosto” un ritratto sfocato della società dei meravigliosi anni ‘70, a seguito del grande boom economico e demografico di quegli anni, un'edace occasione di avanzamento, un ansioso slancio di volontà di distaccarsi dagli anni della censura e del proibizionismo, ormai lontani.
Da studioso e intellettuale, Eco ha sviluppato tutt’altra coscienza: la consapevolezza dell’importanza degli anni passati, che potrebbe sembrare palese al giorno d’oggi ma che rare volte la massa si ferma ad ammirare: e gli uomini del basso medioevo dal canto loro poco a poco hanno dato vita alla memoria popolare di cui si compone la società odierna.
Nell'opera inoltre Eco ha infuso tutto il sapere e la passione derivatigli da anni di studi; per questo Il nome della Rosa oltre ad essere romanzo giallo, storico, gotico e filosofico è anche il mezzo con cui l’autore ci trasmette le sue numerose teorie sul medioevo, che vanno dall'analisi storiografica all'argomento teologico, trattato dagli stessi personaggi del romanzo.
Osserviamo la storia: in un classico stratagemma Manzoniano, un narratore di primo grado non esplicitamente associato all’autore ci introduce ad un manoscritto in lingua latina, scritto da un anziano monaco con nome cattolico di Adso da Melk, il quale sentendosi prossimo alla morte decide di comunicare ai posteri i fatti sibillini accaduti durante il noviziato, nel 1327, nell’abbazia benedettina di Santa Scolastica, nell’Italia del nord.
I personaggi, come in ogni giallo che si rispetti, sono delineati in tutti i loro vizi, le loro attitudini e inclinazioni; e il personaggio centrale, che Adso assiste durante l’indagine, è il brillante monaco francescano Guglielmo Da Baskerville (qui viene automatica l'associazione al celebre luogo dove è ambientata una delle prime indagini di Sherlock Holmes). Guglielmo è il maestro di Adso, e si comporta con lui in modo benevolo, rimproverandolo e prendendolo in giro; viene scelto dall’Abate benedettino Abbone da Fossanova per risolvere un tragico e a tratti blasfemo avvenimento che ha colpito l’abbazia: l’apparente omicidio di Adelmo di Otranto, miglior miniaturista dell’abbazia.
Col proseguire delle indagini, tra i corridoi, le celle, i chiostri e gli uffici dell'abbazia gli omicidi diventano sempre di più, e sempre più diabolicamente in linea con un'oscura profezia pronunciata dal monaco più anziano, sui sette giorni precedenti l'arrivo dell'Anticristo.
Il romanzo è appunto diviso in sette grandi capitoli che coincidono con i sette giorni passati da Guglielmo all'Abbazia, e ogni capitolo è scandito dalle ore tradizionali della giornata del monaco (mattutino e laudi, ora terza, ora sesta, ora nona, vespri, compieta): in questo lasso di tempo, la storia segue anche una seconda linea narrativa; infatti in quegli anni le tensioni tra l’Imperatore Ludovico il Bavaro e il Papa Giovanni XXII erano quasi sul punto di scoppiare, e il Bavaro al fine di uscirne vincente si era ingraziato i monaci francescani, sostenitori delle tesi pauperistiche che si opponevano agli ideali di ricchezza del Papa. Il francescano Michele da Cesena dunque viene messo a capo della delegazione imperiale che giungerà il terzo giorno per dibattere nell’abbazia (che in quanto benedettina è territorio neutro) con la delegazione avignonese del Papa, che arriverà il quarto giorno. Fra Guglielmo è un francescano e parteggia per la delegazione imperiale ma si mostra molto distaccato e lontano da qualsiasi secondo fine di ricchezza o potere, e il suo impegno principale è volto verso la risoluzione del caso: egli possiede ottime doti deduttive acquisite al tempo in cui svolgeva le sacre funzioni di inquisitore, e il suo intervento sarà indispensabile per calmare il litigio verso cui la colta discussione stava iniziando a pendere. Questa seconda linea narrativa si chiuderà con la partenza di entrambe le delegazioni e nell’incertezza, senza arrivare ad un accordo vantaggioso per entrambe le parti; questa serie di incontri tuttavia sarà importante per la maturazione del giovane e inesperto Adso, che porrà al suo maestro e ad altri monaci diversi interrogativi, e a seguito dell’incontro con Salvatore, monaco gobbo e deforme che parla un ensamble di tante lingue romanze, il novizio conoscerà la storia del cosiddetto “fiume ereticale” iniziata dal francescano Fra Dolcino, che riunì una setta di seguaci con cui occupare centri abitati di campagna e condurre una vita primitiva e blasfema agli occhi degli altri sacerdoti, che mandarono al rogo molti dei dolciniani.
Nel monastero oltre a Salvatore vi è un altro dolciniano, Remigio da Varagine, cellario, che sarà punito (in quanto ha portato una popolana all’interno dell’abbazia per ricevere favori sessuali) dall’inquisitore Bernardo Gui, capo della delegazione papale nel quale si può vedere un’opposizione naturale alla figura di fra Guglielmo, un ex inquisitore che ha scelto di proseguire la ricerca della verità escludendo l'autorità e la violenza.
Merita una menzione la biblioteca, luogo cui gira intorno tutto il mistero, la cui struttura interna è nota solamente al bibliotecario e al suo assistente, che dopo l’abate ricoprono la posizione più in vista nell’ambiente clericale.
I personaggi sono praticamente tutti monaci e, come asserisce l’abate, hanno il compito di essere i “pastori” del “gregge” (il popolo). Tuttavia ad un più attento esame ci si accorge che il romanzo strizza l’occhio al popolo, costretto nella sua ignoranza e nella sua semplicità a vivere alle dipendenze dei pastori; questi ultimi dal canto loro si rivelano spesso ipocriti e schiavi dei vizi che le loro vite appartate e le loro preghiere dovrebbero invece reprimere. all’interno della storia il popolo è rappresentato dall’unico personaggio esterno al mondo della chiesa: un'umile ragazza entrata nel monastero di soppiatto per offrire la sua virtù al cellario in cambio di cibo per la sua famiglia. Adso, ancora giovane e bello, sarà sorpreso da lei durante una veglia notturna, e la fanciulla gli si offrirà senza che il giovane casto potesse opporsi: sconvolto, l'apprendista si confesserà solo con il suo maestro, che non lo punirà e lo inviterà ad una riflessione più pronfonda.
Questo incontro è forse l'unico elemento poetico di tutto il romanzo, e rimarrà per sempre impresso nella mente del giovane, che alla fine del suo manoscritto descriverà la vivida immagine della ragazza che amò solo per una notte, “l'unico amore terreno della vita mia, di cui non seppi, né saprò mai, il nome”. Per i lettori però, troviamo forse un indizio nella sibillina formula di chiusura dell'opera: “Stat Rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus” ("la Rosa primigenia esiste solo nel nome, possediamo soltanto nudi nomi").
04/01/2024
a F.
ἔγω τε γαρ φιλην μ' ἇς κεν ἔνη μ' ἀυτμή’.
Saffo
Dissacrante, spesso, appare visitare luoghi liturgici nella notte scura, specialmente se da alcune vecchie bigotte son narrate antiche leggende per tener lontani i bambini dai loro traditi crocifissi. Sulla Certosa di San Lorenzo in Padula si raccontava di fantasmi, monaci sepolti nei giardini e che continuavano nell’esercizio del motto “Stat Crux dum volvitur orbis”. Quella notte del ‘61 era anche più terribile: la luna era timida, le stelle erano scese in pellegrinaggio sulla Terra e la natura era silenziosa ma attenta. Leandro percepiva piccoli occhi, viscidi come zampe di ragno sul suo collo, alle spalle. Era in scacco, impigliato in uno scacciasogni, tuttavia non temeva nulla, pieno del coraggio di un ragazzetto undicenne che ha scoperto i fuochi fatui in un cimitero di periferia. Era tardi e lui, in atteggiamento di preghiera, pregava non come farebbe un lupo alla luna, bensì in modo ascetico e nostalgico. Fumava, ma la bruma che nasceva dal suo respiro nel buio era invisibile. Un po’ come lui, nato solo al mondo. Fumava, senza contare, senza curarsi del male, come sul balcone della casupola borghese in cui viveva la nonna, dove ogni tiro era un senso di colpa nei confronti di una donna che era tanto ostile al tabagismo quanto alla depravazione della carne. Fumava ed esorcizzava pensieri: tanti viaggi ed esperienze varie alle spalle, ma anche una promessa, una cattedra al liceo del paese, sufficiente per richiamarlo alle radici. Quanto odiava quelle radici, o forse solo le pensava lontane. Gli parevano un randagio. Il paesello aveva l’andamento di un moribondo, solo la solitudine nostalgica nel cuore lo rendeva simile a lui: il rimpianto di un amore materno, perduto al primo vagito, in qualche viscida e appiccicosa cantina. Non pensava mai a sua madre, e suo padre gli compariva solo in sogno, come antidoto. Aveva solo sua nonna, sempre rinchiusa nella chiesa greca di fianco alla casupola. Gli veniva in mente un uomo, ancora sconosciuto, ancora astratto e distante: pensava alle sue labbra e al proiettile che in canna era pronto ad assassinare il cuore. Era solo, Leandro, e ne soffriva, ma non perché non si bastasse, voleva condividersi. Sull’amore aveva letto molto, e per quanto nei suoi viaggi il corpo avesse conosciuto i più voluttuosi piaceri, non era mai stato innamorato, schiavo di un cuore ibernato. Era molto tardi, il freddo stava gelandogli il naso, troppo all’insù; dormire sul prato non ancora imperlato di rugiada non gli sembrava un’idea poi così cattiva, ma cosa avrebbe pensato sua nonna al suo risveglio, dopo la prima preghiera, alla vista del letto intatto? In più, qualche ora più tardi
sarebbe entrato in ruolo, ricoprendo la cattedra di italiano e latino a tempo indeterminato. Chissà - si chiedeva - se sarebbe stato un fiato in un flauto che è sfiatato o avrebbe fatto piangere parole di giovani studenti.
