Seguendo il sentiero arrivo davanti ad uno spettacolo terrificante: le rocce coperte da muschio sono state travolte dal peso di un tronco d’albero dalla chioma arancione che, per via del passare del tempo, sta lasciando libere, in una dolce danza, le sue foglie secche e vecchie. Dietro di esso, un dirupo roccioso. La roccia è spaventosa. La cima guarda dritto dentro l’anima e mi stordisce, mi fa cadere all’indietro. Il mio cuore non riesce a tenere dentro di sé tale spettacolo mostruoso, così potente da rendermi vincibile, piccolo, il nulla. La nebbia diffonde il colore della luce che proviene dalla sfera celeste, mi mostra i suoi raggi sfuggenti e mi prende in giro per la mia condizione mortale. Se urlo, il mio stesso eco mangia le mie parole, mi disintegra, mi abbandona. Sento le campane in lontananza, chiudo gli occhi e mi teletrasporto.
La tomba di Hutten è dipinta su un tramonto aranciato, le rovine e le piante lo incorniciano in un ricordo passato. La Natura mi spaventa, mi rapisce, mi ricorda che lei ha il potere sulla mia inutile esistenza, che anche le mie più grandi imprese verranno dimenticate, disseminate dalle erbacce del futuro. Un albero mi osserva da sopra il monumento mentre mi sdraio ad accarezzare il marmo di un uomo che è andato contro altri uomini. La roccia è fredda, fa male a toccarla. Sento un buco sulla superficie, provo a sbirciare dentro e mi ritrovo catapultato in un altro incubo.
La terra è assediata da tombe di miei simili, grandi eroi e piccoli uomini, mia sorella e mio figlio, una sola scritta su un frammento di pietra porta il loro nome, come se questo bastasse per onorare una vita intera. L'abbazia mi sussurra qualcosa in una lingua arcaica, incomprensibile, mi cinge alla gola e allo stomaco, mi blocca la parola. Gli alberi entrano nelle mie palpebre e si impossessano del mio corpo, dell’unica cosa che mi incatena a questa terra umida.
Mi sveglio davanti alla mia tela. Sublime.
L’ombra è un elemento tanto scontato quanto essenziale, analizzando la relazione tra architettura e uomo, risulta ponte tra il tangibile e l’immateriale, connessione tra ciò che percepiamo e ciò che immaginiamo. Questa, relegata spesso ad elemento secondario, riesce invece a cambiare la percezione dello spazio e mutando con il naturale scorrere del tempo, influenza notevolmente chi in primis vive l’esperienza di un luogo.
L’ombra viene qui “chiamata a giudizio”, spogliata dei suoi significati più profondi e insiti, per indagarne i molteplici ruoli. Essa è garante della presenza della materia, elemento naturale e profondamente legato alla sfera umana, significando dualmente rifugio e limite.
Nel linguaggio comune e nei miti antichi, l’ombra rappresenta il limite tra il mondo reale e quello immaginario, una dimensione intermedia che accende domande sull’identità dello spazio. La proiezione oscura come, fenomeno ottico, simbolo culturale e strumento architettonico.
L’ombra nell’architettura è intesa come rifugio; lo dimostra il caso studio della maidan tent, una semplice tenda appunto, concepita da un team di architetti, psicologi e antropologi per chi scappa dalla propria terra, una prima spiaggia a cui arenare, la maidan tent risponde ai due primi richiami d’aiuto: la protezione dal sole, uno spazio quindi ombroso in cui riposare e un luogo in cui ricreare comunità e riformare un sistema di collettività sociale.
Il concetto della proiezione dell’ombra è qualcosa di estremamente politico, l’ombra difatti non è effettivamente regolamentata, risulta essere accidentale, civica e generalmente gratuita, il riparo dal sole è una risorsa pubblica, uno dei pochi spazi davvero democratici che ci sono rimasti.
