Come eravamo? É l’archivio a cura di Gianfilippo De Rossi a raccontarcelo
Martina Maffi
Martina Maffi
Per il fotografo romano Gianfilippo De Rossi tutto ha inizio nel 2014, anno in cui perde il suo prozio: Gianfranco Torossi, classe 1921.
È un racconto che parte da semplici scatoloni, dove Gianfilippo decide di raccogliere tutti i negativi, le stampe, le lastre e gli apparecchi fotografici del prozio, pensando che prima o poi ci avrebbe messo mano, se non altro per vedere di cosa si trattasse.
Aprendo quel materiale è iniziata la scoperta e lo stupore: Gianfilippo non trova solo le classiche foto di famiglia, un po’ quelle che tutti conservano, ma immagini legate alla vita e alle vicende di Gianfranco, come l’adolescenza negli anni ’30, la guerra e gli spostamenti con il suo reggimento di artiglieria durante la II Guerra Mondiale. E poi l’Italia del boom economico, della borghesia e
della Democrazia Cristiana…
L’esperienza pregressa di Gianfilippo e il suo lavoro già avviato come fotografato non potevano che portarlo all’esplorazione delle migliaia di negativi scattati da Gianfranco, partendo dalla scansione dai 35mm in bianco nero più datati, fino ad arrivare al materiale degli anni ’90, ricostruendo un percorso storico e osservando i cambiamenti nelle fotografie nei vari decenni. Un grande rinvenimento famigliare, ma che racconta tanto anche a noi - nel quale grazie a Gianfilippo e al suo lavoro tra camera oscura, scansioni e chimici, possiamo immergerci e assaporare la ormai distante dolce vita borghese italiana.
Gianfilippo mi racconta Gianfranco. Un fotografo amatore, più appassionato del mezzo fotografico che non del linguaggio fotografico, che nella vita ha collezionato, comprato e rivenduto con altri appassionati di fotografia centinaia di apparecchi fotografici dalla fine dell’800 fino a poi agli anni ’50, ’60 e ’70 del ‘900. Il suo amore per la fotografia era evidente, ce lo racconta il suo archivio, ma Gianfilippo sottolinea il suo interesse, sempre rimasto fortemente legato al mezzo e alla meccanica di esso. I suoi luoghi prediletti erano il mercato di Porta Portese - che fino agli anni 2000 era fortemente legato all’antiquariato - e altri mercatini nazionali come il mercato dell’antiquariato di Arezzo.
Gianfilippo, invece, si è slegato dalla meccanicità del mezzo fotografico. Mi racconta che della fotografia ne ha fatto la sua professione, lavorando con varie riviste e testate giornalistiche, moltissimo nel cinema e nella televisione, sia come fotografo che come operatore di macchina, dopo relativi studi sulla fotografia, sul linguaggio fotografico e sul reportage.
Nel curare un archivio come questo, un archivio intimo, famigliare, Gianfilippo ha indossato un po’ i panni di un investigatore - spiando nella vita di suo zio con divertimento, curiosità - e (immagino) l’emozione di scoprire vite sbiadite catturate proprio dai rullini di Gianfranco. Tuttavia, c’è anche la responsabilità storica nel cercare le fonti di informazioni, nel localizzare luoghi e ove possibile,
dare una datazione.
Gianfilippo continua a scansionare e pulire i negativi dello zio per pubblicare le foto nella pagina Instagram @archivio_come_eravamo. Mi racconta che sta anche iniziando stampare in camera oscura alcune delle immagini che più lo hanno colpito per poter lavorare ad una mostra e perché no? - mi dice - forse in futuro ad un libro.
La cura dell’archivio - mi spiega Gianfilippo - non ha un obiettivo preciso da portare al pubblico, ma è più la volontà di creare un linguaggio fotografico attraverso tutte le immagini di Gianfranco, selezionando e dividendo il materiale per creare una storia visiva, che non sia solo un lavoro personale, famigliare, ma che racconti come eravamo noi Italiani repubblicani del secondo novecento.
A questo punto, mi viene spontaneo domandargli come seleziona i numerosi negativi dello zio e cosa lo porta scegliere una foto piuttosto che un’altra. Gianfilippo mi spiega che esclude tutto ciò che possa essere troppo personale, compleanni, matrimoni… Cerca nelle immagini di ritrovare qualcosa di quell’Italia borghese di cui Gianfranco faceva parte e che scattava inconsapevolmente e che noi ora, a distanza di anni, riguardiamo con nostalgia per qualcosa che inevitabilmente è perso. Seguendo questa idea - continua Gianfilippo - sceglie magari una foto dei colleghi al lavoro, scene di vita quotidiana, di shopping o di persone alle fermate degli autobus; scene delle passeggiate domenicali per il centro di Roma o per i luoghi turistici della penisola, come una vacanza a Venezia o una settimana bianca in Trentino, o ancora le domeniche a Piazza San Pietro tra fedeli e cardinali e i mercatini dell’usato della domenica. Gianfilippo mi rivela che ha anche una selezione di fotografie di nudo ed erotiche che non ha ancora pubblicato e che raccontano il modo di vivere la sessualità e pudicizia. Noi le attendiamo.
Come eravamo ce lo raccontano chiaramente le immagini di Gianfranco Torossi e Gianfilippo lo sottolinea - qualcosa di diverso da ciò che siamo nella nostra contemporaneità. “I luoghi più familiari rimangono gli stessi da secoli, come i centri delle nostre città, ma è il popolo che vive in questi spazi che è cambiato e che mi interessa raccontare e spero che questo susciti riflessioni in chi guarda queste fotografie.” Cosa possiamo imparare dalle vite del passato che ci parlano ancora, incastrate dentro agli istanti che Gianfranco ha voluto catturare lo decidiamo noi, la fotografia è il mezzo, che ci riporta ad una storia, quasi cinematografica scandita dal ritmo e dallo sguardo di Gianfranco.
Chiedo a Gianfilippo di lasciarci con un’immagine alla quale è particolarmente affezionato, forse un’impresa ardua tra le tante di cui si è innamorato, alcune di queste sono errori fotografici, o fotografie che sono state scattate per caso. Tra tutte sceglie un ritratto degli anni ’30 venuto mosso. Un ritratto di una persona che appare sbiadita e di cui non percepiamo i tratti del viso. Mi dice che l’ha scelta perché non è un ritratto specifico, ma un ritratto che ci può far immaginare chi vogliamo, un ritratto che in qualche modo nasconde e rivela Come Eravamo.
Andrea Galli
Nel recente brusco mutamento del sistema internazionale, era chiaro che le elezioni presidenziali USA del 2024 avrebbero rappresentato l’ago della bilancia di tutte le maggiori questioni globali. In quei giorni in cui tutti erano in attesa di sapere chi avrebbe guidato gli Stati Uniti in questa nuova epoca segnata da nuove guerre, nuovi equilibri e nuove incertezze, sembrava quasi che anche il disordine internazionale si fosse acquietato per permettere a tutti di ricalibrare le prossime mosse. Da quello spartiacque ne uscì vincitore Donald Trump, che dal giorno della sua elezione non ha mai smesso di spararne una più grossa dell’altra: dalla promessa di risolvere in 24 ore una guerra esistenziale come quella tra Ucraina e Russia alla pretesa di annettere Canada e Groenlandia come se fossero piccole aziende da incorporare. Ma a 5 mesi di distanza dal suo insediamento, Trump è stato all’altezza delle sue promesse? È riuscito a realizzare il suo progetto? Si è effettivamente accorto di non essere onnipotente? Insomma, Trump ha fallito?
« Dazi pesantissimi contro i paesi che ci hanno sfruttato per anni. »
Al contrario di quanto Trump voglia far credere, la figura del Presidente degli Stati Uniti non ha pieni poteri e soprattutto non è un autocrate. Infatti, per poter imporre dei dazi contro altre nazioni Trump ha dovuto ripescare una legge del 1977 (International Emergency Economic Powers Act) con la quale il Congresso delega temporaneamente al Presidente la possibilità di applicare sanzioni o embarghi per questioni di sicurezza nazionale – quindi una concessione più che un potere effettivo – ma la legge non fa riferimento a dazi e per questo Trump è il primo Presidente nella storia ad usare questa legge per imporre tariffe doganali. Questo è solo uno dei tanti escamotage usati da Trump per aggirare i paletti democratici, un fatto che smonta la sua narrazione da “Putin della situazione”, rivelando come non abbia i poteri illimitati che vorrebbe. In più, i dazi sembrano essere sempre di più uno strumento per ottenere delle concessioni in modo facile, cioè Trump minaccia di imporre dazi per assumere una posizione di superiorità e costringere i paesi minacciati a stipulare un accordo, cosicché lui possa guadagnare qualcosa che prima non avrebbe potuto ottenere; un atteggiamento che rientra in quella mentalità di “attacca, attacca, attacca” insegnatagli dal suo mentore Roy Cohn. Ma il Tribunale Federale per il Commercio Internazionale USA ha emesso una sentenza che definisce “illegali” molti dei dazi imposti da Trump, mettendo in discussione l’uso improprio di quella legge del 1977 e definendo quest’azione un abuso di potere. Infatti, di norma, i dazi andrebbero approvati dal Congresso, ma Trump non l’ha ritenuto necessario in quanto ritiene che le tariffe siano una questione di sicurezza nazionale e che siano fondamentali per rimediare ad un’emergenza sul piano commerciale ed economico. Allo stesso tempo, la sentenza ha giudicato insufficiente questa motivazione, ribadendo come non ci sia una reale ed effettiva minaccia che giustifichi l’impiego di dazi, i quali sono stati per la maggior parte revocati tranne quelli contro l’Unione Europea, che restano ancora congelati fino al 9 luglio. Questo provvedimento segna la prima, anche se debole, vera e propria battuta d’arresto all’arroganza trumpiana, costringendo il nuovo presidente a fare effettivamente i conti con gli anticorpi della democrazia.
« Prima ancora di entrare alla Casa Bianca metterò fine alla terribile guerra tra Russia e Ucraina. » Quando all’ambasciatore russo presso le Nazioni Unite venne chiesto di rispondere alla presunzione del Presidente Trump di risolvere la guerra in Ucraina ancora prima di entrare nello studio ovale, egli disse che “la crisi ucraina non può essere risolta in un giorno”, e così è stato. A distanza di mesi dall’insediamento del tycoon repubblicano, il conflitto russo-ucraino più che arrestarsi si è aggravato: Putin ha intensificato le operazioni militari con attacchi ancora più sanguinari come la strage di Sumy e la tragedia di Kharkiv; i colloqui non vanno avanti; il cessate il fuoco si allontana sempre di più e la pace sembra ancora fuori discussione. Dopo la sua assurda promessa, Trump si è accorto che negoziare con un dittatore criminale è diverso dal trattare con un imprenditore che chiede percentuali e contratti, ed ora dichiara di non capire Putin e di “non essere felice di quello che sta facendo”, condannando di fatto le sue azioni. Inoltre, giorni dopo aver sostenuto che solo lui e Putin avrebbero potuto risolvere la questione, Trump si è esonerato dal suo incarico di “peace-maker” precisando che l’Ucraina e la Russia debbano sbrigarsela da sole. Dunque, Trump – probabilmente il fan numero uno di Putin in quanto vorrebbe essere come lui – è stato preso in
giro dal suo stesso idolo; credeva di sedersi al tavolo dei negoziati e porre fine alla guerra come si pone fine a un litigio tra amici e invece si è ritrovato a non capirci più niente, con appuntamenti ai tavoli di Istanbul disdetti all’ultimo minuto e dispetti sotto forma di bombe e proiettili che continuano a stroncare vite.
« Gli Stati Uniti si impadroniranno della Striscia di Gaza. »
Oltre ad essere stato sbeffeggiato dal suo beniamino Putin, Trump si fa mettere i piedi in testa anche dal suo cuginetto Netanyahu. Infatti, il premier israeliano, dopo aver accontentato Trump con una tregua di circa 2 mesi – tramite un accordo che in realtà risaliva all’era Biden ma che Trump ha sicuramente accelerato – ha ripreso a bombardare incessantemente e ancora più ferocemente i civili palestinesi, in quello che è ormai un innegabile genocidio. In quei 58 giorni il governo israeliano ha rilasciato più di 1.800 ostaggi palestinesi, cosicché possa bombardarli meglio, senza dover giustificare le loro morti nelle prigioni sul territorio israeliano ma lasciandoli al loro destino nelle prigioni a cielo aperto di Gaza e Cisgiordania. Come se non bastasse, in uno dei suoi ennesimi deliri, Trump ha dimostrato ancora una volta di essere il Presidente delle prime volte, annunciando con un video generato dall’IA il suo progetto inedito di voler porre sotto il controllo americano la Striscia di Gaza – una soluzione al conflitto israelo-palestinese che nessun Presidente americano aveva mai concepito prima – con l’obiettivo di trasformarla nella “Riviera del Medio Oriente”, sottolineando il suo enorme potenziale da resort turistico. Tutto ciò implica ovviamente un ennesimo esodo palestinese, deportando circa 2 milioni di palestinesi chissà dove.
« Elon è impazzito » « Il presidente è nei file di Epstein »
Pochi giorni dopo aver lasciato il suo incarico al DOGE, anche il fedelissimo Elon Musk sembra ormai aver mollato Trump. L’approvazione del “Big Beautiful Bill” in Senato è il motivo principale della rottura tra i due, una legge fiscale che prevede profondi tagli alla sanità, ai programmi climatici e all’istruzione, implementando allo stesso tempo un indebitamento pubblico da massimi storici per la difesa e la lotta all’immigrazione. Ma a far infuriare il CEO di Tesla e Space X è stato l’azzeramento degli incentivi per le auto elettriche previsto dalla nuova legge, un provvedimento che ha portato i due a un botta e risposta sui rispettivi social, Musk su X e Trump su Truth, come due bambini che litigano con in mano strumenti troppo potenti. Musk invoca l’impeachment per il Presidente e dichiara di star pensando di fondare un nuovo partito politico, sostenendo che senza i suoi finanziamenti Trump non avrebbe mai vinto le elezioni e rivelando che il nome del presidente sia nei file di Epstein, il celebre caso di traffico di minorenni che vedrebbe coinvolti centinaia di politici e celebrità. Dall’altro lato, Trump ammette che i due non avranno più “una grande relazione” e che “Elon ha dato di matto”. È divorzio tra i due, Musk si trasformerà in un oppositore?
« Non li vogliamo, tra di loro ci sono anche terroristi. »
Trump nel suo secondo mandato ha incrementato ulteriormente le strette sull’immigrazione e, attraverso espulsioni, incarcerazioni e confinamenti, la nuova amministrazione sta pianificando una deportazione di massa di tutti gli immigrati irregolari in carceri situate fuori i confini statunitensi, principalmente in Guatemala, Honduras e Messico, ma che assumono la loro forma più brutale nella mega-prigione di El Salvador, dove sono stati rinchiusi presunti membri di gang sudamericane che operano negli Stati Uniti. A questo proposito, nonostante la cacciata degli immigrati illegali non sia stata nemmeno presa in considerazione dal potere giudiziario in quanto ritenuta legittima, la questione di El Salvador ha suscitato numerose indignazioni riguardo le condizioni dei prigionieri e il rispetto dei diritti umani, soprattutto perché, come dichiarato dal giudice capo del Tribunale Distrettuale degli Stati Uniti, più di 100 persone recluse non hanno avuto la possibilità di contestare le loro deportazioni nonostante siano emerse prove significative riguardo la loro estraneità a qualunque gang. Per aggirare questi vincoli, Trump ha fatto nuovamente ricorso a una vecchia legge: The Alien Enemies Act del 1798, che permette al Presidente di arrestare, immobilizzare, mettere in sicurezza ed espellere qualsiasi soggetto ostile alla nazione, considerato un “alieno nemico”. Questo statuto fu istituito poco tempo dopo la Guerra d’Indipendenza americana e fu redatto in vista di un’eventuale guerra con altre nazioni, mentre oggi viene usata per deportare immigrati e
presunti membri di gang criminali. In più, il bisogno di dover ricorrere a leggi secolari sottolinea nuovamente come i poteri del Presidente americano siano fortemente limitati, e come Trump stia incontestabilmente forzando dei provvedimenti estremi.
La democrazia funziona ancora?
Quindi, mentre in politica estera tra i dazi e le guerre, tra Putin e Netanyahu, Trump non riesce ad agire come vorrebbe, in politica interna con vari trucchetti e riesumazioni di leggi è in grado effettivamente di imporsi. Infatti, con l’attacco alle università, l’utilizzo dello studio ovale come gogna pubblica per i vari leader mondiali, le epurazioni dei suoi oppositori da ruoli di rilievo e la reintroduzione della pena di morte, il nuovo Presidente inizia ad assomigliare sempre di più a un autocrate, ancora fortemente limitato ma che comunque intimorisce. Oltretutto, Trump è caratterizzato da un modo di agire in cui la verità non esiste, tutto può diventare il contrario di tutto e la sua opinione può cambiare dalla mattina alla sera, diventando imprevedibile, e ricorda spaventosamente il bipensiero di Orwell, cioè quel meccanismo attuato dalla dittatura del Grande Fratello per ritenere veri allo stesso tempo un qualsiasi concetto e il suo opposto a seconda della volontà del Partito, dimenticando all’istante il cambio di opinione. In più, Trump nega l’evidenza in continuazione, ritenendosi per esempio il “Presidente più ambientalista dai tempi di Roosevelt”, nonostante abbia abbandonato l’Accordo di Parigi sul clima e abbia stracciato qualsiasi tipo di contratto e legge che tutelasse l’ambiente, così come in 1984 il Ministero della Pace si occupa di guerra e il Ministero dell’Amore di tortura. Nonostante sia altamente improbabile l’instaurazione di una dittatura vera e propria negli Stati Uniti, c’è comunque da valutare con attenzione la vicenda, sperando nel corretto funzionamento e nella forza dei sistemi democratici americani.