Su Padula sorse l'alba e Leandro abbandonò la Certosa per tornare nella casupola di famiglia a disfare il letto e fingere di aver dormito tutta la notte. A colazione baciò la nonna e si fece offrire un caffè nero bollente, gorgogliato nella moka arrugginita. Di mattina non amava parlare e all’insistenza della nonna rispondeva con noia. Le mentiva, le mentiva molto, nascondendo ciò che è stato, che è e che sarà. Uscì di casa, sospirò, estrasse una sigaretta dal pacchetto di Gauloises Caporal blu, l’accese con melanconia, diede un rapido sguardo al pacchetto con l’elmo gallico alato e in bocca smorzò il loro slogan: “Liberté toujours”. Messo il pacchetto nella tasca destra interna alla giacca, infastidito dalle lunghe salite da percorrere per raggiungere il liceo scientifico statale, in via Salita dei Trecento, si incamminò. Certo, avrebbe potuto usufruire del servizio pubblico comunale, ma come poteva sopportare il tanfo dell’ipocrisia, della falsità, del mal comune mezzo gaudio emanato da sempliciotte galline putride in vecchie gabbie di ferro e contadini con gli stivali di gomma sporchi di letame? Era un idealista, ma lo divenne per sopravvivenza. Di essere inadeguato non ne fu mai spaventato, pensava però in modo ostinato a come fosse vestito: una giacca a motivi tartan verde salvia con ricami ocra, una semplice camicia operaia pastello celeste, una cravatta acqua inquinata, annodata male, forse troppo lunga, (d’altronde non gliel’aveva mai insegnato nessuno), pantaloni grigi e scarpe di cuoio Adrian Loafers, un Loden tirolese a pelo corto e una ventiquattr’ore appartenuta al nonno, maestro prima della guerra, l’unico uomo a far vacillare la fede corrotta della vecchia nonna. Non aveva più tempo per dare adito al suo fioco narcisismo: era arrivato. Un’altra sigaretta per allentare la tensione che in realtà non aveva, gettato il mozzicone nel tombino ed ignorando le lingue pulite degli studenti che arrivavano, varcò l’ingresso.
Il liceo non era poi così buio come si immaginava, lo erano le bidelle, mummie immobili che gli riservavano i più freddi e statici saluti, come fossero state vinili infiniti. Solo una faceva eccezione: era giovane, una messa in piega bionda, truccata e con tanti gioielli da sembrare gitana, forse alta all’incirca un metro e sessantacinque, Sabrina o forse Simona, con un seno che faceva cadere i professori dalla cattedra quando portava il caffè. Su di lui, tuttavia, le sue mani, le sue risate forzate ed il profumo di fiori non avevano potere, anzi ne era infastidito. Per lui quelle mani erano viscide, il profumo era di fiori imputriditi e non riusciva a ad ignorare l’alluce valgo che le
spuntava dal tacco. La campanella segnò l’inizio delle lezioni e i corridoi erano già svuotati dalle mandrie di studenti.
Leandro si avvicinò alla bidella più ossidata e le domandò dell’aula IV B; alzando lo sguardo dalla rivista femminile “Burda”, un’edizione del ’57, la vecchia, odiandolo per averla scossa dal letargo, indicò l’aula al professore. In quel momento il preside si materializzò alle spalle di Leandro e gli andò vicino per stringergli la mano. Il preside gli apparve un uomo ordinario, era sì alto, ma aveva la forma di un’anfora, abbellito da un completo di bottega veneziana nero. Le mani erano pelose come quelle di un uomo ignorante e la sua stretta era così molle da fargli intuire si trattasse di un uomo debole.
Il preside lo salutò come se gli avesse offerto l’occasione della vita, quella della statica vita statale, ma da Leandro in cambio ebbe una smorfia facciale di un nano secondo. Lo condusse nell’aula e, una volta arrivato, Leandro si chiese come mai proprio a lui fosse toccata quella più cupa; venne lasciato sulla soglia, come se il Preside avesse timore del giudizio delle giovani menti.
Leandro entrò e improvvisamente il baccano che poco prima invadeva il corridoio morì. Salì sulla pedana e, gettata la ventiquattrore sulla cattedra, guardò i volti dei ventitré ragazzi in piedi. Non disse buongiorno, si sedette e iniziò a parlare di Virgilio. Si aspettava di annoiare, di suscitare sbadigli, ma i ragazzi ascoltavano attentamente ogni parola, facevano domande e alla fine della prima ora il rappresentante di classe ringraziò il professore. Suonò la seconda campanella, Leandro invitò il figlio del sindaco a leggere in metrica la seconda bucolica, cercò nella tasca interna della giacca il pacchetto di sigarette e se ne accese una, l’ultima. Inorridito dalla lettura del ragazzo gli chiese di andare a comprargli le sigarette, due pacchetti di Gauloises Caporal blu, al tabacchino vicino la scuola. Si alzò in piedi ancora fumando e scrisse alla lavagna “Chi è l’omosessuale?” e la lesse con la sigaretta in bocca, una mano in tasca e l’altra che impugnava il gessetto. I ragazzi avevano letto la seconda egloga ma non avevano osato fare commenti sull’amore di Coridone per lo schiavo Alessi. Quella domanda aveva indignato qualcuno, imbarazzato altri, e iniziò un vociferare assordante. Leandro fece cadere la sigaretta a terra e spegnendola con il piede emise uno schiocco che fece tornare il silenzio. Chiese di nuovo con voce stentorea: «Chi è l’omosessuale?». Entrò il figlio del sindaco con i pacchetti e il resto, li lasciò sulla cattedra e si sedette. Leandro, non ricevendo risposta, dato che il ragazzo appena entrato stava chiedendo spiegazioni sulla scritta alla lavagna, gli chiese: «Tu, sì tu, chi è l’omosessuale?». Il ragazzo si alzò in piedi e disse: «L’omosessuale è l’abominevole figlio del diavolo, l’essere che insulta il crocifisso alle sue spalle e i valori che rappresenta, è l’invertito che
sconvolge la natura e si crogiola come un porco nella palude che è lo schifo della gente». Leandro rise, pensò che erano proprio parole da figlio di un sindaco del MSI. Tutti sembravano concordare con il ragazzo che, nel frattempo, si era seduto di nuovo, quando all’improvviso una ragazza, Marcella, figlia di un mugnaio di un paese vicino, iniziò a piangere. Leandro non riusciva ad essere duro alla vista di lacrime adolescenti che erano come cascate di cristallo e così la invitò ad alzarsi e a condividere con la classe le sue lacrime. Recuperata la dignità, la ragazza iniziò a raccontare di come suo padre avesse tradito più volte sua madre con uomini, e di come, una volta scoperto che si era suicidato, lei lo avesse perdonato e come gli mancasse.