Lo spazio oscuro ha una faccia della medaglia più inquieta, si presenta come un ambiente volutamente indefinito o parzialmente illuminato, che lascia molto all’immaginazione di chi lo abita. In questo modo, viene destabilizzata la percezione del luogo, generando un senso di vulnerabilità e insicurezza. L'oscurità, lungi dall’essere un semplice vuoto, si arricchisce di significati e percezioni sottili, portando alla superficie aspetti psicologici profondi e creando tensione tra ciò che è visibile e ciò che rimane nascosto. L’ ombra diventa una metafora e uno strumento narrativo per l'architettura: non è solo assenza di luce, ma un mezzo attraverso cui si può comunicare e manipolare l’esperienza dello spazio.
Questi ambienti non convenzionali e ambigui mettono anche in discussione le gerarchie e le strutture di potere tradizionali. Creare spazi perturbanti significa uscire dai confini dell’ordine architettonico convenzionale, che spesso riflette strutture sociali rigide e gerarchiche. L'architettura perturbante diventa così una forma di resistenza a schemi di potere dominanti, capace di sfidare l’ordine prestabilito e proporre nuovi modi di intendere lo spazio e la relazione con esso.
In un contesto urbano, l’architettura moderna tende a progettare spazi sempre più controllati e sicuri, illuminati in modo strategico per favorire la sorveglianza continua, nasce così il concetto di trasparenza universale che da il via a quella che conosciamo come politica della sorveglianza. Questo al fine di contrastare quelli che sono spazi oscuri, dove invece, la visibilità è ridotta, questi possono rappresentare un’opposizione silenziosa a questo controllo pervasivo, offrendo luoghi in cui si può sfuggire alla visibilità costante. La presenza di questi spazi negli ambienti urbani ricorda quanto sia necessario preservare aree in cui la libertà personale non sia del tutto
condizionata dalla sorveglianza. Possiamo affermare quindi che gli spazi oscuri diventano spesso anche simbolo di esclusione sociale e segregazione
L’ombra quindi, capace di intrecciare diverse dimensioni multidisciplinari, si propone da elemento naturale a fondamentale componente architettonica, chiave di lettura per interpretare lo spazio e l’esperienza umana; da sempre compagna e nemesi della luce, emerge come protagonista, capace di dare significato allo spazio e alle relazioni umane, la quale, nel corso del tempo si è fatta veicolo di monumentalità e rifugio, di mistero e chiarezza. In architettura l’ombra si propone come linguaggio, raccontando la mutevolezza del tempo, disegnando volumi e superfici, invitando chi vive lo spazio ad immergersi in una esperienza fisica e sensoriale, progettarla significa facilitare e ascoltare la presenza della natura e accogliere il lato umano all’interno dello spazio costruito, con l’obbiettivo ultimo di rendere uno spazio non solo vivibile, ma vivo.
Pittore, scultore, incisore: un artista eclettico la cui poetica realizzazione è frutto di movimenti irrequieti, istintivi e meccanici. Alberto Giacometti trova un nuovo modo di pensare: il volto umano non è pretesto di virtuosismi, ma strumento di indagine della realtà.
Giacometti tenta di realizzare a memoria ciò che osserva, partendo dal disegno che considera struttura ossea della forma. Nella litografia Due Teste (1961) il soggetto è il risultato di una somma di linee che si intersecano in una danza viva. Questa vibrante tensione si trasferisce dalla pagina alla materia scultorea: le sue opere sono “forme tese” che necessitano di questa forza per conservare la loro esistenza. La figura plastica, durante la sua realizzazione, pare subito falsa ai suoi occhi. L’autore – o meglio, il creatore - per definirla e fissarla nello spazio è costretto a sacrificare materia, a ridurre secondo “un procedimento voluto ma necessario” come egli denuncia spesso. La sensibilità del creatore si riflette inevitabilmente nel risultato finale: osservare una qualsiasi forma artistica non è altro che la soggettiva realtà dell’artista che l’ha creata. Non è un caso che i volti delle sue figure ricordano i lineamenti dello stesso Giacometti: l’autore lascia anche plasticamente qualcosa di sé stesso nella sua arte, come si può ammirare nella sua Grand tête mince (1955).