Sebbene questi 5 mesi siano sembrati 5 anni, Trump ha davanti a sé ancora gran parte del suo mandato, dunque è difficile stabilire se abbia fallito o meno, soprattutto perché in questi restanti 3 anni e 7 mesi di presidenza può rimediare alle sconfitte ottenute fino ad ora ed attuare riforme interne ancora più drastiche nel corso della sua lotta allo “stato profondo”, magari permettendosi di concorrere per un terzo mandato, o di abolire completamenti i mandati.
Foppiani Riccardo
È il 1976 quando un giovane biologo evoluzionista di nome Richard Dawkins pubblica la sua opera prima: “Il gene egoista”.
Il saggio espone la teoria che la vera unità della selezione naturale non è né la specie né il gruppo e neppure l'individuo, ma il gene, l'unità dell’ereditarietà. Il gene egoista non è però il motore primo dell’individuo in senso stretto, che ci comanda come faceva Plankton con i robot giganti, ma con egoismo si intende l'effetto dei geni negli individui che li ospitano, volti ad aumentare la probabilità che il gene si replichi e che aumenti la sua frequenza nella popolazione.
Una volta che si arriva al capitolo 11, tuttavia, si rimane un po’ spiazzati quando si legge una parola anomala nel titolo, una parola che non ci si aspetta di trovare in un saggio scientifico di metà anni ’70: “Memes: The New Replicators”.
Il giovane Dawkins parla dei meme come replicatori dell’unica cosa che contraddistingue l’uomo dalle altre specie: la cultura, che nell’uomo esprime la sua massima potenzialità (ironico a dirsi).
«Ora dobbiamo dare un nome al nuovo replicatore […] Mimeme, deriva da una radice greca che sarebbe adatta, ma io preferirei un bisillabo dal suono simile a gene: spero perciò che i miei amici classicisti mi perdoneranno se lo abbrevio in meme.»
I meme che intende Dawkins sono melodie, idee, frasi, che si diffondono nel pool “memico” passando da un cervello all’altro, facendo man mano presa nella testa delle persone, proprio come un parassita culturale che usa la mente come un veicolo di propagazione.
Proprio come i geni, anche i meme competono per la sopravvivenza: solo i più “contagiosi” resistono e si replicano, influenzando le credenze delle persone dopo una spietata gara di viralità. I meme odierni, pur avendo una concezione più goliardica, rispettano a pieno questi “comportamenti” che Dawkins attribuiva ai replicatori culturali con un nome ante litteram, mostrando come l’evoluzione sia inevitabile anche dove non sono implicate combinazioni genetiche.
«Siamo stati costruiti come macchine di geni e coltivati come macchine dei memi» scrive Dawkins a fine capitolo, riferendosi all’indottrinamento e a quegli istinti volti alla sopravvivenza dei geni.
L’uomo, però, ha il potere di ribellarsi, di combattere e liberarsi dalla tirannia dei replicatori egoisti, mostrando un altruismo disinteressato e puro, dimostrando la sua unicità rispetto al mondo animale, che a volte, anche i tempi moderni, ci sembra sempre più simile al nostro.
Flavio Aquino
Sapete cosa accadeva il 22 novembre del 1990 a Londra? Margaret Tatcher, la Iron Lady, si dimetteva dalla carica di Primo Ministro Britannico; decretando la fine dell'era conservatrice e neoliberista che aveva segnato il Regno Unito negli anni 80. Al suo posto, si faceva spazio un desiderio di aria fresca, cambiamento e un po’ di ribellione: nasceva così la “Cool Britannia!” . Un movimento musicale e artistico nato negli anni ‘90 caratterizzato da un grande orgoglio nei confronti della cultura del Regno Unito. Il britpop dei fratelli Gallagher e dei Blur, le Spice Girls, la Britart di Tracey Emin e Daniel Hirst e Union Jack stampati su ogni cosa. Con la crescita economica, l’Inghilterra stava attraversando un vero e proprio periodo di trasformazione della cultura e dell’identità nazionale; passando da austerità e conservatorismo ad euforia e ottimismo collettivi.
A intaccare l’immagine patinata della Londra dei primi anni ‘90 arriva Danny Boyle, l’esponente anarchico più rilevante del cinema indipendente britannico, con la sua pellicola omonima al romanzo di Irvine Welsh -già cult generazionale- “Trainspotting”. Sia Boyle che Welsh mostrano il lato oscuro, o meglio ignorato, della cultura giovanile degli anni ‘90: la generazione di Renton non ha nulla a che vedere con l’ottimismo delle Spice Girls, anzi, è una generazione disillusa e disperata.
"Scegliete la vita, scegliete un lavoro, scegliete una carriera, scegliete la famiglia, scegliete un maxitelevisore del cazzo, scegliete lavatrice, macchina, lettore cd e apriscatole elettrici. Scegliete la buona salute, il colesterolo basso e la polizza vita; scegliete mutuo a interessi fissi, scegliete una prima casa, scegliete gli amici. Scegliete una moda casual e le valigie in tinta, scegliete un salotto di tre pezzi a rate e ricopritelo con una stoffa del cazzo, scegliete il fai-da-te e il chiedetevi chi siete la domenica mattina. Scegliete di sedervi sul divano a spappolarvi il cervello e lo spirito con i quiz, mentre vi ingozzate di schifezze da mangiare. Alla fine scegliete di marcire, di tirare le cuoia in uno squallido ospizio, ridotti a motivo di imbarazzo di stronzetti viziati ed egoisti che avete figliato per rimpiazzarvi. Scegliete il futuro, scegliete la vita. Ma perché dovrei fare una cosa cosí? Io ho scelto di non scegliere la vita. Ho scelto qualcos'altro. Le ragioni? Non ci sono ragioni. Chi ha bisogno di ragioni quando ha l'eroina?"
È con questo iconico monologo che l’eroinomane Mark Renton (Ewan McGregor) ci dà il benvenuto nella sua stravagante vita fatta di bevute al pub e piccoli furti commessi insieme ai suoi amici per finanziare la loro “sana e onesta tossicodipendenza”. Siamo nella grigia e malinconica Edimburgo di fine anni ‘80, ma i ritmi della pellicola sono tutt’altro che noiosi: non ci sono scene morte o dialoghi inutili, i personaggi si muovono sullo schermo in modo dinamico -con influenze tarantiniane- e molto spesso correndo (la corsa è un’azione centrale ed emblematica nei film di Boyle), proprio come nei primi minuti del film. Renton e il maldestro Spud scappano dalla polizia con le tasche piene di refurtiva sulle note di Lust for Life di Iggy Pop; questa scena, oltre ad essere diventata un cult per via del monologo, si avvale anche di una perfetta coordinazione tra movimento e suono: ogni passo di Renton corrisponde ad un battito ritmico; in quel momento Mark è più vivo che mai, perchè è meglio non scegliere la vita che viverne una fatta di dogmi e costrutti sociali borghesi.
La compagnia di eccentrici tossicomani è presentata quasi come un gruppo rock, con Renton nel ruolo di frontman; alla chitarra c’è Sick Boy, donnaiolo ossessionato da Sean Connery e da 007; al basso c’è Spud, goffo e imbranato ma dal cuore gentile; infine, alla batteria c’è un violentissimo ed esaltato Begbie, che al posto dell’eroina usa le risse e il maschilismo tossico per tirare avanti e critica chiunque si rivolga alla Madre Superiora, il fornitore del gruppo, per fuggire da una società che li categorizza già come reietti. Per evadere, si ricorre alla più consumante ma ammaliante delle vie di fuga: l’eroina.
Durante gli anni ‘70 l’epidemia di eroina si stava diffondendo in tutta Europa e di conseguenza, dopo i primi casi di overdose, storie come quella di Christiane F. ne “Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino” sconvolsero il grande pubblico con una rappresentazione cruda e angosciante della vita da junkie; anche Irvine Welsh era scettico all’idea di concedere i diritti cinematografici, proprio perché temeva che l’umorismo e l’eccentricità dello storytelling andassero persi. Boyle però non delude le aspettative, realizzando un film che paradossalmente ci mostra il lato divertente e inebriante della droga, proprio come Welsh la definisce nel libro: “The life-giving and life-taking elixir”.
Come conferma del suo successo come film generazionale, Trainspotting nel 2004 viene eletto miglior film Scozzese di sempre da un sondaggio pubblico condotto dal “The List”. Ma perchè la Scozia ne è così tanto orgogliosa? Fino ad allora, il pubblico di destinazione dei film ambientati in Scozia era quello Americano, ovviamente per mirare al successo internazionale. Con Trainspotting invece, è tutto diverso, perché rappresenta un ritratto culturale autentico degli Scozzesi: divisi tra una cultura proletaria in declino e il sogno borghese di una vita “normale”. E sì, anche se con questo si intende:
“È una merda essere scozzesi! Siamo il peggio del peggio, la feccia di questa cazzo di terra, i più disgraziati, miserabili, servili, patetici avanzi che siano mai stati cagati nella civiltà. Ci sono quelli che odiano gli inglesi, io no! Sono solo delle mezze seghe! D'altra parte noi siamo stati colonizzati da mezze seghe, non troviamo neanche una cultura decente da cui farci colonizzare.” .
Mark Renton in Trainspotting
Lo slang, il dialetto e i riferimenti al mondo del calcio sono ciò che lo rende verosimile per gli Scozzesi.
L’oscillazione costante tra iper-realismo e sequenze oniriche e psichedeliche (come le crisi di astinenza) lo rende unico nel suo genere, il tutto accompagnato da una colonna sonora che completa al meglio l’estetica del film collocandolo perfettamente nella sua epoca. Le inquadrature dinamiche, i montaggi rapidi e la colonna sonora pulsante contribuiscono a creare un ritmo incalzante che riflette lo stato mentale dei personaggi, mostrando anche la natura imprevedibile e talvolta assurda dei tossicodipendenti. Gli effetti speciali danno allo spettatore l’accesso alla mente e ai pensieri di Renton, mostrandolo anche in tutta la sua vulnerabilità nei momenti di astinenza come la disintossicazione nella sua cameretta d’infanzia, con visioni spaventose e angoscianti. Anche la cromologia ha un ruolo importante nel completare e arricchire la narrazione; due colori in particolare caratterizzano le scene emblematiche del film: il rosso e il verde. Il rosso rappresenta generalmente il pericolo o una situazione che ha il potenziale per diventarlo. Ne sono un esempio la scena in cui Mark conosce Diane, quando visita la Madre Superiora per comprare la roba, o quando sfiora la morte con un’overdose proprio su un tappeto rosso.
Mark e Diane
Mark e la Madre Superiora
Il verde d’altra parte, rappresenta la sobrietà e, di conseguenza, la salute e la stabilità. Quando Mark soffre per la disintossicazione in cameretta, la madre entra da una porta verde, con addosso una camicetta dello stesso colore, portandogli il pranzo: zuppa di piselli.
La madre di Mark che indossa il verde
Mark, nonostante la sua scarsa presenza nella vita familiare, riconosce di essere molto legato alla madre; però, al tempo stesso, vorrebbe non essere lui suo figlio, ma che al suo posto ci fosse qualcun altro capace di renderla fiera.
Renton alla fine sceglie la vita. O almeno così dice. Ma cosa significa davvero “scegliere la vita”? È un atto di redenzione o solo un’altra illusione, un altro compromesso? Dopo lo vediamo camminare verso una nuova esistenza, con la promessa di una normalità che fino a poco prima disprezzava. Eppure, dietro il suo sorriso forzato e il battito martellante di “Born Slippy”, c’è qualcosa che stona. Forse perché sappiamo che Renton non sta realmente scegliendo la vita, ma sta solo scegliendo una nuova dipendenza: il denaro e l’individualismo. Trainspotting non ci offre risposte, non ci dice cosa sia giusto o sbagliato, non punta il dito e non redime nessuno; mostra solo la realtà sporca e contraddittoria della tossicodipendenza, lasciando lo spettatore a trarre le proprie conclusioni. Forse è proprio questo il motivo per cui, a quasi trent’anni dalla sua uscita, il film continua a parlarci con la stessa forza: perché, in un modo o nell’altro, ci costringe a confrontarci con le scelte che facciamo e con le bugie che raccontiamo a noi stessi.
Francesca Scalfaro
Immagina di giocare a God of War III, ma al posto di Ermes, Poseidone e Ade ti ritrovi a dover predisporre le difese dei dodici apostoli. Non ti sembrerebbe insolito? Un tempo, a quegli stessi dèi venivano offerti in sacrificio preziosi doni, nei templi dell’antica Grecia brulicanti di fedeli; oggi, invece, essi sopravvivono in particolar modo nell’arte, nei racconti mitologici e nei media interattivi più diffusi, dove vengono reinventati come nemici da sconfiggere o guide spirituali di universi paralleli. Perché questa affascinante religione politeista è passata da essere fede vissuta a “illusione primitiva”? Alla luce della cultura in cui viviamo, plasmata in gran parte dalle religioni monoteiste, ci ritroviamo ad affermare con sufficiente convinzione il legame tra dogma/testo sacro e religione. Si ha fede in qualcosa nonostante questa non si veda. Per questo motivo, ci risulta più facile pensare che un fulmine associato alla rivelazione di Zeus sia, semplicemente, una falsità. Nel suo libro Teofania, Walter F. Otto spiega invece con estrema forza poetica cosa volesse dire, per i greci, vivere in un mondo in cui gli dèi si manifestavano nel reale. Il mito non è una finzione – quest’equivalenza è un’idea del tutto moderna –, ma una verità sacra con cui il fedele è in grado di entrare quotidianamente in contatto. Poeti come Omero ed Esiodo, e tragediografi come Eschilo e Sofocle, codificarono in versi le storie degli dèi, costruendo narrazioni mitiche che non erano fiabe per bambini, ma spiegavano i valori di una comunità e le esperienze umane interiori. Insomma, un linguaggio condiviso per parlare dell’anima così come dell’ordine del cosmo.
Quando nel 391 d.C. l’imperatore Teodosio proibì i culti pagani tradizionali, chiudendo templi e santuari, l’antica religione di lì a poco si estinse. Gli dèi olimpici vennero universalmente screditati, al punto che i poeti cristiani potevano ormai citarli senza timore, sapendo che nessuno li prendeva più sul serio. Eppure non scomparvero: nel Rinascimento ci fu una grande riscoperta dell’antichità classica, che gli umanisti vedevano come simbolo di splendore culturale. Ma proprio come si domanda Otto nel suo libro, “non dobbiamo piuttosto ammettere a noi stessi che quelle opere immortali non sarebbero mai divenute ciò che sono senza gli dèi, e più precisamente senza quegli dèi greci che sembrano non aver più nulla da dirci? Non fu proprio il loro spirito, e nessun altro, ad aver destato le forze creative i cui frutti, ancora dopo millenni, elevano il cuore e sono in grado di produrre devozione?”
Declassare a “semplice mito” (nell’accezione di “falsità”) ciò che prima era fede comporta il non prendere più sul serio quei racconti, considerandoli intrattenimento, e non vedere più in loro quei profondi significati spirituali di cui si facevano portatori. Se non interpretiamo quei miti come strumenti di comprensione di noi stessi e del mondo, perdiamo l’opportunità di imparare da essi. Questi insegnamenti non sono presenti solo nell’arte e nella natura, ma nelle stesse gesta umane; un atto di giustizia autentica, un’accoglienza generosa dello straniero, un consiglio sapiente: per i greci, tutto questo era teofania, ossia manifestazione del dio. Quella degli dèi greci è una realtà in atto, non una realtà rivelata e mai più ripetuta.
Quando oggi parliamo di quei miti come “finzioni”, dimentichiamo che per secoli sono stati rivelazioni dell’equilibrio tra umano e divino. E nel momento in cui abbiamo trasformato quella teofania in “mitologia”, abbiamo anche cambiato il nostro modo di stare al mondo. Recuperare quel tipo di spiritualità – che pur sempre continua ad esercitare su di noi un certo fascino – può essere utile a ricordarci che un altro modo di esperire il mondo è possibile. Quando una melodia ci commuove profondamente, è come se una Musa ci stesse sussurrando che c’è qualcosa di più alto dell’utile immediato. È in questo senso che l’antica religione classica continua a parlarci, perché i valori di cui si faceva portatrice non sono affatto svaniti nel mondo. Le divinità permangono come archetipi vivi nella nostra psiche, anche se ci dimentichiamo di chiamarli con i loro veri nomi e possono, ieri come oggi, dare un senso più alto alle nostre vite.
Paolo Perty
Più un individuo è cosciente della sua natura più questa consapevolezza lo addolora. E’ questo il fine dello yoga: condurre l’individuo ad uno stato di veglia, di attivazione, in cui prendere coscienza di sé e delle proprie validità.