Per la prima volta da quando era entrato, la classe iniziò a brillare, ma non durò molto: gli altri studenti iniziarono a ridere e a schernire la ragazza facendola scappare piangente dall’aula. Il volto di Leandro si congelò e divenne così duro che tutti abbassarono il capo smettendo all’istante. Solo il figlio fascista del sindaco non si sentì intimorito. Il ragazzo venne fatto andare alla lavagna e costretto a scrivere allo sfinimento: “Io sono un omosessuale”. Leandro sapeva dei guai in cui si stava cacciando ma continuò a spiegare fino alla fine del giorno scolastico. Aspettò che tutti gli alunni fossero usciti dalla classe, sistemò i suoi libri nella ventiquattr’ore, si accese una sigaretta e attraversò il corridoio, ignorando il civettare della bidella bisbetica con i suoi colleghi e in un attimo fu fuori dalla scuola. Non aveva fame, raramente mangiava a pranzo, si fermò ad un bar per prendere un caffè amaro e subito si diresse verso la Certosa. Si fermò, come sempre, ad ammirare la luminosa facciata: che serenità gli trasmetteva il movimento della fascia marcapiano aggettante, dovuto a tre architravi figli di massicce colonne doriche! Salutava con sguardo devoto le statue a tutto tondo, allocate in nicchie a finestre, dei quattro santi, per lui unici amici di una vita. Salutava San Bruno, di cui amava il teschio, che per Leandro era la rappresentazione cosmica dell’individuo in quanto sede del pensiero e dell’αὐτάρκεια. Considerava il teschio alla pari della volta celeste, essendo all’apice dello scheletro, comprendente la materia imperitura del corpo, l’anima e l’energia vitale. Leandro ricordava di aver letto un passo di Livio che scriveva dei Galli Cisalpini nel 216 a.C.: essi tennero un’imboscata all’esercito romano dell’ex console Postumio e, una volta sconfitto, portarono via la testa del magistrato e il bottino. Adornarono il cranio con oro secondo la loro usanza e servirono libagioni festive come fosse vaso sacro o coppa per i custodi del tempio. Salutava San Paolo, per lui spada e fune. Quanto avrebbe voluto che il Santo lo cingesse, donandogli concordia, e San Pietro con le sue chiavi, che Leandro sperava potessero aprirgli le porte della biblioteca della conoscenza. Salutava San Lorenzo, a cui abbassava il capo, un gesto per farsi perdonare quanto recita il famoso aforisma «Episcopi et presbyteri et diacones incontinenti animadvertunt». Il Santo gli è sempre apparso mendicante e gli avrebbe dato tutti i
suoi pochi averi, ovvero la casupola borghese, per far sì che avverasse i desideri che nell’anonimato della notte gli sussurrava. Dopo qualche minuto, Leandro si recò nel cenacolo con i Santi, dove era solito congedarsi, per sfuggire dalla realtà e rifugiarsi nei giardini, il cui ingresso era alla sinistra della facciata. Pian piano che si avvicinava, non riusciva a non adorare la Madonna che svettava tra due angeli al centro della corona della facciata, ai cui piedi giaceva un cartiglio recitante “Felix coeli porta” che lo rassicurava e, ogni giorno di più, lo convinceva di quanto per lui fosse locus amoenus, grembo materno. I suoi pensieri svanirono solo quando si sedette all’ombra di un ampio faggio, il solito, verso cui lo dirigeva centrifugamente una forza del movimento circolare del suo sesto senso. Sospirando i versi virgiliani: “Deus nobis haec otia fecit”, prese dalla ventiquattr’ore i testi che avrebbe dovuto spiegare il giorno seguente. Quando leggeva non c’era passante o turista che potesse distrarlo. Quel giorno, però, sentì tre rombi di una Benelli leoncino del ‘56 e il rumore del motore che si spegneva. Dalla moto scese un uomo della sua età, forse un anno più grande, vestito con una giacca di pelle color cammello, una polo nera nascosta nei jeans a vita alta. Non portava calzini sotto i mocassini, infatti si intravedeva la caviglia. Aveva il ciuffo scompigliato dal vento e degli occhiali da sole Bugatti. Come lo stava odiando, Leandro, in quel momento: era così fastidioso, rumoroso, sicuro di sé. Leandro decise di fingere non curanza, e continuò a leggere. Il motociclista iniziò a chiamarlo: «Salve! Professorino, lei! Non mi sente?!», ovviamente Leandro non alzò il capo, girò la pagina, si accese una sigaretta, ma non rispose. «Non mi faccia venire fin lì, mi sporco i mocassini nuovi!» continuò il bel motociclista. «Per Dio!» esclamò e accelerò il passo, facendo suonare le pietracciole sul sentiero sterrato. Stava raggiungendo Leandro, che intanto aveva finito la sigaretta e la pagina, e una volta arrivato gli strappò il libro di mano. Il volto del giovane professore diventò ebano: era furioso, si alzò di scatto e gli tirò un destro che colpì in pieno il volto del motociclista, ne tirò un altro e un altro ancora, iniziò una lite tra i due che terminò quando furono entrambi a terra. Il motociclista, con le mani bloccate da Leandro che era sopra di lui, a due pollici dal suo volto, aveva l’affanno. Leandro si gettò di lato e si ripresero così, fianco a fianco. «Che caratteraccio, mi perdoni!» cominciò di nuovo il motociclista, «Ma chi è lei?» finalmente rispose Leandro che, di nuovo infastidito, si alzò, riprese il libro e con la sigaretta in bocca si tornò a sedere. Il motociclista, imperterrito, si andò a sedere vicino a lui e con tono ironico disse: «Buonasera chiarissimo professore! Può, se non le arreca disturbo, concedermi udienza?». Leandro chiuse il libro sbattendolo e infastidito rispose: «Cosa vuole?». A quel punto, il motociclista con sorriso soddisfatto si presentò. Si chiamava Francesco. - Che nome idiota! - pensò Leandro. Veniva dalla Puglia e stava girando il mezzogiorno in moto; voleva sapere dove avrebbe potuto trovare delle guide che gli spiegassero un po’ quella chiesa in cui era incappato viaggiando. Leandro gli
rispose: «Intanto non è una chiesa, è un monastero, e poi non troverai guide se non ignoranti paesanotti che inventeranno mitiche leggende al momento».
«E perché non mi fa lei da guida?» chiese il motociclista, e lui con una fredda risata ribatté: «Perché dovrei? Dopo l’incontro che abbiamo avuto è già tanto che le stia rispondendo». Il motociclista allora: «Deh, si vede che lei è dimezzato». «Come il Visconte?» disse il professore ridendo ma, notando il dubbio sul volto del motociclista, lo invitò a lasciar perdere. «Dicevo, lei è dimezzato e se ha voglia di condividere la sua conoscenza in cambio le comprerò un pacchetto di sigarette e se vorrà le farò fare un giro in moto». Le parole dell’uomo lo infastidivano così tanto, ma nel suo volto vi era qualcosa che riusciva a scioglierlo. San Lorenzo aveva fatto il miracolo e così Leandro accettò: «Maledetto me, dai, andiamo!», disse. «Ma prima, come sapeva fossi un professore?».
«C’è anche da spiegare, vestito come mio nonno buonanima, sigarette francesi e libro di Virginio». «Virgilio, Virgilio! » corresse Leandro.
Leandro fu una guida senza pari, lo condusse nelle stalle, granai, pescherie, lavanderie, spezierie, nella foresteria antica, nel chiostro della foresteria, nella Chiesa e poi ancora nella sala delle campane, in quella del Capitolo, nella sala del Tesoro, nel chiostro del cimitero antico, nella cappella del fondatore, nel refettorio. Videro la cucina, il chiostro dei procuratori, la scala elicoidale, il Quarto del Priore, il cimitero dei Priori, le celle dei certosini e infine lo scalone ellittico. Tutto in un giro durato fino a tarda sera, tra aneddoti, leggende, storia dell’arte. Francesco non disse una parola se non alla fine «Wow! Grazie». Il motociclista comprò le sigarette, tre pacchetti di Gauloises Caporal blu e se ne andò. Leandro pensò si fosse dimenticato del giro in motocicletta, ma dato il suo orgoglio reale, non glielo ricordò. Si sedette sotto il solito faggio e aspettò l’alba. Fumando e pensando. Le sigarette avevano un sapore diverso e notò che il sangue del labbro del motociclista gli era rimasto sulle nocche. Non faceva altro che guardarlo. Si era innamorato? Certo che no, l’amore è furor, l’amore crea impalcature psicologiche che portano alla morte.