Corpi nudi, dal medesimo aspetto, abitano lo spazio e si presentano nella loro essenza più pura, come in The Forest (1950). L’essere umano viene ritratto privo di etichette sociali e spoglio di una qualsiasi forma di distinzione visiva. Giacometti fatica nel tradurre la realtà: non riesce a creare quelle teste voluminose che immagina, ma istintivamente crea solo corpi dalle forme allungate. Visibili impronte modellano senza sosta: l’artista è intrappolato in un vortice di incomunicabilità e così le opere sembrano eternamente non finite, imprigionate in un continuo divenire plastico. Una febbrile necessità spinge l’artista a trasporre in arte ciò che la vista gli detta, consapevole che il suo fallimento sia l’unica via per la verità. La materia rappresentata non può essere completata, essa deve mutare e vivere in una tensione costante: lo slancio creativo è più importante del risultato stesso. Lo spazio intorno soffoca quei corpi, e la mano dell’artista – modellando instancabilmente- permette alla materia di fuggire a questa pressione. L’argilla, attraverso l’azione creatrice, non è più massa inerte ma corpo vivo.
Giacometti propone un’arte universale che racconta intrinsecamente la condizione umana: quante volte ci sentiamo così sottili, intrappolati nella ricerca di qualcosa o di qualcuno? Imprigionati in quella schiavizzante ma adrenalinica sensazione di voler inseguire una meta, un traguardo, che non vorremo mai realmente raggiungere perché consapevoli della nostra insaziabilità.
<< Il racconto di tre personalita’ chiave del giornalismo del Novecento attraverso una macchina da scrivere>>
Nel 1950 iniziò ad essere prodotta la “Lettera 22”, il secondo modello di macchina da scrivere portatile della società Olivetti, che venne consacrata nel corso degli anni '50 e '60 come la migliore macchina da scrivere mai realizzata fino a quel momento, tanto da aver vinto numerosi premi di design in Italia e all’estero, oltre ad essere esposta oggi al MoMA di New York.
La chiave di successo della Lettera 22 fu l’accurata progettazione che permise alla macchina di assumere una forma compatta ed essenziale, attraverso provvedimenti come la rimozione di qualsiasi sporgenza o elemento di ingombro, con l’obiettivo di creare una macchina da scrivere che non fosse relegata agli uffici ma che potesse essere utilizzata anche in occasioni straordinarie; l’intento della Olivetti era talmente chiaro che la Lettera 22 veniva venduta accompagnata da una custodia con maniglia, per facilitarne il trasporto.
Una delle dimostrazioni della buona riuscita del progetto della Olivetti è stato il considerevole utilizzo della macchina da parte della maggior parte dei giornalisti e scrittori fino all’avvento dei computer e dei programmi di scrittura; infatti la Lettera 22 può essere considerata un punto in comune tra alcune personalità di cultura della seconda metà del Novecento delle quali vale la pena raccontare la storia e il lavoro.
I giornalisti di guerra furono sicuramente la categoria che giovò maggiormente delle comodità della nuova macchina da scrivere della Olivetti, tra questi Indro Montanelli e Oriana Fallaci, i quali furono spesso fotografati in possesso di una Lettera 22 e che nel corso della loro attività giornalistica documentarono territori colpiti da atroci guerre, spesso accompagnati solo da quella macchina da scrivere, che rappresenta l’unica somiglianza tra queste due personalità molto diverse nelle radici e nelle idee: lui sposa l’ideologia fascista e lavorerà per conto del regime, mentre lei partecipa sin da bambina alla Resistenza Italiana al fianco del padre, col compito di staffetta.