Ma cos’è in effetti lo yoga? Non si parla di una disciplina al pari delle altre forme di attività fisica, ma di una scienza antica, di un vero e proprio metodo per indagare la propria identità, un processo che costringe a prendere contezza di quel che si è, di quel che si deve in definitiva diventare. Per ora diremo che il significato del termine yoga è upaya, il cammino da seguire per raggiungere qualcosa, e quel qualcosa è l’Atman, il Sè Universale, inteso come la volontà che anima ogni essere vivente, e a cui si può arrivare non con la sola conoscenza razionale, ma mediante un perfetto equilibrio tra mente e organi di senso: lo yoga è allora il mezzo per comprendere la nostra vera natura, il nostro dharma, guardando dall’esterno la nostra vita ed elevandoci a giudici di essa.
Alla base della pratica è il tristasana ( tri ‘tre’ e stasana ‘risiedere’) che porta l'individuo a confrontarsi con sé stesso, ad entrare in contatto con l’io, la vera identità che resta nascosta dietro la veste del corpo. Il tristasana si compone di respiro (pranayama), sguardo (drishti) e chiusure energetiche (bandha).
Il pranayama è un respiro profondo e sonoro, che evita la dispersione di calore e in questo modo riscalda il sangue e lo rende più fluido, liberando le articolazioni e aumentando dunque la portata di ossigeno. Il respiro sonoro ha effetti positivi sul sistema nervoso ed endocrino: stimola l'attivazione del sistema parasimpatico, calmante, che bilanciato all'azione del sistema simpatico, il quale risponde invece alle situazioni di emergenza, porta ad uno stato di accoglienza, di attivazione di fronte ai fattori che provengono dal mondo esterno. Il nostro sistema nervoso impara allora a mantenere la calma anche in condizioni di iperattivazione fisica. Lo yoga attiva anche il metabolismo ghiandolare e concorre al bilanciamento della produzione di ormoni, come il cortisolo. Il respiro consente infine di portare l'udito dentro, di assumere il pieno controllo della propria mente, annullando ogni altra percezione al fine di concentrarsi sulla sola indagine interiore.
Il drishti fissa lo sguardo non su un punto preciso nello spazio, ma sul momento presente, evita che i sensi si attacchino alle cose contingenti e si perdano nelle vane spiegazioni del divenire.
I bandha sono infine le chiusure energetiche, che consentono di bloccare il prana e rendere stabile il corpo durante l’intero corso della pratica. Servono a risvegliare l’energia cosmica, che si pensa risieda come un serpente attorcigliata in fondo alla nostra spina dorsale.
Il vinyasa, che è alla base della pratica, nasce dunque dalla coordinazione tra respiro e singolo movimento. Compete sulla parte limbica del cervello deputata alla produzione di ormoni (ossitocina, dopamina, serotonina), ed aiuta ad elaborare un modo diverso di rapportarsi emotivamente con l'esterno.
Il tristasana ha come fine il pratyahara, il ‘ritiro della mente dagli oggetti dei sensi’: insegna come controllare la respirazione e quindi la mente per liberarla dalla schiavitù del desiderio. esso non va inteso come un completo annullamento del mondo fuori, ma come un modo nuovo di rapportarsi ad esso: vivere le stesse cose ma in maniera diversa. Anche Seneca reputava del saggio - il quale viveva un’esistenza piena e inattaccabile quasi pari ad un dio - la capacità di relativizzare cose e persone, dando il giusto peso ad ogni accadimento e non lasciandosi abbattere da vizi e timori inutili. “Colui che ritira i suoi sensi dagli oggetti della percezione, proprio come una tartaruga ritira le sue membra nel suo guscio, è stabile nella saggezza costante.” si legge nella Bhagavad Gita.
Yoga è definita dal maestro Pattabhi Jois come Nishkarma Karma (nish- ‘senza’, -karma ‘desiderio’ e karma ‘azione’) ad indicare come l’agire di ognuno sia motivato dal desiderio che è però, in un primo momento, causa di malessere. Il fine ultimo dello yoga è l’azione compiuta senza che se ne desiderino i frutti, è non attaccamento al risultato, adempiere ai propri compiti senza desiderare una ricompensa personale ma offrendo i propri frutti all’altro: compiere le azioni con la mente rivolta al risultato infatti espande l’ego e lo incatena alle idee di ‘io’ e ‘mio’. “Hai il controllo sull'attività che svolgi, mai sul frutto delle tue azioni. Non considerarti il creatore dei frutti delle tue attività, né attaccarti all'inazione.” Lo yoga ci insegna quanto valore abbia allentare la presa e abbandonarsi al fluire del mondo che cambia. Viviamo in una società del risparmio in cui ci è richiesto di correre alla ricerca di un’occupazione perché neanche un momento del nostro tempo scivoli via inutilizzato. Dovremmo imparare a respirare, prendere la vita a pieni polmoni. Oggi invece ci viene insegnato a boccheggiare per sopravvivere, immersi fino al collo nel fiume frenetico delle nostre esistenze, a bere a piccoli sorsi dalle sue acque: siamo tutti vicini nella disperata ricerca di aria, agitando le braccia per arrivare in fretta all’altra riva prima che l’onda ci allontani sempre di più da essa. Siamo in lotta costante con un tempo che cerchiamo di aggiogare come una bestia, per timore che possa liberarsi e sfuriare contro i suoi padroni mortali la sua forza incessante. Andiamo sempre di corsa, mossi da una fretta che ci morde le caviglie, e così non viviamo mai nel presente ma speriamo di vivere. Riempiamo le nostre esistenze fino all’orlo pensando che solo così potremo dirci soddisfatti di aver vissuto: quando, guardando indietro, vedremo che nessun momento è stato sprecato. Questo è il fine dello yoga: concedersi la possibilità di sbagliare, ravvedersi e ricominciare. E’ una disciplina che impone il mettersi a confronto con sé stessi e individuare quel che è opportuno cambiare. Lo yoga a lungo termine insegna a lasciarsi accadere la vita, piuttosto che annaspare dietro di essa pensando di non averne abbastanza: rallentare fin quasi a fermarsi per considerare tutto quel con cui il mondo può ancora meravigliarci. Dovremmo allora smetterla di boccheggiare e imparare invece a respirare.
Nicole Bruder
Nel 1927, Fritz Lang concepì un futuro in cui il progresso industriale aveva generato una città verticale: in alto si trovava l'élite, mentre in basso gli operai venivano ridotti a ingranaggi viventi di una gigantesca macchina. Questa città si chiamava Metropolis e, a quasi un secolo di distanza, continua a riflettere la nostra realtà attuale. L'intelligenza artificiale ha sostituito il vapore e l'acciaio, ma la logica che la guida rimane invariata: pochi in cima esercitano il controllo, mentre la massa, spesso ignara, lavora e produce dati per alimentare sistemi di cui ignora il funzionamento. I nuovi padroni di Metropolis sono le grandi aziende tecnologiche, invisibili ma onnipotenti, in grado di mappare i nostri desideri, prevedere le nostre azioni e automatizzare ogni aspetto della vita quotidiana. L’AI rappresenta il motore della società contemporanea. È invisibile e silenziosa, ma pervade ogni aspetto della nostra esistenza. Determina chi ottiene un mutuo, chi viene assunto, chi è sotto sorveglianza e chi diventa un obiettivo pubblicitario. In cambio offre efficienza, comodità e progresso. Ma a quale costo? Come nel mondo di Lang, il funzionamento di questa macchina richiede un sacrificio. Oggi il concetto di sacrificio non è più necessariamente fisico, almeno non in ogni circostanza. Si manifesta attraverso la sorveglianza, l'alienazione e la perdita di controllo sulle proprie scelte. Esiste un proletariato digitale composto da lavoratori della gig economy, moderatori di contenuti che si confrontano quotidianamente con immagini traumatiche, e click worker che addestrano algoritmi guadagnando pochi centesimi. Inoltre, emergono nuove forme di lavoro invisibile: ogni nostro clic, ogni preferenza e ogni movimento nel mondo fisico e digitale alimentano l'ossessione per i dati delle macchine. Siamo diventati sensori involontari di un sistema che trae profitto dalla nostra esistenza. L'intelligenza artificiale viene presentata come uno strumento neutrale, ma in realtà non lo è. È progettata, addestrata e utilizzata per servire gli interessi economici del capitalismo tecnologico. Come il robot di Metropolis, che assume l'aspetto della donna amata da Freder per ingannare le masse, anche l'AI indossa una maschera rassicurante. Promette obiettività, ma in effetti riflette le disuguaglianze di coloro che l'hanno creata. Chi gestisce questi sistemi non è vincolato a un potere democratico, ma risponde unicamente alle richieste del mercato. In "Metropolis", Freder, il figlio del padrone, scende tra i lavoratori e scopre la verità. Diventa il cuore, fungendo da mediatore tra la testa (i padroni) e le mani (i lavoratori), cercando una terza via. Oggi ci si può chiedere: chi è Freder nel nostro tempo? Esiste qualcuno nell'élite tecnologica disposto a modificare il corso delle cose? Alcuni ci provano: ricercatori espulsi dalle aziende per aver sollevato interrogativi etici, attivisti che denunciano l'abuso dei dati e movimenti che chiedono un uso equo e trasparente della tecnologia. Tuttavia, queste sono voci isolate, spesso ignorate o derise da un sistema che corre troppo veloce per fermarsi a riflettere. Il capitalismo tecnologico ha abbracciato la religione dell'intelligenza artificiale. Le macchine pensanti sono diventate nuove divinità. Si crede che possano risolvere qualsiasi problema: dalla malattia al cambiamento climatico, dalla giustizia alla povertà. Ma dietro questo culto si cela una resa della politica. Se la macchina è neutra, non c'è motivo di discuterne. Se l'intelligenza artificiale è inevitabile, non c'è necessità di governarla. Tuttavia, la tecnologia non è mai neutra. È sempre intrisa di politica. È sempre progettata in un certo modo, da determinate persone, con specifici obiettivi. La Metropolis del film era un luogo progredito, tecnologico e moderno, ma costruito sulla sofferenza. Oggi rischiamo di ripetere lo stesso errore. Siamo immersi in innovazioni che promettono un avvenire migliore ma che, nel frattempo, aggravano la situazione presente per molte persone. I lavoratori sono ridotti a semplici numeri, le comunità sono vigilate, e le disuguaglianze aumentano. L'automazione è presentata come un'opportunità di liberazione, ma spesso si traduce in controllo.
L'ottimizzazione viene erroneamente interpretata come giustizia, e l'efficienza come bene comune. Tuttavia, il valore di una società giusta non si misura in termini di rapidità. Il pericolo che affrontiamo non è solo tecnico, ma anche culturale. Se ci affidiamo all'Intelligenza Artificiale per giudicare, valutare e decidere, rischiamo di perdere noi stessi, la nostra capacità di scegliere, di commettere errori e di cambiare idea. L'umanità non può essere ridotta a un semplice modello predittivo, eppure, giorno dopo giorno, questo accade in silenzio. Alla fine di Metropolis, Freder riesce a far stringere la mano tra suo padre e il rappresentante dei lavoratori, un gesto simbolico e quasi ingenuo nella sua speranza. Oggi, più che mai, abbiamo bisogno di quel gesto. Necessitiamo di un cuore: non di un algoritmo, non di profitto, ma di una coscienza collettiva in grado di bilanciare efficienza e giustizia, potere e dignità.È necessaria una nuova forma di contratto sociale per la tecnologia, un’alleanza tra cittadini, ricercatori, governi e comunità. È fondamentale sviluppare una maggiore consapevolezza. Stiamo infatti costruendo una nuova Metropoli, composta da codice, reti neurali e sensori. Tuttavia, abbiamo ancora la possibilità di decidere se sarà una città meccanica o una città vivente. Il futuro non è già stabilito nei circuiti dell'intelligenza artificiale, ma dipende dalle scelte di coloro che oggi hanno il coraggio di guardare oltre le luci della città e scoprire ciò che si cela nelle sue fondamenta.
Leonardo Chiaretti
Ci troviamo nel pleistocene inferiore, quando i primi Homo habilis, nostri lontani antenati, creano i primi strumenti in pietra: chopper, punte, raschiatoi, martelli. Per la prima volta nella storia dell’uomo, e forse della natura stessa, un animale demanda volontariamente e specificatamente a un ente esterno a lui un compito, che giova esclusivamente a lui stesso e per il quale egli riduce sensibilmente la sua responsabilità attiva, e si colloca al ruolo di supervisionatore.
E così abbiamo smesso di trasportare carichi pesanti grazie alla ruota, che agevola il movimento, abbiamo smesso di incidere a fatica su pietre e argilla, perché abbiamo inventato prima il papiro e poi la carta, abbiamo smesso di nuotare per i brevi tratti che ci sono concessi dalla nostra naturale conformazione fisica perché abbiamo creato delle rudimentali zattere, ed infine abbiamo smesso di usare il nostro corpo per produrre energia quando siamo riusciti ad imbrigliare quella presente nella natura, attraverso meraviglie ingegneristiche come il mulino ad acqua e il motore a vapore.
Ciò che accumuna tutte queste invenzioni, è il cedere il nostro compito ad un altro soggetto, che coscientemente, come un mulo da soma, o incoscientemente, lo compie per noi, e ci permette di astrarci dall’incarico diretto e di posizionarci come regolatori, amministratori, organizzatori, ma mai esecutori diretti.
Fino a quando però, questo spostamento di fatica è stato limitato, dalla tecnologia, al mero campo fisico, ci siamo illusi di essere padroni della tecnologia stessa e di esserne coscienti e conoscenti, di poterla arrestare a nostro piacimento ed esserne comunque autosufficienti senza essa. Potremmo comunque, o almeno crediamo, sussistere raccogliendo a mano i frutti dagli alberi o mungendo a mano le mucche. La guida ci è però sfuggita, quando abbiamo demandato ad un oggetto di "pensare" per noi.
Il computer infatti, noto più specificatamente come calcolatore negli ambienti accademici, è il primo oggetto a cui noi abbiamo scaricato il compito di pensare, perché, come tutti gli oggetti, migliore di noi nella sopportazione della fatica. Un computer non si annoia, non pensa ad altro mentre in passato eseguiva qualche migliaio, oggi qualche miliardo, domani non sappiamo nemmeno quale ordine di grandezza, di calcoli. Ma possiamo seriamente credere che la matematica, il nostro linguaggio universale più completo e con il quale oggi descriviamo la maggioranza delle cose che ci circondando e dei nostri pensieri più complessi, possa sostituire il nostro di pensiero, nelle modalità, approcci e risultati?
Ci troviamo circa 2.6 milioni di anni dopo l’invenzione dei primi strumenti in pietra, nel 1852, quando uno studente di matematica, Francis Guthrie, elabora una congettura: "Bastano quattro colori per colorare una cartina geografica in modo tale che nessuna regione abbia lo stesso colore di una regione adiacente". Affinché una congettura, che potremmo descrivere in termini non scientifici come un’idea di cui abbiamo una intuizione, diventi un teorema, ha bisogno di una rigorosa dimostrazione matematica. È molto semplice dimostrare, per confutazione, che questo teorema risulta falso per tre colori, e che quindi non siamo in grado di produrre una cartina in cui le regioni confinanti abbiano tutti colori diversi con solo tre a disposizione, ed è, seppur più arduo, comunque umanamente fattibile, dimostrare che cinque colori sono sovrabbondanti, ovvero riusciamo a produrre la cartina desiderata, ma non siamo soddisfatti del risultato, come spesso accade nella scienza , e vogliamo capire se quattro sono sufficienti. Ebbene, questo è il primo teorema della storia in cui, sebbene l’idea sia umana, la dimostrazione è a livello pratico del Computer, che nel 1977 ci restituisce una risposta affermativa alla nostra domanda. E così, per la prima volta, abbiamo delegato ad un oggetto il compito di pensare per noi, di provare a velocità che per noi sono inimmaginabili a calcolare, iterare e colorare per noi le mappe. Da qui, la strada per i computer sarà tutta in discesa, sebbene ancora non abbiamo riscontrato una vera ideazione, bensì solo una imitazione del nostro approccio alla matematica, ma per noi?
Nonostante il livello tecnologico sia esploso nel corso del ’900, portandoci a livelli di ricerca che ci fanno sognare sempre più lucidamente di potere agguantare e fare nostro lo spazio che ci circonda, ossessione che abbiamo sempre avuto, questo è il primo caso in cui l’uomo, essere a cui la natura ha pratica concesso solo la facoltà di pensare, ha creato un oggetto che non comprende.
Sebbene infatti, non ci sia totalmente chiara, se non addirittura contraddittoria per la nostra natura apparentemente basata sul principio totalmente deterministico causa-effetto, la meccanica quantistica, di cui Einstein rifiutava il carattere probabilistico e non deterministico, e di cui Feyman affermava che nessuno aveva reale comprensione, essa rimane una nostra approssimazione della realtà, una storia di cui cerchiamo di scoprire sempre di più ma di cui non siamo chiaramente gli scrittori.