La mattina seguente, come da agenda, tornò a casa intorno alle sei, disfò il letto, si vestì, fece colazione con il caffè offerto dall’insistente nonna, che di lui continuava a non conoscere mai nulla, e andò al liceo. Saliva Via dei Trecento fumando e non riusciva a non immaginare di come in fondo gli avrebbe fatto piacere un giro in moto con il motociclista, della sensazione che avrebbe provato abbracciandolo, nascondendosi dietro di lui per fuggire il vento. Quanto avrebbe voluto
tornare indietro per vederlo lì. Pensava a come era bello, gli sembrava quasi di toccarlo. Arrivato al liceo scosse la testa, quasi per esorcizzare diavoli tentatori e andò dritto in classe. Solite lezioni: Virgilio, Ovidio, Guinizzelli, Properzio; tuttavia, si rese conto che, nell’analizzare topoi amorosi, la sua mente non faceva altro che trasportarlo al pomeriggio del giorno prima e questi sentimenti lo terrorizzavano. Quella mattina, infatti, aveva fumato più sigarette del solito sperando avessero l’effetto dell’acqua fredda sul sogno, ma con scarsi risultati. Finite le lezioni raccolse i suoi libri, si accese una sigaretta e si diresse verso l’uscita. Nell’istante in cui Leandro girò il corridoio per uscire, con la coda del suo pronto occhio vide l’ombra del preside con un’ombra molto più piccola, quella del sindaco. Si girò per guardarli e, per quanto il preside fosse molto più alto del sindaco, sembrava in ginocchio nell’animo, tremava e cercava negli occhi socchiusi del professore aiuto. Leandro girò lo sguardo e fece per uscire quando sentì il passo pesante del sindaco rincorrerlo. Tuttavia, un passo più aggraziato e più veloce lo sorpassò, quello della bidella civetta, che accostatasi al professore e, toccandogli le spalle con voce erotica, gli disse: «Professore egregio, c’è all’uscita un bel motociclista che aspetta solo lei, vada!» e gli ammiccò. Appena la punta del suo naso fu fuori la scuola, sentì il suo odore: era Francesco. Si accostò alla moto e disse: «Cosa ci fa lei qui?». Il motociclista, sempre con quel genuino sorriso, rispose: «Pensava mi fossi dimenticato della sua ricompensa? Chissà come si è dannato il povero professore! Salti su!». Leandro, indispettito, ribattè: «Ma lei è pazzo! Chi si crede di essere?!». Il motociclista rispose in maniera seccata: «Si muova, salga, salga ho detto o giuro che me ne vado!»; Leandro si guardò indietro: vide il preside inerme contro il sindaco che indicava lui, osservò la scuola, gli studenti e dopo un sospiro, tra lo sconfitto e lo scocciato, salì sulla moto che subito sfrecciò via. Da lì l’aria era diversa, il maggese era diverso; le voci delle persone venivano macinate dal trambusto del motore e Leandro si sentiva davvero libero. Il motociclista si girò verso il professore invitandolo ad abbracciarlo dal momento che sarebbe andato più veloce. – Ecco! -, pensava Leandro, - Ora lo abbraccio e addio alla libertà in nome delle catene dell’amore -. La velocità ormai era insostenibile e fu costretto a stringerlo forte al petto. Forse si sbagliava: l’amore era l’unico modo per affrancarlo dalla schiavitù del suo dimezzamento. I due giovani viaggiarono per tutto il giorno, fino a Napoli, e non tornarono a casa fino alle sette del mattino seguente. Leandro si sentiva come un veliero la cui ancora fosse riuscita ad agganciarsi in mare aperto ad una rara barriera corallina.
Tornato a Padula, Leandro passò alla casupola solo per cambiarsi, poi scese al bar dove il suo giovane motociclista lo stava aspettando. Quella mattinata si sarebbe svolta diversamente dal solito: avrebbe preso comunque un caffè amaro e le sue Gauloises Caporal blu per colazione, ma
con Francesco non avrebbe avuto alcuna insofferenza nel parlare. Il giovane mangiava un cornetto, beveva un cappuccino e si sporcava tanto di crema sul naso, nel frattempo ascoltava Leandro che per lui era un libro onnisciente, biglietto per tutti i moli, stazioni o aeroporti. Mentre lui parlava, bastava chiudere gli occhi per essere ovunque ed essere immune e puro. Si era fatto tardi, Leandro aveva lezione e il motociclista si offrì di accompagnarlo ma il professore rifiutò. Fumava e sospirava, avrebbe voluto che le sigarette fossero il suo Francesco. Arrivò all’entrata di scuola e quell’insolito buonumore venne subito sublimato dallo sguardo di paura del preside e da quello bellico del sindaco. Leandro aggrottò le sopracciglia e con passo veloce raggiunse i due. Il preside iniziò il colloquio, sottolineando l’onore che avevano i due ad interloquire con il sindaco. Ci fu un momento di silenzio, probabilmente i due interlocutori speravano che Leandro aggiungesse qualcosa, ma prese solo la sigaretta dalla tasca e l’accese. In realtà Leandro non stava davvero ascoltando, pensava alla moto, al motociclista e alla fuga: programmava la sua evasione da quel mondo. La sua attenzione venne ridestata dalla voce ridicola del sindaco che cercava di intimorirlo. Pretendeva scuse, per lui, per figlio, per la scuola. Continuò per un po’, poi chiese: «Professore, allora, ha qualcosa da dire?», Leandro aspirò ed esalò il fumo, si diresse infine verso la classe. Sentì il sindaco dire: «Si vede, deve essere un finocchio!». Leandro avrebbe voluto girarsi, tirargli un destro, ma poi pensò al motociclista: a quale scopo cacciarsi nei guai per onore, quando fra qualche ora sarebbe potuto fuggire, via, lontano? Le ore fuggirono velocemente, si fece subito mezzogiorno. Leandro avrebbe staccato un’ora prima quel giorno e Francesco lo sapeva, infatti sarebbe andato a prenderlo. All’uscita, però, non c’era nessuno. Leandro consumò la prima, la seconda, la terza e la quarta sigaretta ma non arrivava nessuno. Dopo un’ora nessuno. Si sentì tradito e forse una parte di lui desiderava che fosse così, in modo da dirsi - Hai visto Leandro? L’amore è furor, stritola tutto e tu ci sei ricaduto. Bada, è l’ultima volta! -
Iniziò a scendere, per giungere in Certosa, quando vide la vecchia nonna, da tempo immemore perpetua, parlare con il parroco. Discutevano se celebrare o meno la morte di un finocchio. La nonna diceva: «No, Don Giuseppe no, niente funerale, già siamo beati nel tumularlo» e il buon parroco a lei: «Figliola, il buon Dio ama tutti, e considera le circostanze della morte». La vecchia, curiosa, chiedeva: «Come è morto?».
«Lo hanno buttato giù dalla moto, lo hanno portato in alcune terre sperdute, vicino il battistero paleocristiano a Fonti e lo hanno picchiato fino a ucciderlo».
«Va bene, va bene, non hanno fatto bene ma, parroco, non hanno fatto male. Come si chiamava?».
«Francesco».
Leandro, che nel sentire quel breviloquio si era pietrificato, morì dentro. Corse fino al suo faggio nei giardini e qui, sicuro tra le braccia dell’unica madre che abbia mai avuto, per la prima volta nella sua fredda e cupa vita, pianse. Leandro era un marinaio la cui vela era stata tradita dal vento. Aveva avuto un attimo di felicità che poi era presto svanito. La sua mano tremava ma aveva deciso di scrivere; a chi non lo sapeva, decise di non inserire destinatari. Tornò a casa, non era il suo orario, andò in camera da letto, chiuse la porta scricchiolante con una spinta molto forte sbattendola, consegnò quei fogli che aveva portato dalla Certosa alla scrivania.
Si accese una sigaretta…Odiavo la puzza dentro casa mia, ma non sapevo fosse la prima e l’ultima che fumò nella nostra casupola. Sentii un colpo di pistola, gettai i piatti in aria, avevo il cuore in gola, pensai i ladri, i briganti. Girai un po’ per le camere e aperta quella di mio nipote, non mi hanno retto le gambe, e sono esplosa in grida disperate e in un pianto che avrebbe potuto dare inizio alla Apocalisse. Solo dopo il funerale ho notato dei fogli raggruppati sulla scrivania, fra i libri latini e i pacchetti delle sue sigarette. Avevo gli occhi gonfi, Leandro rendeva immortali gli ultimi giorni qui raccontati, desiderava morire perché era già morto una volta, desiderava incontrare la madre, curarsi da una nostalgia durata una vita, desiderava abbracciare il padre, e non risvegliarsi dopo averci provato nel sogno, e avrebbe voluto incontrare Francesco per curargli le ferite. Chi non nominava son io.