Indro Montanelli iniziò l’attività di giornalista di guerra nel 1935 raccontando la sua esperienza come sottotenente volontario durante la Guerra d’Etiopia, ma i suoi lavori più significativi riguardano la Seconda Guerra Mondiale, infatti Montanelli si recò in qualità di corrispondente su vari fronti di guerra europei assistendo in prima persona ad eventi chiave come l’invasione della Polonia da parte della Germania Nazista e l’invasione dell’Estonia da parte dell’URSS di Stalin, ma documentò anche scenari di guerra minori in Francia, nei Balcani e in Grecia, fino al 1944 quando venne arrestato e fatto prigioniero dai nazi-fascisti a causa di aver rinnegato le idee fasciste e aver tentato di unirsi ad un gruppo clandestino anti-fascista.
Nel corso della sua carriera post Seconda Guerra Mondiale, Montanelli divenne uno dei giornalisti più influenti dell’epoca, scrivendo per svariati anni sul “Corriere della Sera” e fondando “Il Giornale”, che tutt’oggi fa parte dei principali quotidiani italiani.
Oriana Fallaci, 20 anni più giovane di Montanelli, a partire dal 1967 seguì sul campo la Guerra del Vietnam, recandosi sul posto dodici volte nell’arco di sette anni e pubblicando “Niente e così sia”: un saggio scritto sotto forma di diario dove l’autrice riporta sue opinioni e interviste a diversi testimoni, tra cui soldati americani e vietnamiti, assieme ad alcuni pareri di un gruppo di giornalisti francesi presenti in Vietnam. Continuando la sua attività da giornalista sul campo, nel 1968 rimase gravemente ferita da una raffica di mitra delle forze militari messicane, che avevano aperto il fuoco su degli studenti intenti a protestare contro l’occupazione militare di un campus universitario.
Oltre ad essere stata una delle giornaliste italiane più importanti del Novecento, Oriana Fallaci scrisse numerosi libri di successo tra cui dei saggi sull’aborto e sulla condizione della donna in determinate zone del mondo, un reportage su dei programmi spaziali NASA del 1961 e un libro sull’attacco alle Torri Gemelle dell'11 settembre 2001.
Un altro personaggio immortalato svariate volte in possesso di una Lettera 22 è Enzo Biagi, considerato uno dei giornalisti più celebri del XX secolo, che intraprese la strada del giornalismo da giovane, prendendo parte alla Resistenza Italiana e occupandosi di informare i cittadini sul reale andamento della guerra. Nel corso degli anni Cinquanta, Enzo Biagi viene chiamato a lavorare come direttore del settimanale Epoca, fino al suo sbarco in televisione nel 1961 con l’incarico di direttore del primo Telegiornale Rai. Da qui Biagi iniziò a diventare sempre di più uno dei volti più noti dell’epoca, grazie anche alle sue numerose interviste a figure che ricoprivano un ruolo centrale nel dibattito di quegli anni, come ad esempio Giovanni Agnelli, Pier Paolo Pasolini, Tommaso Buscetta e Silvio Berlusconi.
Tra il 1892 e il 1894 il pittore francese Oscar-Claude Monet dipinse ben cinquanta volte lo stesso soggetto: la Cattedrale di Rouen. Scelta curiosa e assai insolita considerato l’amore dell’artista per la rappresentazione dei paesaggi naturali. Probabilmente questa sua insolita decisione fu presa a seguito di una forma acuta di reumatismi che gli resero difficile lavorare all’aperto, a causa di ciò optò per raffigurare un monumento che poteva tranquillamente osservare da una finestra rimanendo al chiuso. L’artista si impegnò a raffigurare ripetutamente sempre la facciata frontale della chiesa, riportando su tela in maniera semplificata le sue intricate forme, e a utilizzare per quasi tutti i dipinti uno stesso punto di vista obliquo. Monet dipinse queste Cattedrali osservandole da vari luoghi; prima dal suo appartamento in piazza, poi dal cortile d’Albane e persino dal camerino di un ex negozio di lingerie. Pur presentando sempre il medesimo soggetto, queste cattedrali sono spiccatamente diverse tra loro; il pittore francese ha infatti deciso di mostrarcele al variare del tempo, del clima e delle condizioni atmosferiche. Questa ripetizione quasi ossessiva dello stesso soggetto ha consentito all’artista di studiare attentamente il monumento e di rielaborarlo continuamente nelle sue tele.