L’intelligenza artificiale invece, è una nostra creazione, che affonda le sue radici nella conferenza di Dartmouth del 1956, la quale afferma, proprio in prima pagina, che "Lo studio procederà sulla base della congettura per cui, in linea di principio, ogni aspetto dell’apprendimento o una qualsiasi altra caratteristica dell’intelligenza possano essere descritte così precisamente da poter costruire una macchina che le simuli". Da questo intento, si evince chiaramente la volontà di scaricare alla macchina la responsabilità e soprattutto la fatica legata al pensiero, ma nel processo per raggiungere questo obiettivo, ci è sfuggito il controllo, la padronanza della macchina.
È infatti ormai noto, come nel Deep Learning, tecnica che simula sostanzialmente il funzionamento del nostro cervello, a causa dell’altro numero di parametri, che simulano i nostri neuroni, il ragionamento sia inscatolato in complessi calcoli e regole di inferenza a noi nascoste da diversi livelli, e che restituiscono un risultato, di cui noi non abbiamo contezza del ragionamento che vi si nasconde dietro. Questo ci terrorizza, e ci rende sostanzialmente futili, privati dell’unica capacità che ci differenziava e collocava in una posizione di dominanza rispetto all’oggetto, che non aveva contezza del proprio compito: un martello non sa perché schiaccia i chiodi; una rete di Deep Learning, per quanto ne comprendiamo, ci sembra che sappia perché svolge quei calcoli. E questo ci pone genuinamente in una condizione di pericolosa e spaventosa sostituibilità.
Come diceva Heidegger nel suo saggio ’La questione della tecnica", la tecnica stessa è cieca, non si interroga sul fine, occulta il pensiero sull’essere e si impone come unica forma di verità, pertanto è cieca perché ci accieca, ci impedisce di interrogarci su altri modi di essere.
Questo non è ovviamente un manifesto luddista, ma una riflessione sulla nostra tendenza al relegare la fatica ad altri enti, e soprattutto un invito al pensiero sul nostro rapporto con gli oggetti a cui abbiamo demandato il nostro vivere. Come probabilmente è sempre stato, la paura dell’incompreso è una nostra caratteristica atavica, che affonda le sue radici in tecniche evolutive che ci hanno permesso di arrivare sin qui, ed è giusto che ci accenda una spia riguardo questa potente tecnologia che si sta insinuando a velocità sempre più esponenziale nelle nostre vite; l’importante però, è che questa spia ci accompagni ad una riflessione critica riguardo gli strumenti che decidiamo di operare ed a cui decidiamo di affidarci, senza chiuderci a riccio al progresso, ma neanche abbracciandolo ad occhi chiusi solo perché ci semplifica la vita.
L’intelligenza artificiale deve quindi, farci paura, come ci faceva paura il fuoco e come tutte le cose a noi ignote, fino a quando non ne saremo padroni, o almeno fino a quando non avremo deciso se vogliamo realmente governare tutti i processi che si svolgono intorno e per i nostri scopi, se la nostra ambizione alla comprensione del tutto voglia essere attiva, o vogliamo semplicemente leggere una storia che qualcos’altro potrebbe scrivere per noi.
Federica Salimena
In Afghanistan le donne sono private di ogni diritto. Milioni di attiviste in tutto il mondo lo definiscono apartheid di genere.
“Apartheid” è una parola in lingua afrikaans che significa “partizione”, “separazione”, ci si separa dagli affetti, da ciò che fa stare bene e ciò che fa stare male, e si va incontro a un cambiamento. Si tratta di dividere qualcosa che è unito, significa ammettere che ciò che hai diviso consiste in due parti in cui una vince sull’altra, in cui una è migliore e l’altra vale meno. Separarsi contro il proprio volere. Quando sentiamo questa parola, pensiamo al sistema di segregazione razziale perpetuato fino all’inizio degli anni Novanta in Sudafrica: una minoranza bianca si è autodefinita superiore su una maggioranza nera, e l’ha dominata. Oggi milioni di attiviste donne in tutto il mondo, come Narges Mohammadi (premio Nobel per la pace e attualmente nel carcere di Evin per “opposizione al governo”) sostengono che quello che sta avvenendo in Afghanistan e in Iran sia una vera e propria apartheid di genere. Metra Meran, attivista in esilio negli Stati Uniti dal 2021, afferma che il reato di apartheid di genere sarebbe l’unico reato capace di riconoscere la natura istituzionale degli abusi dei talebani. A questo proposito diverse associazioni umanitarie, come Amnesty International, si stanno impegnando per far sì che la violenza strutturale organizzata dai governi finisca e che l’apartheid di genere venga considerato un crimine internazionale. Il governo dei talebani non è riconosciuto a livello internazionale, ma molti altri Stati intrattengono rapporti con esso. Una parte della diplomazia sta provando a portare il caso afghano davanti la Corte penale internazionale per dimostrare come le leggi varate violino tutti e trenta gli articoli della Dichiarazione universale dei diritti umani; al contempo, altre milioni di attiviste provano a istituire il reato di apartheid di genere, perché ad oggi quello che sta succedendo in Afghanistan, così come in Iran, non è legalmente punibile.
A sostegno di questa causa è fondamentale il ricorso costante ad un dialogo interculturale. Combattere l'islamofobia, gli stereotipi e ogni forma di discriminazione e pregiudizio legata ad essa. La violenza di genere e la discriminazione non sono intrinseche a nessuna religione o cultura, ma sono il risultato di strutture di poteri patriarcali che si manifestano in contesti diversi e che devono essere smantellati attraverso un'azione collettiva e globale, tramite la promozione del confronto tra etnie, religioni, realtà diverse. La lotta per l'uguaglianza di genere nel mondo islamico, e nel mondo in generale, necessita di un approccio femminista che vada oltre le dicotomie semplicistiche e abbracci la complessità delle esperienze umane. Per questo, il femminismo transnazionale e intersezionale è la via per la costruzione di un futuro più giusto ed equo per tutte le soggettività. Le reti internazionali di supporto e di scambio di risorse amplificano l'impatto delle lotte locali e promuovono un’azione globale per l’uguaglianza di genere, rafforzando l’impegno collettivo per i diritti delle donne in tutto il mondo. Il femminismo oggi deve essere in grado di farsi movimento policentrico e interrelato, superando definitivamente quell’impianto binario e separatista del pensiero e della conoscenza, che ha costruito gerarchie improprie. Deve posizionarsi saldamente nell'intreccio tra le tante differenze che ci attraversano: genere, orientamento sessuale, classe, cultura, colore, etnia, religione, età. Un femminismo che aspira a un cambiamento radicale deve tenere insieme nuove forme di autocoscienza, un lavoro politico sul sé di ciascuna e quello sulla realtà che vogliamo radicalmente cambiare. Deve ribadire il valore delle differenze e, nello stesso tempo, riconoscere l’uguaglianza come ineliminabile categoria interpretativa della dimensione umana a garanzia di una pratica di interconnessione e solidarietà tra soggetti differenti. La lotta per i diritti delle donne è una lotta universale per la giustizia sociale e per un futuro più equo e inclusivo per tutt*.
Filippo Cavaliere
Nel 1980 Edoardo Bennato sognava un mondo in cui “non c’è mai una guerra”, quello nella sua “isola che non c’è”, un mondo forse utopico ma non impossibile. Per l’occidente questo mondo esiste, perché ci sono ancora molG paesi europei in cui governo e stampa conGnuano a chiudere gli occhi, fare silenzio e voltare lo sguardo quando si parla del confliIo, diventato genocidio, tra Israele e PalesGna. Le immagini di bombe su: scuole, ospedali, case e negozi – aggiunte alle montagne di cadaveri – non riescono ad aIraversare il mediterraneo e scompaiono nel nulla, filtrate e nascoste dai media occidentali.
Nelle ulGme seOmane la situazione nella striscia di Gaza è andata a peggiorare, e la nuova Ong inventata da Israele (Gaza Humanitarian FoundaGon) ha subito mostrato i suoi prevedibili problemi daG dalla poca quanGtà di cibo e punG in cui riGrarlo. Durante le operazioni di distribuzione, infaO, ci sono staG diversi morG e feriG, anche per mano dell’esercito israeliano.
I paesi europei nelle scorse seOmane hanno votato per decidere sulle relazioni poliGche ed economiche con Israele, e 17 staG su 27 si sono espressi favorevoli alla revisione dei traIaG con Israele. Questo piccolissimo passo in avanG, però, non cambia il modo in cui molG occidentali conGnuano a vedere, o meglio non vedere, la situazione in PalesGna. Inoltre, condannare gli innumerevoli reaG del governo di Netanyahu e imporre sanzioni gravi dovrebbe essere scontato, ma molG paesi, tra cui l’Italia, conGnuano a difendere Israele scegliendo il silenzio piuIosto che la giusGzia.
Nei paesi in cui questa presa di coscienza su Gaza – o difesa del “brand” dato che di tempo ce ne è voluto – non è ancora arrivata, la stampa svolge la sua grossa parte. In Italia, per esempio, nei maggiori quoGdiani in distribuzione, si tende a fare l’uGlizzo di un linguaggio pro-Israele, ritenendolo viOma e avente diriIo a difendersi da Hamas – il popolo palesGnese spesso non viene nominato – qualche esempio: sul ‘Corriere della Sera’ la sezione dedicata alla guerra ha il nome di “Israele-Hamas”; ‘Il Giornale’ esagera e rilancia con “Guerra in Israele”, la PalesGna nemmeno esiste a quanto pare; ma il vincitore è ‘Libero’, il quale colpevolizza i giornali che non parlano della tregua rifiutata da Hamas, scordandosi però che l’ulGma volta la tregua era stata interroIa da Israele, e che forse servirebbe qualcosa di più stabile – non considerando il faIo che Israele conGnui ad uccidere civili senza moGvo.
Gaza assume le sembianze di una terra di nessuno, disabitata e senza uGlità, come uno stato di Risiko rimasto senza carri armaG e dadi da lanciare. La verità, però, è che i 2 milioni di abitanG vivono ogni giorno in situazioni estreme e al limite tra vita e morte; mentre miliardi di ipocriG conGnuano le loro vite, fregandosene di tuIo ciò che non gli riguarda, perché alcuni esseri umani contano più di altri.
Francesco Faga
Tutti abbiamo sentito parlare della notizia del femminicidio di Martina Carbonaro, ragazza di 14 anni originaria di Afragola, uccisa il 26 maggio dall’ex fidanzato, il 19enne Alessio Tucci, che ha confessato alle autorità. La vicenda ha scosso buona parte dell’opinione pubblica, sia per il (sempre più preoccupante) clima di violenza di radice patriarcale, sia perché mai prima d’ora la vittima era così giovane.
Se la notizia in sé ha dato molti spunti di riflessione (e anche urgenti), nei giorni scorsi la vicenda ha avuto risalto per un altro motivo particolare riguardante la madre di Martina. In un video postato su Tiktok si vede Fiorenza - la mamma - insieme a Patrizio Chianese, titolare di un chiosco di panini e hot dog molto popolare sui social, mentre preparano un panino. A detta di Chianese stesso, il panino sarebbe stato fatto “per ricordare Martina”. Chiaramente il mondo dei social non perdona nulla, nemmeno i momenti nei quali si “abbassa la guardia”, specialmente dopo una vicenda così cruenta: tra i commenti sotto il post (poi rimosso) gli insulti si sprecano, sia per il tiktoker, accusato di voler approfittare della situazione per guadagnare visibilità, che soprattutto per Fiorenza, accusata in maniera peggiore di aver già dimenticato che un assassino malato le ha portato via la figlia a soli 14 anni.
Si sa, il mondo dei social sa essere schietto ma anche eccessivamente freddo e crudele: ogni cosa deve essere pesata prima di essere condivisa a tutto il mondo per evitare “effetti boomerang” pericolosi. Questa schiettezza ci porta però a dimenticare una cosa fondamentale: l’empatia. Chi siamo noi per giudicare il comportamento di una persona che ha da poco scoperto che non rivedrà mai più sua figlia? Come potrà sentirsi questa donna? È plausibile abbia avuto un momento di minore lucidità? Uno sbaglio, ma in buona fede?
Il tema del lutto è un tema estremamente delicato e da prendere con le pinze, e ci sono moltissimi modi di reazione al dolore che cambiano da persona a persona. Siamo sicuri che noi avremmo reagito “meglio” di Fiorenza nei suoi panni?
Il mondo dei social ci ha abituato agli standard della perfezione, bisogna mostrarsi sempre bene, sempre a testa alta, ma soprattutto bisogna sembrare convincenti. Sia nelle occasioni felici che sopratutto in quelle tristi, in quanto spesso apparire in maniera “sobria” davanti al dolore ci fa guadagnare punti nell’opinione pubblica.
Per questo motivo ad esempio Gino Cecchettin, padre di Giulia Cecchettin, è stato spesso lodato per i toni pacati e diplomatici con i quali però esprimeva la sua opinione di contrastare la cultura patriarcale: mai una parola fuori posto davanti alle telecamere, nessun pianto teatrale, nessuna accusa o promessa di vendetta a chi ha ucciso sua figlia, ma idee, opinioni ragionate e riflessioni preziose, oltre a una ferita ancora fresca. Fiorenza invece si è mostrata immediatamente - e con toni giustamente anche più spinti - davanti ai media, magari esprimendosi male, magari in maniera più “genuina” che preparata. La domanda ci viene spontanea: chi ha avuto il comportamento migliore, Gino o Fiorenza?
La risposta è solo una. Entrambi. Entrambi hanno perso una figlia per colpa di una persona che avrebbe dovuto proteggerla. Magari Gino Cecchettin ha qualcuno che si occupa dell’aspetto comunicativo, e in tal caso non ci sarebbe nulla di sbagliato, ma il dolore che lega Gino e Fiorenza ha la stessa natura, ed entrambi hanno il diritto di mostrarlo nella modalità che preferiscono. Non tutto nella vita ha bisogno
dell’approvazione dei social.
Il “Valzer” dei direttori artistici: così viene definito, ultimamente, l’irrefrenabile viavai dei designer tra una Maison e l’altra. Un fenomeno che ha sconvolto il mondo della moda soprattutto dopo l’ultima notizia: Demna lascia Balenciaga. Si sarebbe potuto dire, ormai, dopo dieci anni di percorso nella Maison spagnola, che Demna fosse Balenciaga, o meglio, che Balenciaga fosse Demna. Infatti, se negli ultimi anni abbiamo sentito parlare così tanto di Balenciaga, è stato proprio grazie alla nuova identità che lo stilista georgiano ha saputo conferirgli: una narrazione incentrata sull’abito, che Demna ha voluto riportare al centro della moda fin dalla fondazione del suo ormai dimenticato brand Vetements. Ma Demna ha fatto più di questo: ha lasciato che lo streetwear si insinuasse tra le pieghe dell’alta moda, e dalla sua prima sfilata Haute Couture del 2021 abbiamo assistito a un crescendo: modelli seminudi rivestiti di abiti strappati che passeggiavano in un fosso fangoso, un palese riferimento alle trincee sovietiche, fino a portare i “maranza” (modelli vestiti con tute sportive) in passerella, così come normalmente si vestono gli abitanti dell’est. Figlio di madre russa, Demna Gvasalia ha sempre sostenuto una narrazione fortemente autobiografica, portando le forme brutaliste e scure del dopoguerra sovietico all’interno di un brand che chiedeva disperatamente una scintilla di novità, sin dal ritiro del fondatore Cristóbal Balenciaga nel 1968. Nonostante l’acquisizione del gruppo Kering nel 2001 e i primi successi nelle vendite, il brand si era decisamente allontanato dall’alta moda e necessitava di personalità: Demna si è saputo inserire in questo vuoto di mercato con uno stile provocatorio, capace di trasformare il banale e lo squallido in desiderio; ricordiamo il borsone dell’Ikea trasformato in un costoso articolo di design, così come il sacchetto di patatine o la gonna/ asciugamano. Uno stile che ha diviso pubblico e critica, per alcuni troppo distante dalle radici della Maison, per altri lo stesso ideale espresso in modo diverso. Dal canto suo Demna ci ha ricordato di non essere Cristóbal Balenciaga e non poterlo diventare mai, ma di poter essere se stesso. Una soggettività forte, che ha abbracciato un’estetica dark e forme oversize, dando vita al concetto di anti-umanità nell’alta moda, come se non fosse più il corpo umano a plasmare l’ombra ma il contrario.
Dai piani amministrativi, Kering ha visto così in Demna la forza innovatrice che potrebbe risollevare la Maison numero uno del conglomerato, ovvero Gucci, attualmente in crisi. Le domande del settore dopo questa scelta sono ancora molte, poiché ciò che ha funzionato così bene per Balenciaga non è detto che vada bene per un brand totalmente diverso come la griffe fiorentina. Non ci resta che stare a guardare, e sperare che l’identità di Balenciaga, così oscura eppure così solida, non si sgretoli nel frattempo.
Andrea Galli
Immaginate una società in cui i ricchi sguazzano nell’oro, l’opinione altrui diventa il criterio fondamentale, la tecnologia, l’industria e il commercio raggiungono livelli mai raggiunti prima, il benessere di alcuni comporta il disagio di tanti e le apparenze contano molto più della sostanza; tutto ciò in una condizione di relativa pace e prosperità. Vi ricorda qualcosa?