Quanto avrei voluto morire, quanto cattiva, bigotta e insensibile son stata, quanto ho insultato il crocifisso tutti questi decenni. Ho tradito mia figlia e la sua promessa, suo figlio sarebbe dovuto essere il mio pegno d’amore, in me avrebbe dovuto ritrovare l’affetto materno, al mio collo sarebbero dovuti pendere gli abbracci. Avrei dovuto baciarlo, quando era in lacrime, baciarlo per lei, il peso della casa, della morte e del dolore mi schiaccia. Ho nascosto a lui le lacrime, le vaghezze, nella notte mi nascondevo dai sentimenti e all’effige del mio sposo parlavo come se avesse potuto rispondermi. Vorrei tornare indietro a quel bambino che è stato il mio dono, stringerlo di più in quei giorni in cui, Leandro, mi hai amato solo tu, in quei giorni in cui ero assente, non ci sono stata mai. Vorrei rivederti bambino, quando leggevo e fumavo, forse non ricordi ma io ero come te. Ma intanto se ne andavano i tuoi occhi e con loro ogni affetto, com’eri bello quelle sere e come sono ormai lontane, avrei dovuto cantare per farti addormentare ma le mie ninne nanne erano di dolore, di rabbia vera, di ombre e oblio. Nel paese, lo sai, si vive di lunghi letarghi, si tenta di aggrapparsi a qualunque zattera, lì fuori ci sono sparsi frammenti di anime povere, di lividi e mancate parole. Avevo smesso di scrivere, polsi legati mi dissi, ed eri tu a
scrivere per due, te l’ho trasmesso io, sai? Qui dentro il dolore è sempre stato un ospite usuale e mai l’amore, unica croce in questo inferno che fa male. Non ti ricorderò per le tue parole che mi hanno fatto piangere e riflettere, né per il tuo cuore verde, ti ricorderò per il tuo cuore quando di me aveva più bisogno, quando ti ho soffocato di notte i sogni, ti ricorderò quando ti frenavo i soffi dell’amore, quando dormivi con me e il nonno stretto al mio seno e ci svegliavamo quando le stelle tentavano di far guerra alle persiane. Sarai sempre il bambino da cui mi nascondevo sola in un angolo chiuso della chiesetta, fumavo anch’io un tempo sai, per non vivere, non avevo direzioni, non avevo porti o strade, non avevo cieli a cui arrampicarmi. Di te ricorderò i miei sbagli che non hanno scuse, le mie finestrelle sempre chiuse, la tua infanzia quando buttavo nel fuoco le poesie, i vinili e la magia. Non chiederò mai il perdono, né il tuo, né della tua dolce mamma né quello del Signore. Leandro, io ti ho perduto perché non mi sono mai trovata, sono caduta molte volte e quando sognavi non ti sfioravo perché avevo paure che purtroppo ti ho trasmesso. Ho incontrato spesso la morte, siamo amiche care, e presto dovrò anche io lasciare questa tenda, è quasi giunto il tempo di sciogliere le vele ma continuerò a camminare finché vedrò la luce. Affiora adesso alla memoria la povera storia della mia vita intessuta, attraversata da misere azioni di un ineffabile bene, azioni manchevoli, imperfette, sbagliate, insipienti e ridicole. Dio conosce la mia stoltezza, quest’avventura stentata, gretta e meschina ma devo far presto, fare bene, fare lietamente ciò che grazie a te, Leandro, ho capito e anche se supera immensamente le mie forze, curvo il capo e ruggisce il mio spirito, avrò coscienza della nostra natura e della nostra predestinazione. Il dolore mi uccide, e il rimorso mi consuma come Eco, io te lo devo e prima dell’umanità, devo partire da me, lasciare il crocifisso e rincorrere la verità.
Per sempre a te devota, la tua straziata nonna.
Padula 1961
04/01/2024
Nicole Della Santina
.
La morte ci prenderà di giugno
che si fa vespro e ci si illude di fresco
si respirerà meglio e a polmoni pieni
di soppiatto scivolerà tra noi
mi prenderà per mano, sostituirà la tua
un’ombra scura mi accecherà gli occhi
non avrò paura, riconoscerò il tuo odore
un profumo di talco leggero che mi porterà indietro
fingerò di non capire, stordita chiuderò gli occhi
dovrò dirti addio, una prima volta che varrà ultima
.
Se il sole asciuga ogni lacrima di sale
sul mio corpo ormai bruno
e secca la volontà e certe beltà,
passa la smania di vivere appieno
e nell’ardore di mezzogiorno mi abbandono
ad un saluto ben più lieto
ma so è che tenera è la notte
e umida, fresca e profumata di muschio
accorrerà ad allietarmi,
con mani premurose e gelide
e sulle mie tempie porrà due baci
e attorno al collo madido
mi avvolgerà una brezza,
io so che tenera è questa notte
e così le sue sorelle
e che al calar del sole rivedremo sempre,
sempre le stesse stelle.
.
Vorrei essere una di grandi parole,
di calma e di sale,
una statua ferma, immobile a tutto
vorrei che i gatti riposassero tra le mie gambe
e che le stagioni non mi sciupassero così
ma solo dopo lungo tempo
ferma in una piazza sotto il sole,
con un’armatura e a cavallo
osservare i bambini giocare e le tate loro
i vecchi seduti e i piccioni a terra
e sono invece collerica e avventata
le stagioni mi distraggono e i gatti mi evitano
nessuno riposa con me dopo la rabbia.
.
capisco ora
perché i soldati abbandonano
armi ed armatura
finiscono per uccidere il cavallo
e si allontanano dalle truppe
perché a questa tristezza
a questo sentimento, disgustoso
che non conosce modi
e che mi lacera la bocca
non posso dire nulla,
non so come ribellarmi ad una tale violenza
e non c’è riposo neanche per la mia ombra.
Martina
1.
danzai sui tavoli, in un velo leggero e candido:
accarezzata dalla sinfonia, mi sciolsi sotto il tenero sole.
rimase un cumulo di parole non dette,
sabbia cocente.
ci giocano ora i bimbi
a cui il mare sussurra all’orecchio.
è il verbo morto a risorgere in primavera.
2.
è il corpo nello specchio,
aldilà dell’equilibrista tremante,
ad intercedere nel brutale risveglio.
eccolo, che mi guarda con disprezzo,
sbeffeggiante, mi sfida.
il riposo della quiete, scosso dal suo riso.
mi graffia, mi sputa, mastica ed ingoia,
una danza spasmodica in punta di un filo teso.
posso solo cadere, non volare.
3.
il signore che fuma al bar oggi mi sembrava triste,
lasciava le sigarette a metà.
ma io non osservo, guardo per sbaglio
e tutto mi piove addosso.
come ad esempio il cono gelato a terra in corso vercelli:
sembrava piangere fragole.
le tue lacrime invece sono cristalli:
ecco, la bellezza che mi uccide ancora.
4.
ti invito al viaggio,
in quel paese che ti somiglia tanto.
i colli innevati profumeranno di fiori,
i cieli si bagneranno dello spirito del mare,
l’alito del vento avrà la stessa brezza
dello spirito delle tue parole.
laggiù, regnerà il caos dell’anima tua,
accesa dal fuoco della vita,
non ci permetterà di bruciare,
spenti dalle acque placide
sgorganti, dei tuoi occhi.
ci riposeremo sulle nuvole,
anche la roccia sarà giaciglio su cui stendersi ebbri della tua essenza.
moriremo bruciati dal sole
su un lago di grano,
all’apice della bellezza terrena.
(ispirata da Baudelaire, fiori del male)
04/01/2024
L’agnello di Dio
Può la vita di un uomo venir condizionata, dettata e scandita dal vivere pulsante di un altro essere? Fino al compimento dei miei 17 anni, quando un forsennato e atavico cattolicesimo mi pervase e mi spinse ad adorare Dio con ogni mia vibrante fibra, avrei risposto di no. Poi, però, in una calda domenica di settembre, vidi i miei desideri più viscerali e profondi incarnarsi in Ester.
La mia benedizione terrena, il fuoco dei miei lombi, inginocchiata al primo banco della nostra chiesetta pungente di stantio. Pregava in silenzio, meravigliosamente anacronistica, fasciata in un antico d’un bianco liliale lungo fino alle caviglie, avvolta di una pudicizia quasi blasfema. All’inizio non scorsi molto di lei se non una cascata di liscissimi capelli castani, lunghi fino alla vita, e la suola consumata dei sandali. Mi stupì che una ragazza così giovane fosse seduta alla prima panca; io ero solito sedermi dietro, troppo intimorito dal cero e dalla croce accanto all’ara, deciso a mantenere le mie confidenze con lo Spirito Santo lontane dal sacerdote. Tuttavia, quella mattina arrivai in ritardo, e l’unico posto libero rimasto era proprio quello dietro Ester. Mi piace pensare che il nostro incontro sia stato provvidenziale: avevo vissuto lì tutta la vita, non l’avevo mai vista, doveva essere Dio a portarmi da lei. Arrivai affannato e i miei passi concitati e il respiro pesante attirarono la sua attenzione. La Messa non era ancora iniziata, e lei interruppe la sua preghiera per guardarmi in tralice da sopra la spalla, incuriosita. La luce delle vetrate illuminava il suo profilo; i raggi del sole come un’aureola attorno ai capelli scuri, l’austera curva del naso e le ciglia dritte; aveva le labbra viola strette in una linea, le iridi spietate, una foresta in fiamme, una punizione divina. L’avrei scambiata per un angelo tant’era terrificante. Terrificante, sì, e bellissima.