Monet stesso spiegò che all’inizio aveva programmato di dipingere la Cattedrale solamente due volte: una illuminata da un sole splendente, un’altra durante una giornata nuvolosa. Notò, poi, che il cambiamento della luce era costante e così decise di registrare sulle sue tele tutte le espressioni che la Cattedrale di Rouen assumeva ogni qualvolta la luce cambiasse.
Monet non era interessato alla complessa architettura del monumento gotico, il suo scopo non era infatti quello di riuscire a riprodurre fedelmente la chiesa. Il pittore desiderava cogliere i mutamenti della luce e imprimerli per sempre su una tela in modo tale da farli sopravvivere attraverso i secoli. Il suo interesse era unicamente rivolto verso lo studio delle varie problematiche relative all’utilizzo del colore e delle ombre. Monet fece particolare attenzione alle sfumature e alle zone di penombra che solcavano la cattedrale come rughe su un viso. “Il colore è la mia ossessione quotidiana, la gioia e il tormento”, queste sono le parole del pittore. Il colore non è più unicamente un mezzo per riportare la realtà su tela, esso diventa il vero protagonista dei dipinti. È proprio grazie a lui che l’artista riesce a catturare i mille volti della luce. Nella Cattedrale di Rouen in pieno sole vediamo come la qualità della pittura e del colore utilizzata da Monet arrivi quasi a dissolvere completamente la solida durezza della pietra in una specie di foschia luminosa. Notiamo così come il suo magistrale uso del colore assuma un ruolo fondamentale permettendoci di percepire le variazioni climatiche, le ore del giorno e tutto ciò solo grazie ad un sublime lavoro di parti in luce e in ombra.
Ma quanto è importante la luce? Quanto cambia il nostro modo di vedere le cose? La luce è tutto, così come il colore. Ci consente di vedere le cose da un’altra prospettiva; cambia il nostro volto, il colore dei nostri occhi e le forme delle città. Questi due elementi sono di straordinaria importanza nelle nostre vite, anche se spesso non ce ne rendiamo davvero conto. Ogni cosa, ogni persona, ogni creatura esistente su questo pianeta muta a seconda del colore e della luce che la colpisce, che la illumina. Monet ha voluto registrare proprio questo: lo straordinario valore della luce e del colore, elementi che hanno il potere di cambiare ogni cosa e che riescono ad arrivare direttamente al nostro cuore.
22/05/2024
Recentemente si è svolto a Milano il Salone Internazionale del Mobile, uno degli eventi riguardanti il campo del design e dell’arredamento più influenti al livello mondiale, divenuto ormai imperdibile per tutti gli appassionati e i professionisti del settore.
Artisti, creativi, designer, progettisti ed ormai anche influencer giungono da tutto il mondo per assistere agli innumerevoli eventi all’interno della fiera e nel fuorisalone, rendendo Milano, una volta in più il centro del mondo.
La fiera del Mobile nasce nel 1961 grazie a tredici mobilieri italiani, riunitisi sotto la sigla Cosmit “Comitato organizzatore del Salone del mobile Italiano”, che decisero di realizzare un salone legato all’arredamento e al design. Questa prima edizione, alla quale parteciparono 328 aziende italiane, ebbe inizio il 24 settembre e si svolse nei padiglioni 28 e 34 della vecchia Fiera Campionaria con lo scopo di promuovere le esportazioni di mobili italiani. Da subito la fiera riscontrò un grande successo, al punto che già nella seconda metà degli anni 60, grazie al boom economico e a un Italia che si avvicinava sempre di più al mondo del design, riesce a diventare un evento di portata internazionale. Dal 1967 oltre al Salone vero e proprio, viene organizzata una mostra sul design del mobile Italiano dal 1945 in poi e questo sarà l’inizio di un progetto culturale che accompagnerà il salone negli anni futuri, rendendolo sempre più un fenomeno culturale oltre che una semplice fiera espositiva.