Queste sono le caratteristiche generali della società occidentale tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, definita dagli storici “Belle Époque” per sottolineare la calma, il progresso, la stabilità e la spensieratezza che contraddistinguono questo periodo, e che rievoca spaventosamente la nostra società.
Ciò che però preoccupa maggiormente è come la Belle Époque sia terminata, ovvero con lo scoppio della Prima guerra mondiale nel 1914, le cui conseguenze portarono ad una Seconda guerra mondiale nel 1939. Due tragedie che rasero al suolo l’Europa, stroncarono generazioni, rovinarono intere vite e divennero prova della crudeltà umana.
Vedendo i numerosi casi in cui la storia si è ripetuta -in forme diverse, ma che comunque si è ripetuta- e analizzando quanto oggi si parli di guerra, l’allarme che potremmo ritrovarci in una situazione simile a quella del secolo scorso non è da ignorare del tutto.
Ma più precisamente, quali aspetti della nostra società ricordano maggiormente la Belle Époque?
In primo luogo, la Belle Époque è caratterizzata da un lungo periodo di pace che non vide scontri diretti tra grandi potenze ma solo piccoli conflitti limitati, che però non provocarono mai un’escalation. Allo stesso modo, la società odierna viene da circa 80 anni di pace, ma anch’essa è stata caratterizzata da scontri ridotti e concentrati come la Guerra del Vietnam (1955-1975), la Guerra del Kosovo (1998-1999) o il bombardamento della Libia (2011). Il susseguirsi di conflitti frammentati portò, nel caso della Belle Époque, ad inasprire sempre di più le rivalità, i conflitti di interesse e le tensioni tra potenze, gettando le basi per una guerra totale. E se stesse succedendo lo stesso oggi?
Oltre alla presa in considerazione di mandare al macello intere generazioni per motivi puramente economici, un altro aspetto che accomuna la Belle Époque al mondo odierno è la contrapposizione tra una classe sociale agiata e privilegiata ad una classe sociale oppressa e in miseria. Durante l’Ottocento, la società borghese raggiunse il suo culmine, distinguendosi per una spropositata ricchezza e una vita oziosa, a discapito del proletariato (infatti, in difesa dei diritti dei lavoratori, in questi anni nacque l’ideologia comunista).
Per quanto riguarda il secolo attuale, è sempre più evidente come l’evoluzione del capitalismo sia per certi aspetti ancora più degradante del capitalismo nella sua forma iniziale, con una concentrazione delle ricchezze sempre di più nelle mani di pochi e uno sfruttamento in continuo aumento. Basti pensare ad aziende come Amazon, Shein o Temu, e a figure come Musk.
Inoltre, la società borghese della Belle Époque teneva molto conto delle apparenze, del vanto e del consenso altrui, aspirando ad una vita perfetta ma con un sottofondo di pettegolezzi e scandali. È proprio in questi anni che nasce il concetto di tempo libero con la creazione delle prime località turistiche, la nascita dell’attività sportiva come la conosciamo oggi, ma anche del cinema e della radio.
Ai tempi dei social, questi fenomeni sono più che mai accentuati, dove tutti mostrano solo alcuni specifici lati della propria esistenza, filtrando tutto ciò che potrebbe risultare inadeguato o che potrebbe non aderire al personaggio che si vuole impersonare, costruendo una vita fittizia e apparentemente perfetta, intensificando l’ossessione per “l’apparire”. Oggi si è sempre tutti in vacanza, felici e spensierati, non mostrando mai quei momenti legittimi di sconforto, sofferenza o abbattimento. Inoltre, veniamo continuamente martellati da nuovi tipi di media, che mirano a farci consumare più contenuti possibili.
Infine, la Belle Époque coincideva con la Seconda rivoluzione industriale, dunque le nuove scoperte, l’innovazione scientifica e le nuove tecnologie contribuirono ad un profondo mutamento della società. In
particolare in questi anni furono inventate la dinamite, l’elettricità e la lampadina, i vaccini, le scale mobili, l’aeroplano, l’aspirina e il frigorifero.
Ma le invenzioni di allora, nonostante fossero rivoluzionarie, non hanno portato al cambiamento antropologico che viviamo oggi. Il progresso e le nuove scoperte odierne raggiungono un livello di sofisticatezza che ci porta ad un cambiamento radicale dei nostri atteggiamenti, per i quali noi come esseri umani non siamo stati “programmati”. Numerosi comportamenti che sin dall’antichità sono stati centrali nella vita dell’uomo, oggi vengono fatti da macchine, da internet o da servizi creati appositamente, e questa è una caratteristica unica del nostro tempo. Un esempio può essere come prima fossero le singole persone a cercare le notizie su giornali, riviste o libri, imbattendosi in più opinioni e scegliendo quella più adatta a sé, mentre oggi la scelta spetta ad un sistema che, tramite un algoritmo, distribuisce informazioni già confezionate e orchestrate ad hoc per un determinato utente, che potrebbero essere fuorvianti.
Quindi, i parallelismi tra Belle Époque e i giorni nostri sono molti, e studiando quali siano state le ripercussioni, cioè la guerra e la morte, dovremmo renderci conto della vera funzione della storia, ovvero quella di non farci ripetere gli stessi errori, e agire di conseguenza.
Churchill nel 1921 definì il periodo della Belle Époque così:
«Nazioni e Imperi, coronati di principi e di potentati, sorgevano maestosamente da ogni parte, avvolti nei tesori accumulati nei lunghi anni di pace. Tutti si inserivano e si saldavano, senza pericoli apparenti, in un immenso architrave. I due potenti sistemi europei stavano l’uno di fronte all’altro, scintillanti e rimbombanti nelle loro panoplie, ma con sguardo tranquillo… Il vecchio mondo, nell’ora del suo tramonto era bello a vedersi…»
Intanto, oggi il Nuovo Mondo nell’ora del suo tramonto non sembra bello nemmeno a vedersi.
Alessandro Scotti
Secondo il report del Ministero del Turismo relativo alla stagione 2023-2024, in Italia sono state registrate dagli esercizi del terzo settore oltre 450 milioni di presenze, ovvero 134 milioni di turisti che hanno scelto di trascorrere il tempo libero nel nostro paese. Se qualche anno fa, con ancora lo spettro della pandemia ad annebbiarci gli occhi, avremmo esultato gridando al miracolo economico, oggi non è più così. Infatti, nonostante un bilancio della Banca d’Italia metta in evidenza che il turismo è responsabile della produzione del 5% del PIL e del 6% dell’occupazione nazionale, questa situazione di apparente crescita e benessere economico sta prendendo una piega negativa, assumendo sempre di più le sembianze di quello che nel 2018 la Oxford University ha definito “Overtourism”. Questo è un fenomeno spaventoso che coinvolge in egual misura tutti noi e per il quale si intende un “flusso di turisti talmente cospicuo da mettere in difficoltà la località verso il quale si è diretto, causando disagi alla popolazione e all’ambiente”.
L’overtourism è una realtà presente ormai da anni nei principali luoghi d’attrazione di tutto il mondo e coinvolge in primo piano il nostro Paese, quinto nella classifica globale degli stati più visitati. Il sovraffollamento delle zone interessate, la derivante inefficienza di infrastrutture e l’innalzamento vertiginoso dei prezzi di case e affitti hanno fatto nascere in diverse mete turistiche europee e non un sentimento di astio nei confronti dei turisti, culminato talvolta in proteste in piazza da parte dei locals, come ad esempio la serie di manifestazioni organizzate a Barcellona nell’estate 2024, in cui gli abitanti del luogo hanno sparato ai turisti con delle pistole ad acqua. Tuttavia la mentalità imprenditoriale e la fede capitalistica nel profitto hanno fatto sì che alcuni cittadini delle ‘popolazioni occupate’ dal turismo di massa abbiano saputo sfruttare a proprio vantaggio questa situazione, contribuendo in realtà ad incrementare la rovinosità del fenomeno. È il caso della ‘deurbanizzazione’ che sta avvenendo nelle principali città europee, secondo la quale gli abitanti dei centri storici, un po’ per la loro invivibilità e un po’ pensando al guadagno, scelgono di convertire la loro casa in una pratica residenza per turisti e di trasferirsi in periferia. Questo triste fenomeno, che tra le altre cose contribuisce a vanificare lo spirito caratteristico dei centri storici che gli stessi turisti inseguono con i loro assalti, riguarda nel dettaglio le nostre città d’arte: Firenze, Napoli, Roma e Venezia si stanno spopolando per fare spazio ad Airbnb e friggitorie. In particolar modo nel capoluogo veneto, stando alle stime di Rai News, nel 2025 gli abitanti della città vecchia scenderanno a 48mila mentre i posti letto per i turisti saliranno oltre i 50mila. Tutto questo senza contare gli enormi impatti ambientali che l’overtourism sta avendo sul territorio: specialmente nei confronti di attrazioni di tipo naturalistico come la costiera amalfitana o le Cinque Terre, queste ondate di turisti non contribuiscono di certo a migliorare la già dura situazione ambientale, aggravata in questo caso dall’aumento della produzione dei rifiuti, dal sovrasfruttamento del suolo e soprattutto dalla mancanza di regolamentazioni e campagne di sensibilizzazione rivolte al gregge del terzo settore.
Ma quali sono le reali cause dell’overtourism? Sebbene degli studi antropologici non troppo desueti abbiano identificato la necessità di visitare posti diversi da quello proprio di appartenenza come “l’espressione di un bisogno di autenticità altrimenti inappagabile”; i flussi turistici odierni vengono prevalentemente orchestrati dai mezzi di comunicazione di massa e dai loro esponenti. Non è raro infatti che un luogo venga preso d’assalto dai turisti perché improvvisamente consigliato su Tik Tok dai maggiori influencer o perché fa da ambientazione al film campione d’incassi dell’anno; come avvenuto nei primi anni 2000 a Maya Bay in Thailandia, scenario del film “The Beach” con Leonardo diCaprio, tanto che il governo thailandese dell’epoca ha dovuto obbligatoriamente chiudere al pubblico per preservarne l’ecosistema. Ma non è tutto: l’illusione dei viaggi low-cost data da voli “salva euro” e crociere a prezzi troppo bassi per essere veri, hanno chiaramente ampliato l’orizzonte dei viaggi di piacere praticamente a tutti, a differenza di quando il turismo rappresentava l’espressione del benessere di determinate classi sociali, e hanno inoltre sdoganato e incentivato il modus operandi delle toccate e fuga, con soggiorni brevi che prendono luogo generalmente durante il fine settimana e che mettono a dura prova la sostenibilità e l’equilibrio talvolta fragile delle mete turistiche.
Ovviamente, una soluzione universale all’overtourism al momento non esiste, ma l’Organizzazione Mondiale del Turismo (UNWTO), riconoscendo la potenziale fatalità del fenomeno, ha individuato e proposto agli stati interessati in prima persona 11 strategie per combattere il fenomeno. Tra queste una di quelle che sembrano più efficaci e facilmente applicabili, almeno nel breve periodo, è senza dubbio la stretta sulla regolamentazione riguardo gli arrivi e le visite presso le attrazioni più gettonate, in modo da evitare che i turisti si concentrino tutti negli stessi posti durante gli stessi periodi. Ridistribuire i turisti in visite da più giorni e in luoghi generalmente meno considerati, disincentivando ad esempio i soggiorni brevi e valorizzando aree poco turistiche costruendo nuovi poli d’interesse, sarebbe cruciale per diminuire la pressione che attanaglia da anni gli stessi spazi e i loro abitanti. Altrettanto importante risulta essere la sensibilizzazione rivolta ai turisti, che devono essere necessariamente educati sulle normative, le culture e le tradizioni locali così da non violarle. Infine, secondo l’UNWTO, una misura che potrebbe essere immediatamente utile a moderare i flussi turistici specialmente nelle alte stagioni, riguarderebbe la modernizzazione dei sistemi di monitoraggio attraverso nuove tecnologie come i big data, in modo da prevenire crisi di affluenza e analizzare in tempo reale l’impatto dei turisti e gestire così più agevolmente picchi inattesi di visite.
Non spetta a noi, e probabilmente a nessuno, stabilire quale sia il confine tra l’esercizio della libertà di visitare luoghi e culture diverse dalla propria e il ‘turismo nocivo’ di cui si è parlato in precedenza; ciò che però appare scontato è che esistono delle zone calde in tutto il mondo che risentono di questo fenomeno globale e che vanno sicuramente salvaguardate, non solo perché fanno parte del patrimonio artistico e culturale dell’umanità, ma anche e soprattutto perchè sono la casa di milioni di persone. Bisogna per una volta mettere da parte il profitto ed è quindi necessario che le istituzioni interessate agiscano per prevenire il definitivo snaturamento e la rovina delle bellezze, soprattutto se si parla del nostro paese e del nostro continente, in modo da permettere anche alle generazioni future di poterne ammirare il fascino e rimanerne ammaliati.
Nicole Della Santina
Mentre i liceali organizzano il viaggio dei 100 giorni, le scuole i campi scuola, le ragazze i girlstrip a Ibiza e tra noi amici ci sbrighiamo a comprare i biglietti per il Marocco; mentre pensiamo a quale cammino di Santiago fare e prenotiamo gli ostelli stiamo tutti, inconsapevolmente forse, partecipando all’evoluzione del viaggio. Non è una cosa nuova, lo sappiamo, esiste da sempre, fin da quando gli stessi uomini erano dei nomadi e il viaggio era uno stile di vita più che una scelta. Ma da che punto la nostra storia si intreccia con quella dei nostri spostamenti?
A partire dall’antichità l’idea del viaggio si fonde con la nostra necessità di commerciare via mare e via terra, di trovare i punti più strategici per insediarci e sopravvivere. E poi poco distante nel tempo si aggiunge un altro sinonimo di viaggio: il pellegrinaggio religioso. In Grecia, in particolare, era popolarissimo il pellegrinaggio verso Delphi, città sede dell’oracolo del dio Apollo. Vi ci si recava per conferire con la Pizia, la sacerdotessa che recitava i responsi del dio Apollo. La Pizia veniva scelta tra le donne vergini e di buona famiglia del paese. Originariamente, prima che il numero di pellegrini aumentasse esponenzialmente, c’era una sola Pizia (arriveranno a diventare tre secondo Plutarco) e ci si poteva conferire una sola volta all’anno, nel periodo di febbraio, che era l’unico momento in cui si potevano chiedere responsi all’oracolo. Ma come si sarebbe svolto il nostro pellegrinaggio? Una volta arrivati a Delfi noi, gli interroganti, già presentata la richiesta, avremmo assistito alla Pizia che, lavatasi con l'acqua della fonte Castalia e indossata della veste rituale, si sarebbe seduta su di un seggio posto al di sopra di una voragine da cui sarebbero salite delle esalazioni in grado di esaltarla. Dalle parole sconnesse che avrebbe detto poi i sacerdoti avrebbero dovuto trarre le premonizioni.
In quale misura queste “letture” si potevano dire veritiere? Sono stati scoperti dei casi di corruzione in seguito ai quali la Pizia in carica venne deposta (per esempio quello denunciato da Erodoto riguardante Cleomene, il re di Sparta, e il suo collega Demarato). Comunque negli anni, grazie alla ricerca, siamo giunti a conclusioni più scientifiche, convenendo che a renderla una pratica “onesta” fosse il mix di gas comunemente rilasciato da fratture sismiche come quella sotto al tempio che avevano la capacità di indurre effetti di esaltazione nell’uomo. Ma ad ogni modo l'oracolo di Delfi, veritiero o no, nel corso della storia greca antica segnò fortemente le scelte politiche e belliche, e fu molto popolare fino a quando la pratica venne proibita dall'imperatore romano Teodosio I.
Un altro tipo di viaggio che perpetuiamo dall’antichità è quello di tipo esplorativo. Adesso esploriamo la luna e i pianeti, ma nel 1271 Marco Polo, giovanissimo veneziano, partiva da Laiazzo e si avventurava in un lungo percorso attraverso l'Asia anteriore, inoltrandosi nell'Asia centrale (in regioni ancora ignote come le valli del Pamir), arrivando dopo tre anni ai confini della Cina e poi a Pechino. Non sarebbe più tornato a Venezia per venticinque anni. È risaputo che tutto quello che sappiamo dei suoi viaggi curiosi nell’Estremo Oriente ci viene riportato dalla sua opera Il Milione, che ha ispirato esploratori come Cristoforo Colombo e che a suo tempo fornì importanti contributi alla cartografia occidentale. Quando il padre e lo zio di Marco Polo giunsero per la prima volta in Cina divennero collaboratori dell’imperatore Kublai, nipote del condottiero mongolo Gengis Khan, che avrebbe poi accettato consentire ai due un salvacondotto per tutte le terre sotto il suo dominio in cambio di un contatto con il papa. I fratelli Polo quindi si affrettano a tornare per poi ripartire, e al loro ritorno portarono con sé un diciassettenne di nome Marco. Nonostante il padre e lo zio fossero perlopiù interessati agli aspetti commerciali di quella ambigua alleanza e vedessero solo le possibilità di profitto, Marco seppe scoprire l’Oriente come un vero esploratore e studioso più che come un commerciante. Fino alla fine del 13esimo secolo le informazioni forniteci dall’esploratore furono le uniche essenziali conoscenze sull’est diffuse in occidente.