Fu in quel momento che mi innamorai – no, ne divenni ossessionato. La cercavo con lo sguardo ogni domenica, lei e i suoi vestiti cerei, le sue gambe lunghe e la figura svelta, lei e il suo petto da ragazzo, la vita stretta, il modo in cui pregava e il modo in cui le si schiudevano le labbra per prendere l’Agnello di Dio: era una visione ultraterrena. Disperato, chiesi notizie di quella devotissima ragazza a chiunque conoscessi. Nessuno sapeva niente. Nel nostro paesino in cui tutti conoscevano tutti, lei era un mistero, un fantasma tra i vivi. Dedussi quindi che si fosse appena trasferita. Finii per scoprire il suo nome solo dopo l’inizio della scuola, quando come a causa dello stesso piano divino che ci aveva fatto incontrare, finimmo in classe insieme.
Ester si sedeva in fondo alla classe, parlava solo durante l’ora di filosofia, esponeva le sue idee profetizzandole, a tal punto da farmi credere che la parola di Dio soffiasse dalle sue labbra. Un giorno, mentre evocava l’idea che aveva del Creatore l’insegnante la sbatté fuori dall’aula. Io le corsi dietro con una scusa. Volevo sentire qualunque cosa avesse da dire. Scoprire la sua anima. La trovai che si mangiava le unghie, seduta a gambe incrociate nel corridoio. Guardò verso di me, confusa, poi sorrise.
“Allora? Come lo vedi? Dio, intendo.”
“Bah, ridente. E se siamo a Sua immagine e somiglianza, anche sgraziato, sprezzante, cattivo. Dio non è buono. Ti ama, ma non abbastanza da salvarti. Suppongo sia questo il bello.” “E tu…?”
“Esdra.”
“Esdra.” mi guardò, un nuovo luccichio negli occhi. “Tu? Ci hai mai pensato?” “Sono troppo stupido per pensarci.”
“E pensi che Dio ti salverà per questo? Perchè sei stupido?”
Trascorsi tutta la giornata con lei, poi la seguente, poi ogni giorno a seguire. Parlavamo di qualunque cosa ci passasse per la mente. Scoprii che sua madre era morta, che suo padre faceva il pastore, che lei lo odiava e che aveva un gregge di agnellini. Ester diceva che suo padre, come Dio, si manifestava attraverso l’assenza e la violenza. Per lei qualsiasi posto sarebbe stato migliore delle quattro mura vuote che era costretta a chiamare casa. Io non ero come lei: la mia famiglia era normale, vivevo schermato dagli orrori della vita e cercavo di introdurre nella sua una bella dose di tranquillità. Non ci riuscii mai. Il suo modo di pensare, la sua mente brillante, erano troppo eccezionali per adeguarsi alla normalità.
Lentamente iniziai a pensare come lei, a mutare in una versione diluita del suo essere. Iniziammo ad amarci stringendoci le mani al segno della pace in chiesa, sgattaiolando fuori casa per vederci di notte, saltando la scuola per andare nei boschi intorno al villaggio per intossicarci, parlare e pregare. Mi invaghii di tutto, dalla sua risata scomposta alla cura con cui spalmava la marmellata sul pane, del tocco delle sue dita appiccicose d’arancia. Al nostro primo bacio – seduti su una panchina del parco, il freddo che ci schiaffeggiava le guance, le labbra collose di vodka calda comprata a buon mercato e il suo fiato, incenso salvifico sul mio volto – scoprii finalmente cosa volesse dire la parola estate. Il freddo era agghiacciante, ma mi sentii avvampare. La mia vita prima di lei era stata un lungo inverno, ma ora il sole mi raggiungeva. La mia esistenza iniziava sulla sua bocca schiusa. Non avevo più bisogno di Dio ora che avevo lei. Ma Ester non la pensava così. Più i giorni passavano, più la vedevo sofferente. Spesso era isterica, impaurita, faceva molti discorsi sulla morte. Un giorno per calmarla le dissi: “L’amore dona immortalità a ogni creatura mortale. Ester, io e te non moriremo mai.” Ma lei sbiancò, si mise a piangere, le mani premute sul viso e le spalle scosse dai singhiozzi. Se la mortalità sembrava a molti un concetto terribile, per lei era invece il più bello mai esistito; non sapeva se fosse per la sua follia divina e la smania di riunirsi a Dio o per il desiderio malato di liberarsi dello Spirito e respirare gli effluvi infernali, essere libera seppur nella sofferenza, inchinarsi di fronte a un nuovo Essere. La seguivo pedissequamente, lei era la mia signora e io il suo vassallo, vedevo ciò che lei vedeva e sentivo ciò che lei sentiva. E proprio da questa nostra estatica simbiosi scorsi il suo animo atterrito, il suo malessere interiore, e capii che non avevo altra scelta: dovevo portarla via da lì. Elaborai subito un piano: avrei rubato qualche soldo ai miei e saremmo scappati col furgone di mio padre. Avremmo vissuto lontano da tutto ciò che conoscevamo. Io non avevo bisogno di nessun altro, lei con me sarebbe stata felice. Così, come se quella fosse una piccola festa d’addio alle mie origini e alle sue nuove, marce radici, la portai a ballare. I nostri compagni di classe erano soliti riunirsi nel bosco che circondava il centro abitato; con la musica a palla e i cuori martellanti, bevevano, fumavano, inseguivano un edonismo becero e paesano. Pensai che quell’atmosfera grottesca, fatta di corpi sudati, movimenti scomposti e stordimento le avrebbe fatto piacere, che la musica l’avrebbe distratta, che una confusione avrebbe sostituito l’altra. Non presi neanche in considerazione l’idea di prenderla da parte e parlare di ciò che la uccideva. Per noi l’amore era il coltello che ci ruotavamo nel petto, e mi convinsi che il suo vero male fosse solo quello, il troppo amore, la mancata abitudine a ferite di quel tipo. Trovai conferma del mio pensiero quando, dopo averla persa per un istante, la vidi in mezzo a tutti gli altri a ballare come un’invasata, gli occhi che brillavano di luce gialla, la testa all’indietro, la gola alle stelle. Il corpo filiforme si muoveva nella sua camicia da notte bianca, tanto da sembrare posseduto o in estasi, coi capelli al vento e le mani in aria. Ballava come se la musica le scorresse nelle vene e ballò per ore, arrivai a pensare che sarebbe crollata al suolo prima di fermarsi. Grondante del lustro della giovinezza, sembrava una Menade da baccanale, sacra e profana, libera. Urlava, cantava, era un fuoco di puro essere. A volte mi guardava, gli occhi languidi, miele dorato nelle pozzanghere di luce lunare. Quando tornò da me, le dissi che l’amavo, le chiesi di scappare con me, “Partiamo domani, non preoccuparti di nulla.”. Ma non mi aspettai risposta.
Lei sorrise, le labbra curve in un gesto d’antica tenerezza, e mi baciò piano mentre faceva intrecciare le nostre dita. Mi trascinò nel pieno degli alberi e facemmo l’amore sulla terra nuda. Pensavamo che ci avrebbe inghiottiti, che il nostro amore avrebbe alimentato il terreno fluendo nel fiume che scorreva nel cuore della foresta. Le nostre ossa si univano a incastro, come se il suo corpo fosse stato fatto per incontrare il mio. Mi si era insinuata nel sangue come una malattia, un parassita, ed io non volevo guarire. Ci stendemmo a guardare il cielo, le tenni la mano, le baciai ogni dito, il dorso, il palmo. Volevo adorare ogni centimetro di lei, ma lei si tirò su, si arrampicò su di me e mi baciò tutto il volto, dalle palpebre alla punta del naso, lasciando le labbra per ultime. Quel bacio aveva un sapore diverso dagli altri, sapore che non seppi identificare. Decisi di non pensarci, bearmi solo di lei.
“Ora va’, ci vediamo domani.” Volevo portarla a casa, ma lei rifiutò, voleva ancora ballare, disse. La baciai un’ultima volta, prima le labbra e poi la fronte, infine tornai a casa.