Nel decennio successivo, anche grazie alla grande diffusione di elettrodomestici e arredi tecnicamente più avanzati, prendono vita le prime due sezioni dedicate a settori più specifici: EuroCucina nel 74 ed EuroLuce nel 76.
Negli anni 80, simbolo di un capitalismo sempre più presente e con l’avvento dei primi computer, il Salone si dota anche di uno sguardo specifico verso il mondo dell’arredo da ufficio: nasce Eimu. Nel 1987, il percorso di crescita culturale, oltre a quello economico, vede riconosciuti gli sforzi ed il Cosmit viene premiato con il prestigioso Compasso d’Oro.
Il successo del Salone sembra non avere fine e la manifestazione che fino ad allora aveva cadenza biennale, nel 1991 passa ad essere un appuntamento annuale. Parallelamente si celebrano i grandi designer italiani: Castiglioni, Ponti, Colombo, Sottsass, Magistretti. Il fenomeno Salone del Mobile continua a crescere nei numeri dei visitatori, dei partecipanti e degli spazi ad esso dedicati, nasce, in questi anni il Salone Satellite, ideato per permettere ai nuovi designer di esporre i propri progetti. Nel 2005, forte di numeri in continua crescita, il Salone cambia finalmente casa e si sposta dagli spazi della fiera campionaria al nuovo polo Fiera Milano Rho, su progetto dell’architetto romano Fuksas. I nuovi riuscitissimi spazi, consentono in questi anni di aprire il salone anche a visitatori e curiosi, oltre che agli addetti di settore ed ai giornalisti. Il Salone del Mobile Milano, o come ormai è conosciuto in tutto il mondo, Milano Design Week, è ormai un evento di portata globale e la sua formula di successo viene addirittura esportata a New York e Mosca nel 2005 e nel 2016 a Shanghai.
Nonostante la pandemia ne abbia rallentato la crescita esponenziale, quest’anno con la 62esima edizione si è arrivati alla cifra record di 316.000 visitatori, ben il 17% in più della passata edizione.
Con ormai oltre 1000 espositori di cui oltre 300 esteri, il Salone rappresenta forse il simbolo più importante del Made in Italy.
C’è da domandarsi come potranno progettisti designer e produttori continuare a reggere il ritmo di una produzione stagionale (sempre più in linea con i ritmi del frenetico mondo della moda) senza correre il rischio di entrare in conflitto con un mondo che da più parti chiede sostenibilità e attenzione alle risorse.
22/05/2024
Molti di voi, probabilmente già conoscono o hanno visto lo Stool 60 e la Paimio Chair ma solo pochi di voi conosceranno il designer che c’è dietro. Alvar Aalto - nato a Kuortane nel 1898 e morto ad Helsinki nel 1976 - è sicuramente il più grande architetto e designer finlandese, ed è considerato uno dei padri del movimento moderno . Aalto divenne famoso in europa inizialmente proprio grazie al suo design. I suoi oggetti riscossero un grande successo, sia per l’eleganza delle forme , che per la semplicità dei materiali, realizzati con un elevato contenuto di tecnologia. Questo accostamento di arte e tecnologia è centrale nel movimento moderno e in tutta l’opera di Alvar Aalto, che quando si troverà a fondare una società di produzione di design la chiamerà proprio Artek, sintesi di arte e tecnologia.
Artek viene fondata nel 1935 da quattro giovani: Alvar e sua moglie Aino, Marie Gullichsen e Nils Gustav Hahl con l’obiettivo di produrre e vendere mobili adatti alla vita moderna. Seguendo questi obiettivi i coniugi Aalto svilupperanno due grandi famiglie di ogetti di design :
I mobili, nati dalla ricerca e dalla sperimentazione della curvatura del legno di betulla.