E infine, da esplorare ci rimane il viaggio d’istruzione, già diffusissimo nell’antica Roma con meta Grecia e dintorni e poi di nuovo in voga nell’800 con il Grand Tour europeo. Goethe scrisse tra il 1813 e il 1817 Viaggio in Italia, un diario dettagliato del suo tanto agognato viaggio, per l’appunto, in Italia. Partì sotto falso nome per viaggiare in tranquillità quando era già ministro a Weimar; prosciugato dal ruolo era in cerca della sua perduta creatività lasciò che persino i suoi familiari perdessero le sue tracce per quasi due anni. Ma Goethe era talmente entusiasta del suo viaggio, grande ammiratore quale era della Magna Grecia, che non avrebbe voluto farselo rovinare da nulla al mondo. Non cercava la Roma barocca, né quella rinascimentale, non cercava Leonardo e Michelangelo, bensì le tracce dell’eleganza antica, l’influenza greca e le antiche glorie dell’impero. Percorse l'Italia dalla Toscana (dove rimase entusiasta di Siena e Firenze) fino alla Sicilia, trovando nella vita mediterranea il piacere della quotidianità, della sensualità (addirittura un amore forse) e catturò tutto quello che i suoi occhi vedevano con quella sua penna schizzante (portò infatti a casa più di mille disegni). Cercò anche di replicare l’incanto di quel suo primo viaggio con un secondo, ma questa volta rimase profondamente deluso.
Conosci il paese dove fioriscono i limoni?
Nel verde fogliame splendono arance d'oro
Un vento lieve spira dal cielo azzurro
Tranquillo è il mirto, sereno l'alloro
Lo conosci tu?
Laggiù, laggiù
Vorrei con te, o mio amato, andare!
Viviamo sotto il segno dell’io. Un io ipertrofico, sovraesposto, permanentemente online. Eppure, mai come oggi, quell’io è fragile, ansioso, in cerca di conferme. La promessa di libertà e autoaffermazione che il neoliberismo ci ha consegnato si è rovesciata nel suo contrario: una vita intessuta di performance, branding personale e panico da irrilevanza.
“Sii te stesso” è diventato un imperativo morale, ma soprattutto un ordine di mercato.
Lo avevano previsto in tanti. Nietzsche aveva già visto nella morte di Dio la nascita di un vuoto – un abisso che avrebbe chiamato nihilismo. Ma al posto del vuoto, noi ci abbiamo messo l’identità. L’“essere speciali” è la nuova forma di salvezza, l’unica ancora possibile in un mondo che non promette più nulla. Non si cerca più Dio, né verità, né senso. Si cerca visibilità.
Il personal branding è la teologia del XXI secolo: non ci dice solo come presentarci, ma come vivere. Scegliere cosa postare, come definirsi, quali tratti enfatizzare – è una liturgia quotidiana. Un culto in cui l’oggetto sacro siamo noi stessi, o meglio: la nostra rappresentazione.
Byung-Chul Han lo chiama “società della prestazione”, in cui non siamo più sorvegliati da un potere repressivo, ma sedotti dalla libertà di scegliere noi stessi. Una libertà apparente, che ci fa diventare imprenditori di noi stessi, capitalisti affettivi, sempre pronti a vendere un pezzo della nostra anima in cambio di attenzione.
L’identità non è più una domanda filosofica (“chi sono io?”), ma un problema di storytelling
In questo paesaggio, l’io non è più qualcosa da scoprire, ma da costruire. E più lo si costruisce, più si perde. Kierkegaard parlava di “disperazione dell’io”, una condizione in cui il soggetto non riesce ad essere se stesso, perché è separato dal proprio nucleo autentico.
Oggi quella disperazione è algoritmica: la proviamo quando il nostro contenuto “non funziona”, quando nessuno guarda, quando il mondo sembra dire: non sei interessante.
E allora rincorriamo engagement, reach, coerenza del feed. Ma chi siamo, davvero, quando nessuno ci guarda?
Nel tentativo disperato di “distinguersi”, finiamo per somigliarci tutti. Ogni feed diventa uno specchio deformante dove i tratti unici vengono impacchettati in format replicabili.
Il paradosso è evidente: l’individuo, nel tentativo di diventare irripetibile, si serializza. La soggettività si piega ai codici del marketing, e il narcisismo diventa una forma di alienazione.
Forse, allora, la questione non è come emergere, ma come non perdersi. Non in senso romantico, ma radicale: come restare capaci di abitare il dubbio, l’opacità, il silenzio.
Come restare esseri umani, non brand.
In un sistema che premia l’esposizione costante, scegliere di scomparire sembra una forma di resistenza. Il digital detox, il silenzio volontario, il rifiuto di mostrarsi possono apparire come gesti autentici, controcorrente.
Ma anche queste scelte sono rapidamente state assorbite dalla logica del branding personale. La disconnessione è diventata uno stile di vita, un contenuto da raccontare al ritorno, un modo per distinguersi in un mercato saturo.
Ma se anche scomparire fosse il nuovo trend?
Pietro Emanuele Abondazio
Il 6 giugno del 1944 è la data che riporta alla mente il leggendario sbarco in Normandia, operato dalle forze alleate per sconfiggere la potenza tedesca. Non tutti sanno che, oltre alle numerose vittime alleate sacrificate sulle spiagge francesi, è stata di fondamentale importanza la preparazione dello sbarco, composta da un attento studio fatto di strategia e di inganni. Questi ultimi furono fondamentali per depistare le forze naziste, e il più importante riguarda la cosiddetta “operazione Fortitude”. L’obiettivo era di far credere al nemico di dover affrontare gli sbarchi in una zona completamente differente rispetto alla Normandia.
Ciò fu possibile grazie all’intuizione del tutto originale del colonnello inglese John Bevan. Si domandava infatti come avrebbe potuto far credere a Hitler che un esercito imponente fosse effettivamente presente in Inghilterra. La sua idea fu sia geniale che folle, perché decise di creare un vero e proprio esercito fatto di veicoli fittizi, tende vuote e casse di munizioni svuotate. Diede persino un nome all’esercito fantasma, in modo da non destare alcun sospetto nei confronti delle spie tedesche. Si chiamava FUSAG, First United States Army Group, aveva anche un quartier generale di stanza a Wentworth, vicino ad Ascot, e il suo generale era George Patton, il più famoso stratega americano della seconda guerra mondiale
Ovviamente l’idea non fu subito digerita dagli altri protagonisti dello sbarco, come il maggiore Ralph Ingersoll che dovette aiutare Bevan nell’operazione Fortitude. Era convinto che il piano fosse: «Un’idiozia bella e buona». Secondo lui a quella follia: «I tedeschi non ci crederanno mai». Eppure è stato grazie ad un suo lampo di genio se l’operazione andò a buon fine. Incaricò infatti numerosi carpentieri di provare a costruire dei carri armati non in acciaio, bensì in legno. L’unico problema riguardava le tempistiche. La costruzione di uno Shermann in legno necessitava delle stesse tempistiche di un carro armato reale. Così chiese se fosse fattibile l’utilizzo della gomma per la creazione dei veicoli, lo stesso materiale usato per creare i modelli di Mickey Mouse nelle parate americane. In questo modo, in meno di due mesi, grazie all’aiuto di alcune fabbriche di pneumatici degli Usa, arrivarono in Inghilterra delle ottime imitazioni di Shermann contenute in varie valigie. Ingersoll esclamò così l’avvenimento: «Degli Shermann in una valigia!». Per completare la creazione dei carri bastava agganciare ognuno di essi ad un compressore in modo che si gonfiassero. In una sola notte circa cento carri furono stanziati nelle campagne del sud-est dell’Inghilterra. In verità fu necessaria la presenza anche di un solo carro vero, utilizzato per creare solchi e orme per far credere ai ricognitori aerei nemici che fossero passati effettivamente i cingolati.
Il passo successivo fu quello di dare vita all’accampamento fantasma. Per dare l’impressione che fosse effettivamente brulicante di soldati, vennero composti dei messaggi radio ad hoc che ricreavano fedelmente quelli che potevano essere usati in un normalissimo campo. Per fare ciò fu dispiegato un distaccamento dell’U.S. Army Signal Corps, incaricato di inviare messaggi radio in codice e in chiaro. Alcuni di essi erano messaggi vocali e furono impiegati persino alcuni ex attori di Hollywood per imitare i vari accenti americani. Per completare la farsa si doveva attendere solo che le spie tedesche ricevessero tutti i segnali inviati dall’esercito fantasma. Due spie tedesche, nomi in codice Armand e Arabal, furono effettivamente tratte in inganno e scrissero numerosi rapporti sulla situazione in Inghilterra. Il fascicolo NR2796/44, sopravvissuto alla guerra, dichiarava che dall’Inghilterra sarebbe partita un’invasione dal Sudest del paese e che sarebbe arrivata al passo di Calais. In realtà, come poi ha dimostrato il vero sbarco, tutte le divisioni alleate sarebbero sbarcate in Normandia dalla zona Sudovest.
Fascismo, fascismo e ancora fascismo. Ne parliamo quotidianamente, ma non tutti ricordiamo il buio periodo in cui è nato: il Biennio Rosso. I socialisti erano portatori di una “buona novella” o anch'essi alimentavano la violenza in Italia? Nelle ultime settimane, gli italiani hanno rivissuto le tensioni del 1919- 1920 con M - Il Figlio del Secolo, una narrazione unilaterale che si è concentrata esclusivamente sulle brutalità squadriste. Tuttavia, come recita il detto "le cose si fanno in due", l'alba del fascismo ha coinciso con un altro capitolo oscuro della nostra storia: il biennio rosso. Di fronte alla miseria dell'Italia post-bellica, moltissimi uomini hanno cercato la soluzione in una rivoluzione armata contro le fabbriche, i borghesi indifesi e un governo fantoccio.
Tutto è iniziato a Bologna nel 1919, durante il congresso socialista, noto per l'adesione all'Internazionale Comunista. Il Partito Socialista è diventato sempre più popolare, in particolare nelle zone industriali del Nord Italia. Era arrivato il momento di agire per costruire una nazione proletaria, ma come? Si sono confrontate tre mozioni, presentate rispettivamente dal capo dei massimalisti Giacinto Menotti Serrati, da Costantino Lazzari e Amedeo Bordiga. Unanimemente, tutti hanno ritenuto che democrazia e socialismo fossero incompatibili, e quasi tutti hanno concordato nel seguire il modello sovietico. I riformisti di Turati, che sostenevano un cambiamento senza rivoluzione, sono stati espulsi dal partito. Turati non credeva nell'azione diretta, nell'assalto al Palazzo d'Inverno all'italiana, ma in una graduale conquista dei poteri pubblici. La risposta di un esponente massimalista a Turati è stata: "Voi siete fuori dai vostri tempi, siete fuori dalla realtà". A seguito di una votazione, è stato deciso che la violenza sarebbe stata il mezzo dei socialisti.
Da quel momento, tutti dovevano ribellarsi al padrone, anche chi non lo voleva. In Emilia-Romagna, la classe operaia, in particolare nel Parmense e nel Ferrarese, ha preso il controllo di alcuni comuni. Il sindaco non aveva più voce in capitolo; a comandare c'erano le leghe rosse. Se qualcuno non era d'accordo, nei migliori dei casi veniva mandato in esilio o veniva privato del diritto di avere rapporti sociali con la comunità, e costretto, quindi, ad abbandonare la propria casa. Le vittime principali sono stati i contadini, che lavoravano ogni giorno per sfamare le proprie famiglie, un "crimine" imperdonabile per la lega locale. Quando i contadini non aderivano a uno sciopero, ovvero si comportavano da "crumiri col padrone", venivano marchiati sulla mano dai socialisti. Nei giorni seguenti, i socialisti tornavano a controllare il marchio per verificare se fosse intatto o meno, così da accertarsi che avessero lavorato e obbedito agli ordini; nel caso contrario, venivano picchiati duramente. Frequenti erano anche le violenze contro i veterani della Grande Guerra. Un esempio è quello di un ex-soldato venticinquenne, zoppo e con il braccio fasciato, che si diresse verso un servizio della Misericordia a Firenze per ricevere aiuto. Alcuni socialisti lo videro e gli gridarono: "Assassino, infame!". Gli saltarono addosso, lo presero a cazzotti, lo riempirono di sputi e gli infilano le mostrine in bocca.
La vittima più conosciuta del biennio rosso è stato Giovanni Berta. Il suo omicidio è stato l'anticamera della guerra civile tra fascisti e comunisti a Firenze. Giovanni, detto "Gianni", stava camminando sull'odierno Ponte alla Vittoria sull'Arno. Un gruppo di socialisti lo accerchiò e gli pose una domanda: "Sei fascista?" Lui confermò senza esitazione, e immediatamente lo travolsero con violente percosse, comprese sprangate. Gli spezzarono le dita con le scarpe e lo colpirono alla testa con un oggetto di ferro. Solo alla fine lo gettarono nell'Arno. Non morì per la sua incapacità a nuotare, poiché era stato in Marina per anni e l'acqua non era profonda, ma per una perdita di sensi. Sono passati centoquattro anni e i colpevoli sono ancora sconosciuti. Un canto dell'epoca recitava: «Hanno ammazzato Giovanni Berta, figlio di pescecani, viva quel comunista che gli pestò le mani!»
In conclusione, è importante domandarsi: tutti quanti hanno fatto i conti con la storia? L'uomo ha sempre il bisogno di identificare una fazione come profondamente vittima e l'altra come profondamente carnefice, quando le guerre si combattono con gli stessi mezzi. L'Italia guarda al Novecento come un’obbligatoria presa
di posizione, "Tu da che parte stai?", e non come un periodo storico. Questa lotta alle ideologie ci ha fatto solo allontanare dalla verità dei fatti e di conseguenza all'ignoranza nei confronti dei più grandi retroscena che hanno portato il nostro paese alle tragedie che conosciamo. Avremo mai uno Scurati che criticherà il Biennio Rosso, le brutalità delle Leghe Rosse e il loro sogno della dittatura del proletariato?
“L’uomo è nato per soffrire, come le scintille per volare verso l’alto”, troviamo scritto nel libro di Giobbe. Nonostante il nostro naturale istinto umano ci porti a fuggire il dolore, la sofferenza esercita un fascino potente, al punto da spingerci persino a celebrarla. Da sempre desideriamo comprenderla, indagarla, rappresentarla: il tragico occupa un ruolo cruciale nella filosofia, nell’arte, nella letteratura – in definitiva, nella nostra esistenza.
Ma cosa rende il fenomeno tragico così potente e calamitante? È possibile che non si limiti a essere un riflesso della sofferenza, ma parli alle dimensioni più profonde del nostro essere, offrendoci una comprensione più ampia dell’esistenza? Attraverso il pensiero di alcuni filosofi, cercheremo di rispondere a questa domanda.
Quando pensiamo alla tragedia, il pensiero corre immediatamente alla Grecia e al teatro: la tragedia nacque come omaggio a Dionisio, celebrato con danze, canti e feste. Furono proprio i Greci i primi a intuire che rappresentare il dolore potesse diventare un mezzo per comprendere la vita stessa. Secondo Aristotele, la tragedia purifica l’anima, suscitando pietà e terrore. La sua funzione catartica permetteva agli spettatori di confrontarsi con le proprie emozioni attraverso la rappresentazione scenica del dolore.
Per gli antichi, tuttavia, il tragico non si limitava a un’esperienza emotiva. Nei personaggi di Eschilo e Sofocle, la sofferenza era sempre legata a un ordine cosmico e mai ingiustificata. Edipo, ad esempio, lotta contro un fato ineluttabile, cercando invano di sfuggire alla profezia. In questo contesto, il dolore umano diventa uno strumento per ristabilire la giustizia universale. La tragedia non si riduce a una punizione, ma diventa una lente per comprendere la grandezza della vita umana e il suo legame profondo con il destino.
Con Nietzsche, il tragico non è più solo un mezzo, ma diventa un inno alla vita stessa. La tragedia greca, che fonde l’apollineo (ordine e razionalità) e il dionisiaco (caos e istintività), rivela la bellezza del vivere anche nel dolore. “Ciò che non mi uccide mi rende più forte”, affermava Nietzsche – e, con ironia, anche Kelly Clarkson nel brano Stronger (What Doesn't Kill You). L’invito è chiaro: non temere il tragico, ma abbracciarlo come parte integrante dell’esistenza. Il dolore non è un nemico; accettarlo significa arricchire la vita.
Dolore come parte della condizione umana o strumento per affrontare l’assurdo? Camus, nel solco dell’esistenzialismo, paragona la condizione umana al mito di Sisifo, condannato a spingere un masso fino alla cima di una montagna, solo per vederlo rotolare di nuovo a valle. Eppure, la ribellione contro l’assurdo diventa il senso della sua esistenza: “Dobbiamo immaginare Sisifo felice”.
Kierkegaard, dal canto suo, vede nel dolore un’opportunità per raggiungere l’autenticità. L’angoscia, scrive, è la “vertigine della libertà” – un campanello d’allarme che ci spinge verso una relazione più profonda e vera con noi stessi e con l’assoluto. Affrontare il dolore diventa così un passaggio necessario per scoprire la nostra vera essenza.
Possiamo spingerci fino a dire che la consapevolezza del dolore e della morte sia un mezzo per vivere in modo autentico? Questa è la prospettiva di Heidegger, che con il concetto di Essere-per-la-morte invita l’uomo a confrontarsi con la propria finitezza, trasformando il limite in una condizione per apprezzare pienamente la vita.