L’indomani uscii all’alba, rubai un po’di soldi dai risparmi dei miei, salii sul furgone e andai a prenderla. Non era fuori casa. Entrai nella sua stanza dalla finestra, trovando il letto rassettato, tutto in ordine. Ester non c’era. La cercai per giorni. Come poteva essere partita senza di me? Come poteva avermi lasciato lì dopo avermi portato via il cuore dal petto? Non era possibile, non sarebbe mai andata via senza avvisarmi, non era da Ester. E non ero l’unico a pensarlo, il villaggio intero si unì alla mia ricerca disperata, di giorno e di notte. Poi, un’illusoria quiete. La trovarono, sì. Ripescarono Ester dal fiume, orrenda, bluastra, esangue. Il mondo si zittì, si fece buio su tutta la terra. Cercai di avvicinarmi. Mi tirarono via mentre urlavo, mi dicevano che non dovevo darmi colpe, ma io sapevo. Sapevo che era un messaggio per me che, accecato dall’amore, non l’avevo capita, non c’ero mai riuscito.
Del suo dolore avevo fatto religione, e lei ne era diventata vittima. Ero stato io a sgozzarla sull’altare, era morta anche per la mia cecità. Al suo funerale non piansi. Sapevo che non mi sarebbe mancata e che ormai le appartenevo per sempre. Stavano seppellendo il mio cuore assieme a lei, a marcire nella nuda terra. Era tutto ciò che avevo, tutto ciò che ero riuscito a darle. E lei, come in un testamento, mi aveva lasciato il suo ricordo in patrimonio, la sua voce nel vento, il suo profumo nei miasmi dell’incenso. Perché Ester voleva che la ricordassimo tutti, quella morte, voleva staccarsi dalle donne morte e composte, dalle Ofelia che affogano aggraziate tra le acque e il cui corpo ripescato, cianotico e gonfio per l’acqua, non viene mai mostrato.
Perché, se in vita non ero riuscito a vederla, nella morte l’avrei vista ovunque.
Dov'è finito il potere della parola?
di Arianna Dramisino
“Chi parla male, pensa male e vive male. Bisogna trovare le parole giuste: le parole sono importanti!” Nanni Moretti, Palombella Rossa.
È molto probabile che la maggior parte di noi non ci faccia nemmeno caso, ma nel corso della giornata, tutti, anche i più pigri e chi sostiene di non essere costante nella lettura, consumiamo un’enorme quantità di informazioni leggendo. Come? Attraverso i piccoli schermi che ci tengono in costante contatto con il resto del mondo: gli smartphone. Certo, spesso le parole accompagnano, o vengono accompagnate da molte altre cose: immagini, video, illustrazioni… Ma sempre lì rimangono, pronte per essere lette e assorbite.
Sono quindi sempre loro lo strumento intorno al quale gira il nostro mondo, ed è l’uso che se ne fa che modella la realtà che ci circonda. Lo vediamo tutti i giorni: le parole giuste ci spingono a desiderare quello che poi acquistiamo, quelle sbagliate ci fanno arrabbiare, indignare e sono in grado di rovinarci la giornata, anche se scritte da uno sconosciuto sui social network.
Il nostro mondo ha cambiato il modo in cui leggiamo e il modo in cui leggiamo ha cambiato il nostro mondo e, di conseguenza, la letteratura che ne è uno specchio. Internet e i dispositivi come kindle, e-reader e tablet hanno modificato radicalmente il modo in cui consumiamo le parole. Improvvisamente abbiamo la possibilità di accedere in tempi brevissimi a – quasi – tutti i libri che siano mai stati scritti. Un cambiamento epocale rispetto al passato. Se l’uso di internet e lo sviluppo tecnologico del Web 3.0 abbia fatto bene o male al mondo della le tteratura, è un dibattito aperto. Se da una parte la grande disponibilità di testi e libri reperibili online può portarci a pensare a un vero e proprio processo di “democratizzazione” digitale della lettura, dall’altra internet sfida quotidianamente le nostre soglie di attenzione in un ambiente sempre più stimolato, e che spesso urla invece di parlare per attirare il nostro sguardo, sempre per meno tempo, allontanandoci da tutto quello che invece richiede sforzi intellettuali per essere compreso.
Parallelamente all’uso di internet, tra i tanti cambiamenti che hanno influenzato il nostro modo di fruire le parole negli ultimi anni, delineati da Washington Post in un articolo del 2019, c’è anche il grande successo degli audiolibri. Un approccio alla lettura che, attraverso l’ascolto, spesso anche attraverso grandi voci di doppiatori e attori, è in grado di fornire un approccio estremamente emotivo, evocativo e diretto.
Ed è proprio questo nuovo modo di accedere al mondo della letteratura quello che ha accompagnato e riavvicinato molti alla lettura in uno dei periodi più stressanti e difficili degli ultimi anni, la pandemia. Durante gli anni di grande incertezza e di stress sempre più persone si sono rifugiate nella lettura per sfuggire alla realtà, acquistando più libri stampati e dando vita a comunità online per lo scambio di libri come booktok, tramite il quale i più giovani si scambiano titoli, consigli e opinioni sui libri da leggere, tra cui spiccano di frequente i grandi classici e nomi della letteratura.
In un mondo sovra-stimolato, dove tutto scorre veloce e vince chi urla di più, ancora moltissimi – anche giovani e giovanissimi – decidono di rifugiarsi nelle parole scritte decenni e secoli prima, rivedendosi ed emozionandosi nelle vicende di personaggi che hanno abitato milioni di librerie ed emozionato le generazioni passate. Forse sarà proprio il mondo in cui viviamo e la tecnologia che ci sovrasta a spingerci sempre di più ad un ritorno al concreto, alla realtà e alla carta stampata?
Emily Dickinson diceva “Non conosco nulla al mondo che abbia tanto potere quanto la parola. A volte ne scrivo una, e la guardo, fino a quando non comincia a splendere.” Nonostante il nostro mondo cambi sempre più in fretta, la capacità che abbiamo di costruire ed immergerci negli universi creati dai grandi autori della letteratura rimane invariata, e ci consente non solo di accrescere il nostro bagaglio di conoscenze ma di diventare, se siamo fortunati, anche persone migliori. Vivendo anche le vite dei personaggi di cui leggiamo, facendo nostre le loro esperienze, gioendo insieme a loro per le conquiste, piangendo insieme a loro quando le cose vanno male e arrabbiandoci con loro per le ingiustizie subite, facciamo un grande esercizio di empatia. Ed è proprio così che si rimane umani.
06/11/2023
La luna e i falò - il testamento meraviglioso di Cesare Pavese
È il romanzo del ritorno e dell’addio, contemporaneamente; è il romanzo della rassegnazione e della nostalgia; è il romanzo con cui Pavese ha salutato il mondo, è il suo testamento: “Se anche nelle mie radici non riesco a ritrovarmi, la speranza di trovarmi da qualunque altra parte – o in qualunque altra cosa – è decisamente vana”.
Il romanzo è ambientato a Santo Stefano Belbo, paese tra le Langhe; è la storia di Anguilla che, attraverso i flashback dell’infanzia e del periodo da emigrante negli Stati Uniti, torna a visitare il paese in cui è cresciuto. Qui incontra dopo lungo tempo Nuto, il mentore della sua gioventù, e fa la conoscenza di Cinto, un bambino che vive dove lui aveva un tempo vissuto. L’incontro nostalgico con l’infanzia è però mandato in frantumi dalla realtà: tutto è cambiato, comprese le persone, che sono morte. La fine del romanzo, fortemente lirico-simbolico, rappresenta l’inevitabile distruzione di tutto quello che è stato prima, delle radici.
A distanza di più di settant’anni dalla sua uscita La luna e i falò si attesta come uno dei romanzi-capolavoro del Novecento e della letteratura italiana. Pavese traccia un profilo autobiografico che è fatto di persone, di incontri, di suoni, di profumi, di verderame, d’acqua e di fango; non si definisce da solo, ma colora i contorni per far emergere se stesso; si definisce attraverso il mondo che lo circonda.
E del mondo che lo circonda è impossibile non parlare: le Langhe di Santo Stefano Belbo, di Canelli, di Alba sono il luogo dove Pavese è nato e dove è cresciuto. In mezzo a quelle colline il tempo non sembra scorrere, ma pare quasi aver ripreso la lezione del tempo etnologico dei Malavoglia: come lui da bambino si perdeva a immaginare Canelli e le feste nella casa coi balconi, così Cinto corre lungo il Belbo e desidera un coltellino svizzero per sentirsi adulto. Eccoli Anguilla e Cinto, che si guardano negli occhi. A Cesare pare di guardarsi nello specchio del tempo, e di rivedersi in quegli occhi vispi e nelle mani probabilmente sporche, di verderame e di terra, come quando da bambino correva per le colline.