Le luci, realizzate principalmente in metallo.
Tutt’ora la casa fondata dai quattro giovani produce i capolavori del maestro finlandese.
Oltre alllo Stool 60 e alla Paimio Chair Aalto è conosciuto per la grande produzione di ogetti in vetro, tra cui il vaso probabilmente più famoso del mondo, il Vaso Savoy, che con la sua forma organica ed elegante racchiude in se le idee di Alvar sul design. In questo progetto, ma in generale su tutta la produzione di Aalto designer un ruolo fondamentale è stato svolto dalla sua prima moglie Aino. Il suo ruolo nella progettazione architettonica non è stato del tutto chiarito, ma è certo che il suo contributo nel design fu fondamentale.
L'interesse di Aalto per il design è dovuto non soltanto dalla sua capacità di progettista ma anche e soprattutto dalla sua attenzione per l’essere umano. Infatti è grazie a questa sua grande cura per i bisogni dell’uomo che riesce a sviluppare un linguaggio innovativo nel design e parallelamente in architettura, un linguaggio che riesce ad essere allo stesso tempo personale ed universale. Non è un caso se i suoi oggetti più famosi sono stati concepiti all’interno di progetti architettonici, ad esempio la paimio chair è stata progettata espressamente per l’omonimo ospedale. Nella sua ricerca costante di nuove forme, nuovi materiali e nuove funzioni Aalto ha aperto la strada a tutte le future generazioni di designers.
04/01/2024
Guida alla Londra istantanea
Anche noi, come la maggior parte di voi, stiamo soffrendo un grave caso di siccità economica post-estate. Ma se siete oramai ricaricati da questo periodo di riposo e pronti a ripartire, ecco una lista di 5 incredibili mostre a Londra da poter visitare senza spendere un euro! (o un pound, se preferite).
Che siate studenti, professionalmente impegnati o disoccupati, Londra risulterà sempre poco economica e di conseguenza potrebbe essere difficile trovare eventi che siano tanto interessanti quanto “wallet-friendly”.
Non bisogna pensare però che sia una città così insostenibilmente costosa come sembra, ed oggi ve lo dimostreremo.
- Come consiglio di apertura, menzioniamo la mostra di Theresa Weber, disponibile fino al primo febbraio 2024. Nella Somerset House, una splendida galleria in una struttura neoclassica nel cuore di Londra, la mostra intitolata “Cycles of unmasking” è caratterizzata da diverse installazioni create dall’artista su misura della sede, in quanto sua prima commissione pubblica nel Regno Unito. Se siete affascinati dai colori, dalle textures, dalle luci e dall’arte concettuale, sicuramente la visita non vi lascerà insoddisfatti.
- Siete appena arrivati a Londra e vi sentite già nostalgici? Allora è forse il caso di dare un’occhiata alla mostra dedicata a Pesellino, per ricordarvi dell’Italia attraverso le sue elegantissime opere rinascimentali. Se siete interessati, correte alla
National gallery, indiscutibile capostipite delle strutture londinesi, entro il 10 marzo 2024.
- Come potevamo escludere il famigeratissimo Tate Modern dalla lista? Nonostante si possa pensare il contrario, il Tate offre un’ottima selezione di mostre ed eventi gratuiti. Tra quelli che hanno catturato la nostra attenzione troviamo i “TURNER PRIZE 2023”: annualmente Londra ospita una competizione artistica in una sede al di fuori del Tate Modern. I candidati alla vittoria di quest’anno sono gli artisti Jesse Darling, Ghislaine Leung, Rory Pilgrim e Barbara Walker; l’evento si terrà alla galleria d’arte Towner Eastbourne e sarà disponibile dal 28 Settembre 2023 al 4 Aprile 2024, mentre l’annuncio del vincitore si terrà il giorno 5 Dicembre 2023. Qui siamo già tutti sulle spine!