Levinas, infine, riprende un elemento della tragedia greca: il confronto con il dolore altrui. Il volto sofferente dell’altro – o la sua rappresentazione scenica – ci interpella, ci costringe a confrontarci con la nostra responsabilità etica. Il tragico, così, si sposta dalla dimensione individuale a quella collettiva, richiamandoci a una maggiore umanità nell’accogliere la sofferenza altrui.
Torniamo alla domanda iniziale: cosa ci attrae della sofferenza? Probabilmente, ciò che riguarda noi stessi e la vita. La sofferenza ci invita a esplorare il mistero dell’esistenza, senza ridursi a una semplice celebrazione del dolore, ma aprendoci alla totalità della realtà. Anche nei momenti più bui, il fascino del tragico ci ricorda che
c’è spazio per la verità, la bellezza e qualcosa di altro. “Bisogna avere il caos dentro di sé per generare una stella danzante”, scriveva Nietzsche.
“Come sarebbe uno Stato unico europeo?”
Il neo-eletto presidente americano Donald Trump minaccia ormai da tempo di imporre nuovi dazi sull’Unione Europea e di uscire dalla NATO, oltre ad interferire politicamente con i singoli paesi europei grazie ai potenti strumenti posseduti da Elon Musk. Questa nuova ostilità americana nei confronti dell’Europa apre le porte a una possibile rottura dell’alleanza atlantica, che fino a poco tempo fa sembrava inestirpabile.
In caso di completo distaccamento dagli USA, per l’Europa ci sono diversi scenari: quello più plausibile vedrebbe l’Unione Europea rimanere esattamente così com’è, cioè un organo di regolamentazione e controllo che lascia la sovranità ai singoli membri pur vincolandoli su alcuni aspetti; uno scenario più drastico potrebbe invece risultare nel disfacimento dell’Unione Europea, con ogni Stato che agisce singolarmente per conto proprio; oppure, in uno scenario più distopico, gli stati membri potrebbero decidere di unirsi in un vero e proprio Stato unico europeo.
Uno Stato unico europeo sembra l’unica soluzione per un’Europa che, a causa della sua burocrazia e frammentazione, è destinata sempre di più a essere irrilevante nel prossimo ordine mondiale, fino a essere schiacciata dallo scontro tra USA e Cina. Perciò c’è la necessità di un cambiamento radicale che possa affermare l’Europa come potenza a sé stante, indipendente dagli USA, e che possa agire secondo i propri interessi.
Ma come sarebbe uno Stato unico europeo?
Entrando nella fantapolitica, uno Stato unico europeo comprenderebbe sicuramente meno membri rispetto all’attuale Unione Europea. Infatti, ad unirsi in un’unica nazione sarebbero solo i paesi più influenti, quindi Francia, Germania, Italia e Spagna, i quali potrebbero aprire le porte anche a paesi come il Belgio, i Paesi Bassi o il Portogallo, tutti paesi che hanno assunto un ruolo centrale nella fondazione dell’UE e che quindi condividono un forte sentimento europeo. Dunque, si passerebbe dai 27 stati membri dell’attuale UE a un massimo di 7 o 8 per il nuovo ipotetico Stato europeo. La riduzione drastica dei membri è necessaria in quanto attualmente l’UE è caratterizzata da paesi molto diversi tra loro e a volte anche in competizione tra loro. In particolare, i paesi dei Balcani e del Mar Baltico, i quali oggi fanno parte dell’Unione Europea, alimenterebbero ulteriormente l’instabilità politica e le differenze culturali già presenti in un’eventuale unione tra Francia, Germania, Italia e Spagna. Infatti, la difficoltà nella realizzazione di uno Stato unico europeo non consiste tanto nell’organizzazione della politica e delle istituzioni quanto nella creazione di un’identità europea, in modo che un tedesco possa accettare che le sue tasse vengano investite in Italia, o che uno spagnolo possa partire a combattere per difendere il territorio francese, e viceversa.
Superate le differenze culturali, l’Europa potrebbe trasformarsi in una sorta di “Stati Uniti d’Europa”, passando da confederazione a federazione, passaggio che consentirebbe comunque alle singole istituzioni locali di mantenere una buona parte del potere. Quindi, prendendo come modello gli Stati Uniti d’America, ci sarebbe un’autorità a livello locale, che agisce nei campi dell’istruzione, della sanità, dell’ordine pubblico e delle infrastrutture; e un’autorità a livello federale che si occuperebbe di difesa, politica estera ed economia. Ma le differenze di lingua, cultura e storia sono ciò che impediscono all’Europa di unirsi in una federazione sul modello statunitense, il quale comprende stati di stessa lingua, stessa cultura e stessa storia, rendendo possibile un’identità americana.
Ma la diversità dei paesi europei potrebbe diventare un fattore positivo se sfruttato adeguatamente. Uno Stato unico europeo, infatti, avrebbe la possibilità di diventare la prima nazione ufficialmente poliglotta, grazie alla realizzazione di un sistema scolastico unico basato sullo studio delle lingue europee, abbattendo la barriera linguistica non con l’istituzione di una singola lingua ufficiale ma bensì istruendo la popolazione a
poter comunicare in più lingue. A questo programma scolastico potrebbe essere aggiunto un servizio di scambio culturale tra paesi, che permetterebbe agli studenti europei di conoscere e approfondire le culture degli altri paesi europei, rafforzando l’unione tra i popoli degli Stati membri.
Oltre all’istruzione, una nuova federazione europea dovrebbe puntare a rafforzare i principi dell’UE, cioè la coesione economica, territoriale e sociale tra i paesi, che da sempre sono identificativi dell’Unione Europea. Per di più, ci sarebbe l’occasione di affermare l’Europa come culla della civiltà, promotrice della democrazia, dei diritti civili e della società aperta, utilizzando questi valori come fondamenti per un’identità europea. Già con la realizzazione stessa di uno Stato unico europeo l’Europa sarebbe pioniera in questo, in quanto si assisterebbe al primo caso di una nazione nata in queste condizioni, senza essere passata per rivoluzioni, guerre o eventi traumatici ma solo per diplomazia e accordi tra Stati.
L’idea degli “Stati Uniti d’Europa” circola già dalla seconda metà del 1800, grazie a figure come Victor Hugo (il quale fu il primo a coniarne il termine stesso), Giuseppe Garibaldi e John Stuart Mill. Ma il concetto di un’Europa unita iniziò a prendere seriamente piede dopo le due tragiche guerre mondiali del ‘900, che grazie a promotori come Winston Churchill e Charles de Gaulle si concretizzò prima nel 1957 con la nascita della Comunità Economica Europea (CEE) e poi, a seguito di numerosi trattati e colloqui, nel 1993 con il Trattato di Maastricht che sanciva la nascita dell’Unione Europea (UE).
In questo senso, potremmo considerarci ancora nel mezzo del processo di unificazione dell’Europa, partito nel 1957 e che dovrebbe finire con la creazione degli Stati Uniti d’Europa. Infatti, la nascita dell’attuale Unione Europea fu preceduta da numerosi trattati che sancivano principalmente intese economiche, fino ad arrivare gradualmente a un’unione territoriale con l’Accordo di Schengen, e ancora poi alla creazione di un Parlamento Europeo, di un Consiglio dell’Unione Europea, una Corte di Giustizia Europea e una Banca Centrale Europea. A questo proposito, i primi passi per uno Stato unico europeo potrebbero essere caratterizzati da diversi accordi tra più paesi, proprio come accadde nel secolo scorso, iniziando con singoli trattati fino ad arrivare a decisioni comuni in politica estera. In questo modo si rafforzerebbe in modo graduale un potere europeo, senza necessariamente istituire un nuovo stato, ma creando nell’immediato un’unione che possa agire come singola entità verso un obiettivo comune. E così come fummo i primi a creare un’unione politica ed economica basata sulla pace e sulla democrazia, potremmo essere i primi a creare una federazione multiculturale e multilingue.
Il 10 dicembre di 76 anni fa veniva ratificata la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo a Parigi. Dopo così tanto tempo, così tante discussioni intorno ad essa e generazioni di studenti che l’hanno studiata dovrebbe essere banale ogni testo che ancora ne parli. Non è così.
Il mondo del 2024, quasi 2025, chissà come se lo sarebbe immaginato uno dei 9 membri della Commissione per i Diritti Umani che scrisse la Dichiarazione. Magari Alexander Bogomolov, membro della commissione per l’USSR e membro della classe diplomatica e intellettuale sovietica, si immaginava un mondo che guidato dal progresso delle idee, dove le popolazioni, liberatesi gradualmente dal capitalismo, si riconoscessero appieno nell’internazionalismo predicato da Marx. Invece nella testa di Eleanor Roosevelt, segretaria della commissione ed ex first-lady degli USA, forse puntava più sul progresso tecnologico e si immaginava umani che viaggiavano tra i pianeti, macchine volanti, case intelligenti o medicine rivoluzionarie.
La generazione del dopoguerra guardava con grande speranza al futuro davanti a sé e credo davvero sperassero che quella che era solo una dichiarazioni d’intenti sarebbe davvero diventata la norma un giorno, avvicinandoci di anno in anno. Eppure ora non siamo mai stati così lontani.
Ad Aprile usciva il rapporto 2023-2024 di Amnesty International che Agnés Callamard, segretaria dell’ONG, commentava proprio affermando: “Nel 2023 abbiamo avuto la conferma che molti potenti stati stanno abbandonando i valori costitutivi di umanità e universalità al centro della Dichiarazione universale dei diritti umani”. Nel rapporto si riscontrano gravissime violazioni dei diritti umani nei conflitti, primo tra tutti il genocidio del popolo palestinese per mano d’Israele, ma anche in Ucraina, Myanmar, Sudan ed Etiopia. Si denuncia una regressione della democrazia generale, il fallimento del sistema di diritto internazionale, l’uso di spyware e sorveglianza di massa in tutto il mondo, anche negli stati dell’Unione Europea, con le lobby BigTech che si oppongono strenuamente anche alla più minima e basilare regolamentazione, e infine giunge all’inazione dei governi che, non ascoltando le voci che dal basso chiedono per proteggere i diritti umani, usano il loro potere per dividere e mettere l’uno contro l’altro i cittadini del mondo.
E senza dover aspettare il rapporto del prossimo anno, possiamo scorrere il feed delle notizie e prevedere che difficilmente avrà miglioramenti:
12.12.2024: “Centrato un mercato pieno di persone: ennesimo crimine di guerra in Sudan”
12.12.2024: “Libano: i raid aerei israeliani siano indagati crimini di guerra”
11.12.2024: “La Fifa assegna i mondiali 2034 all’Arabia Saudita: “Gravi rischi per i diritti umani”
11.12.2024: “Iran: “La nuova legge sul velo obbligatorio rafforza l’oppressione contro donne e ragazze”
5.12.2024: “Israele sta commettendo genocidio contro la popolazione palestinese a Gaza”
28.11.2024: “Manifestazione del 5 ottobre a Roma: gravi violazioni dei diritti umani”
26.11.2024: “Cop29: l’obiettivo di finanziamento peggiorerà le ineguaglianze e violerà i diritti umani”
Anche altre fonti internazionali come il CIR (Centre for Information Resilience) e Bellingcat fanno del loro lavoro un costante allarme verso le gravi e numerose violazioni dei diritti umani sempre più numerose nel mondo. Un lavoro certosino di documentazione e ricerca, che però viene accolto con disarmante silenzio.
Tutto ciò per dire che, non si può smettere di fare ricerca e denunciare tutte queste atrocità, bisogna anzi continuare ed alzare sempre di più la voce, ma le organizzazioni internazionali e i governi dovrebbero tornare ad ascoltare. Per un futuro paradossalmente passato, in cui si scrivevano parole meravigliose, che permetteva di guardare al futuro con speranza e curiosità. Perché ricordiamoci sempre che:
“Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti.
Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza.”
Art.1 Dichiarazione Universale dei Diritti Umani
Se ci si trovasse per caso a sfogliare un libro di storia inglese, e si volesse leggere di uno sbarco di successo, si dovrebbe guardare molto indietro. La “motherland” risulta inviolata da ormai quasi 1000 anni, e non certo per mancanza di tentativi; ogni flotta che abbia mai tentato di sbarcare in Inghilterra è stata inevitabilmente sconfitta dalla Royal Navy.
L’ultimo uomo a riuscire in questa impresa apparentemente impossibile fu Guglielmo II di Normandia, divenuto noto successivamente con il soprannome “il Conquistatore”. Come spesso accade nella storia, all’origine di questo conflitto ne giace un altro. All’inizio del XI secolo infatti i danesi invasero l'Inghilterra, e l’allora 12enne Edoardo I fu costretto a fuggire in Normandia ospite del duca, parente della madre. Nei 25 anni di esilio Edoardo divenne il tutore di Guglielmo, a seguito della morte del padre di questo durante una crociata. Edoardo riuscì poi a sedere sul trono che gli spettava di diritto. Alla sua morte si scatenò però un conflitto su due fronti che avrebbe completamente stravolto l’Inghilterra.
Infatti subito dopo la dipartita di Edoardo la mancanza di un erede diretto portò il trono nelle mani di un suo abilissimo, ma molto spregiudicato, consigliere: Harold Godwinson, conte di Wessex e di Herford. La dubbia legittimità del suo diritto al trono portò due sovrani stranieri a contestarne l’autorità e a tentare di conquistarlo per sé con le armi.
Il primo a raggiungere le coste dell'Inghilterra fu Harald III, leggendario avventuriero vichingo e re di Norvegia; la sua pretesa si basava su un accordo stipulato nel 1038 tra il re norvegese e inglese secondo cui, se uno dei due fosse morto, l'altro avrebbe ereditato le sue terre. Dopo aver raccolto le proprie truppe Harald iniziò una serie di incursioni di successo che lo portarono anche ad ottenere la resa di York, importante città dell’Inghilterra Settentrionale. Harold si era contemporaneamente mosso verso nord con il suo esercito e il 25 settembre aveva raggiunto le forze norvegesi soprendendole a Stamford Bridge. Le truppe inglesi erano più numerose e meglio corazzate e, nonostante il tempo guadagnato grazie alla resistenza disperata di un singolo soldato norvegese sul ponte, schiacciarono facilmente l’esercito di Harald, che perì negli scontri portando i suoi uomini alla fuga.
Guglielmo aveva intanto raccolto le proprie truppe ed organizzato una flotta in Normandia, raggiungendo così la costa sud dell’Inghilterra il 29 settembre ed occupando e fortificando la città di Hastings. L’arrivo dei normanni costrinse lo stremato esercito di Harold ad una marcia forzata verso sud che li portò ad incontrare le truppe di Guglielmo il 14 ottobre nella pianura di Telham Hill.
Le truppe sassoni erano schierate strettamente sul versante di una collina risultando così impervie alle cariche di fanteria normanna. Un’abile finta fuga convinse gli inglesi ad inseguire gli avversari, rompendo la formazione e permettendo alla cavalleria Normanna di accerchiarli e sconfiggerli. Durante il resto degli scontri rimase ucciso anche il re Aroldo, ponendo così definitivamente fine al conflitto.
Guglielmo, appena asceso al trono, si trovò a dover implementare delle misure per affrontare l’alto rischio di rivolta; innanzitutto indette un censimento, il primo completo della storia inglese, chiamato "Doomsday Book”, successivamente fu il primo ad indire un coprifuoco per indebolire possibili movimenti cospiratorii.
La più grande e importante novità del regno del “conquistatore” fu la quasi totale sostituzione della nobiltà inglese con aristocrazia di origine normanna, e quindi di lingua francese. L’avvento di questa nuova classe dominante ebbe un effetto peculiare sulla storia linguistica inglese: tutti i termini tipici di uno stile di vita più agiato, per esempio i nomi dei tagli di carne (beef, mutton, pork), sono di origine francese mentre invece i nomi più “comuni” di origine sassone, si pensi a quelli degli animali da allevamento (cow, pig, sheep).
La storia di un’idea fin troppo innovativa e il racconto di un tipo di politica che sembra ormai perduto.
«Non siamo stati né noi né voi, compagni francesi, a coniare il termine di “eurocomunismo” con riferimento particolare alle posizioni su cui convergono i nostri partiti. Ma il fatto stesso che questo termine circoli così largamente sulla stampa internazionale e sollevi in campi diversi tante speranze e tanti interrogativi è un chiaro segno dell'interesse con cui si guarda ai nostri due partiti, alle loro posizioni e iniziative nella vita politica interna e alla visione che essi hanno dei problemi del cammino verso il socialismo e dei peculiari caratteri che esso deve avere in paesi come i nostri.»
Parigi 1976. In occasione di un comizio congiunto del Partito Comunista Italiano con il Partito Comunista Francese, Enrico Berlinguer pronunciò queste parole. Era su una tribuna dove, simbolicamente, erano state affiancate la bandiera dell'Italia e quella della Francia. Con il termine "Eurocomunismo", Berlinguer definì il progetto visionario promosso dai tre partiti comunisti con il maggiore radicamento sociale in Europa: il PCI, PCF e PCE (rispettivamente Partito Comunista Italiano, Parti Communiste Français e Partido Comunista de España), i quali si impegnavano a proporre una diversa applicazione del marxismo, basata sulla partecipazione cosciente delle masse.