Ma Pavese è anche il portavoce di quel neorealismo che investe il dopoguerra, stanco dell’esagerata pienezza del ventennio; e anche in questo La luna e i falò si presenta come un capolavoro: è l’ultimo di una serie di romanzi iniziata con Paesi tuoi (libro col quale La luna ha parecchie assonanze) e terminata qui; quel viaggio iniziato nelle Langhe non poteva che terminare lì, con una lingua che nulla ha di sbilanciato: i termini dialettali perfettamente si amalgamano all’italiano popolare (popolare, non becero o piatto) faticando a distinguere la linea dialetto-italiano che era invece ben individuabile nei Paesi tuoi. Ma questo è un altro discorso, che merita un approfondimento a parte.
Ed eccoci ora, a più di settant’anni, a cercare di capire perché Anguilla fosse proprio voluto tornare a Santo Stefano Belbo e non a Canelli, a Barbaresco o in Alba (come dice nell’incipit del romanzo); e poi capiamo che lì Pavese aveva forgiato se stesso, nel bene e nel male, tare e pregi.
Allora la soluzione diventa limpida, cristallina: nel momento di più profonda crisi di se stesso nessun posto era più adatto, per ritrovarsi, che il luogo in cui si è cresciuti. Certo, a volte però capita di non ritrovarsi nemmeno lì... E quindi così si spiega la decisione presa di porre fine alla propria vita, di porre fine alla propria grande perdizione.
E il simbolo di questa grande perdizione, di questa impossibilità di ritrovarsi è il grande fuoco. Il grande fuoco della Gaminella in fiamme, luogo dell’infanzia di Anguilla, ed il vestito bianco, che invece è il simbolo della fine dei preparativi, come dire “son pronto; ho dato poesia agli uomini ma non è bastato”.
06/11/2023
Poesie
Vi introduciamo una poetessa esordiente che ci ha colpito con la sua raccolta sincera, capace di mettersi a nudo e di scrivere di emozioni e sensazioni con particolare destrezza. Ecco a voi quindi, cinque dei suoi componimenti, scelti dalla redazione in modo che potessero rappresentare l’universalità del suo scrivere, ma in particolare quella sua eccentrica schiettezza che ci ha colpito fin dal principio. Speriamo suscitino in voi lo stesso effetto.
Crampi ulteriori
Cristo sono andata al rostro
forte odore di mosto
Forse quegli occhi
Ti avrebbero detto
Perché non scappi?
Versi dolorosi di corta
armonia e mucchi di fringuelli
addossati al muro
rotto
Senti la casa bruciare
Vedi il legno gridare
Versi tormentati da annunci radiofonici
Avevi il cuor d’una balena
Ed il
Panorama
era tutto
storto.
Altrettanti algoritmi
Ragazza stanca di
Nuovi bagliori
Imbracciami il fucile
Per un nuovo attacco romantico;
Giulio si impicca dal poggiolo
Avevi tentato
di spiegare
chi era morto
O era il palo Infilato nei tuoi occhi di
Perla nera
Non vediamoci finché
Non avrai trovato
le istruzioni per
Occhi come cubi di Rubik
Capelli arricciati in silenzio
In un bagno da rapina
Macchine svuotate e biblioteche seriali
Adesso prendi una maglietta
E la fai tua.
I tuoi vent’anni inosservati
Lottando
Ingeriti
Sassi di guado
Forze e allori
Morte e cuori
Hai gli occhi
Umidi di buio
E
Marmi di torrente.
Sopra
Le tue ossa
Un velo.
Crepe
Fiamme apostoliche
abbiate
pietà della vostra
marinaia meccanica.
Parole,
labbra sanguinarie
ed era un fuoco infernale.
Il mio torace è un teorema
la tua carogna,
diventa fossile d’un cane.
Sono morta a 14 anni
Sono morta a 14 anni
Fuori un lago di sangue e di spasmi
Due
Forti
Fitte;
L'altra sera
Ero a recidere una rosa,
Al pensiero d’una mia vena.
Ricordi ancora, forse, il 45 giri
E la moka rovesciata;
Una morte
inosservata.
06/11/2023
Nel 2012 si converte al cristianesimo, tema ripreso più volte dai suoi romanzi e che in Norvegia assume tutto un nuovo significato. Questa sua scelta religiosa sembra preludere una certa sensibilità verso temi più misteriosi, impalpabili, sopratutto là dove la maggioranza religiosa è protestante.
Il suo nome riecheggiava tra i possibili vincenti già da anni, tanto da portarlo a dichiararsi “stupito ma non troppo” dell’onorificenza ricevuta. Dopotutto, già negli anni novanta cominciava a ricevere le prime onorificenze e pochi anni più tardi le sue opere Poco sappiamo della sua vita privata, ma una cosa è certa: il Daily Telegraph, che non troppo tempo fa lo aveva inserito nella classifica dei 100 geni viventi, ci aveva visto lungo.
06/11/2023
L’isola di Arturo - Elsa Morante
“[...] La rosa l’ha in se stessa, il proprio miele: miele di rose, il più adorato, il più prezioso! La cosa più dolce che innamora essa l’ha già in se stessa: non serve cercarla altrove. Ma qualche volta sospirano di solitudine, le rose, questi esseri divini.”
Non bisognerebbe stupirsi nel venire a conoscenza del fatto che “L’isola di Arturo" (Einaudi, 1957), nato dalla meticolosa penna di Elsa Morante, valse alla sua autrice il Premio Strega, proprio lo stesso anno della sua pubblicazione! E non solo: Morante fu la prima donna ad essere insignita di tale onorificenza.
Come ogni romanzo di formazione che si rispetti, esso accompagna il lettore lungo il cammino di crescita del protagonista, in questo caso il procidano Arturo Gerace; orfano di madre, bazzicante in una landa di illusioni fiabesche prima e delusioni amare poi, in seguito all’adolescenza.
La figura paterna, rappresentata dall’italo-tedesco Wilhelm Gerace, non può affermarsi come valida sostituta di quella materna; W. G. (a volte il suo nome viene così abbreviato nel libro) è infatti continuamente coinvolto in viaggi dalla durata incerta. Questa prolungata assenza porta il piccolo Arturo a fantasticare sul mistico genitore, innalzandolo a idolo, quasi un comandante supremo da venerare con rispetto e timore. E così, i primi anni di fanciullezza di Arturo trascorrono sull’isola, in un oscillare ben distinto tra due sponde: il tallonare pedissequamente suo padre ogni qualvolta egli faccia ritorno a Procida e, in sua assenza, trastullarsi nella cosiddetta “Casa dei guaglioni” leggendo storie di “eccellenti condottieri” (mai al pari, si capisce, del padre, che egli crede essere il più grande eroe di tutti i tempi). Nel profondo del suo animo, però, Arturo avverte la sofferenza provocata dall’assenza di baci e attenzioni materne, che la sua genitrice, venuta a mancare appena dopo il parto, non aveva avuto il tempo di dedicargli.
“Perfino le nubi, in cielo, si baciano! Fra la gente, là per le strade, non c’era persona che non conoscesse questo sapore [...] Solo io non lo conoscevo; e mi venne una tale nostalgia di provarlo, che notte e giorno non pensavo quasi ad altro.”
L’unica donna che possibilità Arturo ad una conoscenza con il sesso femminile è Nunziata, sposata con W. G. nonostante i loro 17 anni di differenza. Con lei il protagonista avvia un rapporto di odio-amore fin da subito, probabilmente anche sotto l’influenza dei pensieri aspramente misogini del padre, che si trovava ad udire spesso e in abbondanza, e che quindi caratterizzano gran parte del romanzo: Arturo è attratto e respinto allo stesso tempo dall’universo femminile, del quale non conosce altro che sottane, gioielli e faccende domestiche.
“Tutte le grandi azioni che m’affascinavano sui libri erano compiute da uomini, mai da donne. L’avventura, la guerra e la gloria erano privilegi virili. Le donne, invece, erano l’amore; e nei libri si parlava di persone femminili regali e stupende. Ma io sospettavo
che simili donne, e anche quel meraviglioso sentimento dell’amore, fossero soltanto un’invenzione dei libri, non una realtà.”
Le avventure di Arturo, che per destino di nascita si trova ad affrontare in solitudine, senza disporre nemmeno di un confidente, lo temprano sì al livello fisico, ma lo lasciano sconvolto sul piano sentimentale.
Noi tutti siamo Arturo e Procida è la nostra casa.
La Morante ci invita, quasi perentoria e insistente, ad indagare il nostro passato, riesumando i ricordi di solitudine e mancanza ormai polverosi, rimasti nascosti nei corridoi più profondi e bui della mente. In quanto lettori ci è di dovere riflettere su due domande: la prima: se anche noi, come Arturo, siamo mai riusciti a salpare dalla nostra isola, piccolo grande pezzo di terra ormai divenuto guscio opprimente, e la seconda: quante cose abbiamo appreso al termine della lunga traversata che caratterizza l’età d’oro della vita.
01/09/2023