- Le sorprese del Tate non finiscono qui! Il museo ospiterà infatti anche l’interessantissima installazione di El Anatsui, aperta al pubblico fino al 14 aprile 2024. L’opera si presenta come coloratissima e molto complessa data la cura dell’artista per ogni piccolo dettaglio. E se non fosse abbastanza, l’artista prende ispirazione dagli eventi del traffico di esseri umani durante la schiavitù transatlantica. Un’ottimo connubio tra storia e arte!
- A volte c’è bisogno di qualcosa di più coinvolgente ed interattivo per fare in modo che una mostra sia davvero interessante. E’ il caso della mostra “Genetic Automata” di Larry Achiampong e David Blandy, disponibile fino all’11 febbraio 2024. Attraverso schermi, film e avatar digitali, gli artisti esplorano le mille sfaccettature del concetto di “identità”, considerando i vari fattori che hanno plasmato o definito la nostra personalità negli anni. Da non perdere!
Se le mostre elencate non dovessero bastarvi vi consigliamo di controllare periodicamente i siti web di ognuna delle sedi menzionate o di iscrivervi alle varie newsletter per rimanere sempre aggiornati.
Buona visita e fateci sapere quale delle mostre vi è piaciuta di più!
Link individuali delle mostre:
Pesellino: A Renaissance Master Revealed | Exhibitions | National Gallery, London
Theresa Weber: Cycles of Unmasking | Somerset House Genetic Automata
06/11/2023
4 quadri che hai visto ma di cui non sai la storia
Il Ritratto dei coniugi Arnolfini
Il ritratto dei coniugi Arnolfini è uno dei capolavori di Jan van Eyck dipinto nel 1434. Nel dipinto sono raffigurati Giovanni Arnolfini e la moglie Giovanna. L’artista riproduce la dimora dei coniugi come una delle tipiche ricche residenze dei commercianti che vivevano nelle Fiandre nel Rinascimento, indicando così lo status sociale dei due. Infatti il quadro è pieno di simboli e dettagli come il cane che indica la fedeltà coniugale o lo specchio appeso al muro. Quest’ultimo rende possibile infatti il riflesso degli sposi e davanti a loro di altre due figure delle quali una potrebbe essere quella del pittore. Inoltre la quantità di simboli all’interno del quadro ha portato molti studiosi a pensare che nel ritratto è raffigurata la celebrazione del matrimonio tra i due.
La Notte Stellata
La Notte Stellata di Van Gogh è un quadro, scritto nel 1889, che tutti abbiamo visto almeno una volta. Tuttavia non tutti sanno la storia che si nasconde dietro a questo dipinto. Ovvero che van Gogh prese l’ispirazione per questo dipinto all’interno dell’istituto mentale dove era stato ricoverato dopo essersi tagliato l’orecchio. Infatti la notte stelle sta che vediamo nel dipinto si tratta della vista che van Gogh vedeva dalla finestra della sua camera nell’istituto, e la stella più luminosa del dipinto è Venere, che era visibile, dall’istituto, all’alba nel giugno del 1889.
La persistenza della memoria
La persistenza della memoria è un dipinto del 1931, realizzato da Salvador Dalí ed è infatti una delle sue opere più conosciute. Tuttavia La storia della creazione del dipinto è molto buffa, perché pare che Dalí abbia realizzato il dipinto in sole due ore e con un insolito soggetto. Era infatti a casa con un forte mal di testa quando si trovò a riflettere sullo scorrere del tempo dal formaggio molle che stava mangiando.
L'Ophelia
“L’Ophelia” è un dipinto di John Everett Millais del 1851, e la storia della sua creazione è piuttosto buffa. Millias dipingeva dal vivo infatti, o almeno quando poteva. Per questo gran parte delle piante che raffigurate nel quadro sono state dipinte dal vivo osservando le sponde del fiume Hogsmill, mentre la ragazza che faceva la modella per il quadro, Elizabeth Siddall, è stata fatta posare tutto il tempo in una vasca piena d’acqua, scaldata da delle candele, all’interno dello studio del pittore.
01/09/2023