Insieme a Georges Marchais e Santiago Carrillo Berlinguer comprese che per poter sfruttare in modo adeguato il loro grande consenso popolare era necessario attuare profonde modifiche ideologiche che avrebbero inevitabilmente provocato una rottura con il Partito Comunista dell’URSS, il quale finanziava e influenzava tutti i partiti comunisti d’Europa. Ovviamente, il PCUS non vedeva di buon occhio questa nuova forma di comunismo per i suoi ideali troppo moderati e non in linea con il leninismo.
In particolare, l’Eurocomunismo indica una «via europea» al socialismo, cosciente della società capitalistica contemporanea e caratterizzata da un forte sentimento democratico. Talmente forte che Berlinguer, in occasione delle celebrazioni del 60º anniversario della Rivoluzione d'ottobre definì la democrazia «un valore storicamente universale». Pronunciò queste parole rivoluzionarie al Cremlino, dove il potere era nelle mani di un sistema monopartitico.
Non a caso, l'Eurocomunismo era la base del «compromesso storico», cioè il tentativo del Partito Comunista Italiano di trovare un accordo politico con la Democrazia Cristiana, al fine di formare un governo di collaborazione e di intesa tra le forze popolari di ispirazione marxiste e le forze popolari di ispirazione cattolica. Questa idea promossa con Aldo Moro fu fortemente ostacolata sin dall'inizio, in quanto implicava che un partito di stretti legami con l’Unione Sovietica governasse in piena Guerra Fredda un paese come l’Italia, sottomesso agli USA e membro NATO. Il forte dissenso dell'estrema sinistra verso il compromesso storico comportò il rapimento del Presidente Moro nel 1978 da parte di un commando delle Brigate Rosse, i quali lo assassinarono il 9 Maggio dello stesso anno, dopo cinquantacinque giorni di prigionia.
L’ambizione del compromesso storico scomparve quel 9 Maggio, e questo pezzo di storia del nostro paese suscita a mio avviso una riflessione: ci si chiede spesso come mai negli ultimi anni la partecipazione politica e l’engagement siano in continuo calo (soprattutto tra i giovani), e ci si ritrova continuamente ad alternare forze politiche incompetenti e scoraggianti; mi chiedo quindi se questo declino possa essere attribuito all’assenza nella politica italiana contemporanea di figure politiche carismatiche, oneste e che abbiano realmente a cuore le questioni del paese. Figure come Moro, Berlinguer, Pertini o Matteotti: uomini dai quali si poteva liberamente dire che vivessero “per” la politica e non “di” politica.
La storia dell'intelligenza artificiale ha avuto inizio quasi settant'anni fa. In quell'anno, il brano Che bambola di Fred Buscaglione conquistava le classifiche italiane, Grace Kelly e Raniero di Monaco si univano in matrimonio, la trasmissione televisiva a quiz Lascia o raddoppia? condotta da Mike Bongiorno diventava un grande successo della giovane televisione italiana e il poeta nicaraguense Rigoberto López Pérez attentava alla vita del dittatore Anastasio Somoza García, che morirà una settimana dopo.
Oggi, l'intelligenza artificiale permea ogni aspetto della nostra vita quotidiana: è utilizzata in ambito medico, ci aiuta a trovare l'abbinamento ideale su Tinder, ChatGPT risponde alle nostre domande e offre vantaggi strategici cruciali nei contesti bellici. Sebbene i benefici siano evidenti, è fondamentale avviare un dibattito sui rischi connessi a questa tecnologia. Ma come si possono identificare questi rischi? La chiave sta nel riflettere sul ruolo che vogliamo che l'intelligenza artificiale abbia nella nostra società.
Per evitare di cadere nella consueta retorica del “l’intelligenza artificiale ruberà il lavoro”, che conduce a una demonizzazione indiscriminata della tecnologia, dobbiamo adottare un approccio più astratto e chiederci quale tipo di strumento vogliamo che l’IA sia nelle nostre vite.
A mio avviso, l’aspetto più stimolante dell'IA è vederla come un acceleratore della crescita intellettuale, culturale e sociale delle persone, in grado di valorizzare l’essere umano anziché sostituirlo. Ma come possiamo verificare se questa visione si realizza?
È cruciale identificare quali valori riteniamo fondamentali e confrontarli con l’intelligenza artificiale di oggi per stabilire come regolarne l’utilizzo in futuro.
• Inclusione: L'inclusione è diventata un aspetto imprescindibile. Anni di disuguaglianza e stigmatizzazione hanno reso evidente l'importanza di proteggere le categorie più vulnerabili. Potrebbe l’intelligenza artificiale condurci a una regressione? Se i dati utilizzati per addestrare l’AI non sono equi, il sistema potrebbe discriminare alcuni gruppi. Inoltre, una digitalizzazione eccessiva potrebbe escludere certe sezioni della società.
• Libertà: In una democrazia, la libertà rappresenta un principio fondamentale. Le tecniche di machine learning, spesso poco chiare, complicano la comprensione del modo in cui le macchine prendono decisioni. Questo può danneggiare la fiducia tra gli esseri umani e l’AI, ostacolando la collaborazione. Pensiamo all'uso di algoritmi in ambito elettorale, che possono manipolare le nostre scelte e indirizzarci verso determinate ideologie.
• Creatività e istruzione: La nostra capacità di esprimere creatività è ciò che ci distingue dalle macchine. È essenziale proteggere il nostro processo di apprendimento e le risorse che ci permettono di esprimerci. La capacità dell'AI di generare testi e immagini solleva interrogativi riguardo agli effetti sui sistemi educativi e sulle professioni creative. Se gli studenti fanno affidamento su strumenti come ChatGPT per completare i loro compiti, ci si interroga su come ciò possa influenzare la loro capacità di innovare.
• Informazione: La libertà di accesso alla conoscenza è essenziale per un pensiero critico. L’AI ha la capacità di produrre contenuti falsi o fuorvianti. In assenza di un controllo adeguato, la diffusione di tali informazioni può minare la fiducia nei fatti, sia a livello locale che globale.
• Benessere: È fondamentale garantire che l’AI non comprometta la nostra sicurezza fisica e mentale, né il nostro benessere generale. Gli algoritmi dei social media, progettati per tenerci incollati allo schermo, possono avere un impatto negativo sulla nostra salute.
Questa lista potrebbe essere ampliata includendo ulteriori valori importanti per ciascuno di noi. Quali misure possiamo adottare affinché la tecnologia non li danneggi? È indispensabile implementare politiche statali coerenti, basate su principi etici e non su interessi economici o di potere da parte di grandi aziende tecnologiche.
Ma a livello individuale, possiamo fare qualcosa? Ognuno di noi ha l'opportunità di interagire con la tecnologia in modo consapevole, responsabile e rispettoso. Non dobbiamo accettare passivamente l’AI, ma sfruttarla per arricchire le nostre conoscenze, esplorare nuove idee, interagire con gli altri e collaborare. È essenziale integrare nella nostra vita quotidiana il principio di utilizzare la tecnologia per migliorare noi stessi, creando così un futuro in cui l’AI supporti i valori a noi cari.
Il 29 ottobre scorso la Spagna è stata scossa da una tragedia immane: un alluvione che ha spazzato via le vite di 226 persone (e di 13 dispersi) e distrutto case, negozi, macchine, e i sogni di chi è stato costretto a guardare impotente la furia di una natura sempre più avvelenata dagli esseri umani. O per meglio dire, dall’assoluta minoranza degli esseri umani.
Ma oltre al discorso sul cambiamento climatico, sempre più ignorato e lasciato ai margini, questa deve essere un’occasione per riflettere su una decisione politica. Una decisione che ha mostrato tutta la sua vulnerabilità e inefficacia in questo massacro. Una decisione che sta arrivando anche in Italia.
La Spagna ha sofferto lo stivale di una dittatura fascista fino al 1975. Francisco Franco costrinse tutta la Spagna a diventare Castiglia, un centralismo talmente forzato e imposto che neanche i Borbone prima di lui si erano spinti a tanto. L’odio e la discriminazione verso coloro che non parlavano castigliano e verso le loro culture assunse una violenza che adesso è difficile immaginare passeggiando per le affollate e luminose strade di Barcellona o Bilbao. Quando finalmente il dittatore morì, la popolazioni represse ormai avevano inevitabilmente associato all’idea di stato, alla bandiera di Spagna, lo stivale dell’oppressore e non credevano più ad una Madrid che potesse essere loro amica, o nemmeno loro connazionale. Le bombe dell’ETA risuonarono ancora più forte dopo Franco. Tutto ciò portò ad una reazione dell’Assemblea Costituente drastica, assoluta e, purtroppo, eccessiva. Formata da 7 Padri Costituenti, di cui uno direttamente esponente delle minoranze basche e catalane e un altro del PCE (Partito Comunista Spagnolo) legato profondamente alla Catalogna (tanto che nel 1989 si unirà al PSC, partito socialista catalano), pone come priorità assoluta dello Stato il riconoscimento, la protezione e il diritto all’autonomia delle regioni dello Stato, che per sottolineare il concetto vengono chiamate “Comunità Autonome” (Art. 2-3 della Costituzione Spagnola).
Il successivo Articolo 143 tratta la legislazione delle Comunità, dichiarando la formulazione dei loro rispettivi Statuti e l’autogoverno. Autogoverno che comprenderà una lista di competenze (22 di preciso), ma con la possibilità di ampliamento a piacimento tramite le riforme dei propri Statuti, garantendo allo Stato solo le funzioni elencate nell’articolo 149 (32).
In seguito, nei vari governi spagnoli che si sono succeduti, i partiti regionali hanno sempre avuto un notevole peso, sbilanciato rispetto ai loro elettori, specialmente per fare da ago della bilancia tra maggioranze di destra e di sinistra e garantire la stabilità dei governi (per raggiungere la maggioranza assoluta, e quindi formare governi stabili, i partiti di massa di destra e sinistra hanno spesso dovuto fare affidamento ai piccoli partiti indipendentisti, che quindi fungevano da ago della bilancia e garanti della stabilità governativa perché se ritiravano la fiducia cadeva il governo). Stabilità che non viene garantita gratuitamente, ma pretendendo il mantenimento, se non il rafforzamento, del fortissimo regionalismo spagnolo. Sino ad arrivare al tentativo di secessione della Catalogna nel 2017 e all’attuale governo Sanchez III, che si regge su una sottilissima maggioranza garantita solo dalla forzata alleanza coi partiti indipendentisti baschi e catalani.
Ad oggi le comunità autonome hanno un’assemblea legislativa indipendente, sono rappresentate da 58 senatori (su 266), e hanno un organo esecutivo rappresentato da un presidente e un consiglio di governo. Controllano materie critiche come infrastrutture, educazione, sanità, ordine pubblico e parte del potere giudiziario tramite tribunali regionali.
E perché questo dovrebbe essere un problema? La decentralizzazione dei poteri dovrebbe essere efficace per riconoscere e colpire problemi locali con misure specifiche, che il lontano governo centrale difficilmente potrebbe notare e contrastare con la rapidità ed efficacia adatte. Il problema nasce quando questo processo, reso così radicale dalla storia di Spagna, è in mano ad una classe politica incapace di gestirlo.
Torniamo all’alluvione, alle case inondate, ai sogni spezzati. Ai morti.
Il 29 ottobre, già alle 7:36, l'AEMET, l’agenzia metereologica nazionale spagnola segnala l’allerta rossa per la regione di Valencia, ma quando l’alluvione, intorno alle 11:00, inizia ad abbattersi sui comuni di Utiel e Requena, facendo esondare il Rio Magro e spostandosi gradualmente dall’interiore verso la costa nessun cittadino aveva ricevuto alcun avviso dalle autorità della Comunità Autonoma, responsabile di diffondere l’allarme. Persino l’esondazione del bacino idrologico di Forata, ultima difesa dall’acqua dei comuni costieri, avvenuta verso le 19:00, non venne considerata sufficiente per lanciare l’allarme, e solo alle 20:12, quando ormai le inondazioni avevano raggiunto la costa, densamente abitata, il presidente della Comunitat Valenciana, Carlos Mazòn (PP), diramò l’allarme tramite messaggio d’emergenza sui cellulari dei cittadini.
Questo ritardo nell’avviso, purtroppo è stato solo il preludio del ritardo generale dell’intervento dello Stato (inteso sia come organo centrale che regionale). Infatti la Comunità Autonoma dichiara l’alluvione come emergenza di livello 2, quindi di sua competenza, con possibile aiuto del governo centrale, ma decidendo di tenerlo da parte. Mentre, da Madrid, il premier Sanchez (PSOE), decide di non aumentare il livello di allarme e perciò non assumere nelle sue mani, che rappresenterebbero quelle di tutta Spagna, la responsabilità di coordinare gli aiuti. Il fatto che lo Stato centrale si tenga, e venga tenuto, da parte impedisce la centralizzazione delle risorse di sua competenza: le forze armate, le risorse di altre regioni e le migliaia di volontari che da altre regioni arrivano nella Comunitat Valenciana.
Questa mancata coordinazione di aiuti e risorse ha creato gravissimi problemi nelle manovre di salvataggio, portando alla scarsità di mezzi e specialisti accorsi nei luoghi del disastro, che poterono raggiungere alcune località rimaste isolate solamente 72 ore dopo l’alluvione, quando era ormai praticamente disperata la ricerca di superstiti. Per giorni alcuni comuni sono rimasti senza acqua potabile, elettricità o connessione ad Internet e migliaia di sfollati senza rifugio dopo aver perso le loro case.
Un ritardo imperdonabile, motivato principalmente dalla paura di assumersi la responsabilità della propria debolezza e inadeguatezza da parte della Comunità Autonoma e di assumersi la difficoltà di coordinare gli aiuti di tutta Spagna da parte del governo centrale. Paura di fare brutta figura e perdere elettori, figlia di una situazione particolare: il governo centrale in mano al Partito Socialista e Operaio Spagnolo (centro-sinistra) e la Comunità Autonoma governata dal Partito Popolare (centro-destra), in un sistema partitico a strettissima competizione, con pochi punti percentuali a spostare l’ago della bilancia. Situazione che riempie di vuote accuse politiche un momento che sarebbe dovuto essere nel segno della solidarietà e del lutto nazionale.
Ora, l’Italia è il paese a più alto rischio idrogeologico di Europa, e una legge, fortemente voluta da questo governo e passata in Camera dei Deputati, autorizza le Regioni a richiedere al governo di amministrare 23 nuove materie, dalla sicurezza del lavoro all'istruzione, dal commercio estero all'energia, fino ai trasporti e alla valorizzazione dei beni culturali. E la protezione civile. Spostando l’ordinamento spaventosamente vicino alla situazione spagnola, in cui le emergenze e disastri naturali vengono usati a scopo politico, lasciando i cittadini da soli. In mezzo al fango.
Nel corso della sua opera Studi sull’Isteria, Freud descrisse un fenomeno curioso: la sua paziente era spaventata dalla sua tendenza a trasferire sulla persona del medico le rappresentazioni penose che emergevano dall’analisi. Infatti, questa – attraverso il metodo delle associazioni mentali – pare si accorgesse che alcune situazioni a lei precedentemente accadute si riproponessero nel rapporto che aveva con il neurologo tedesco durante le sedute. Allora il padre della psicoanalisi teorizzò uno dei più importanti concetti della sua scienza: il transfert. Ovvero, un fenomeno che consiste nell’attaccamento del paziente all’analista e che si manifesta o con amore e sentimenti positivi o con odio e sentimenti negativi; tale relazione si presenta, nei confronti dello psicologo, come una ripetizione del primitivo attaccamento al padre o alla madre. È, quindi, un processo utile alla consapevolezza del paziente di come i propri sviluppi infantili abbiano ripercussioni sull’individuo adulto. Ecco perché, durante l’analisi, la persona sente il bambino che è in sè emergere, e poi finire in contrasto con l’individuo adulto, così da riprodurre il conflitto tra conscio e inconscio, che, stavolta, sarà sotto gli occhi dell’analizzato, il quale potrà acquisire coscienza – con l’aiuto dell’analista – dei propri problemi irrisolti.
Nel corso del tempo molte variazioni di questo fenomeno psichico sono emerse, sostituendo la versione originaria di Freud o semplicemente ottimandola con modifiche. Un aspetto comune a tutte le successive revisioni è l’ambito sulle quali queste si siano focalizzate. Questo punto comune è proprio il rapporto che lega il paziente al medico, in modo tale che il processo di transfert funga da strumento attraverso cui compiere l’analisi. Di conseguenza si può affermare il carattere funzionale con cui il transfert è stato generalmente indicato.
Un aspetto che, invece, è bene porre in risalto è il vedere lo stesso processo psichico applicato alle relazioni umane. Strachey, uno psicologo inglese, osservò che, se il paziente proiettava le sue immagini primitive e ormai introiettate1 sull’analista, esso diventava come una qualsiasi persona incontrata dal paziente nella vita reale.
È perciò possibile ravvisare tale processo psichico ovunque, in qualsiasi rapporto interpersonale e non limitato a uno studio a quattro pareti.
Viene allora la questione principale: quale ruolo può avere esso nella società?
Da ciò che ho evidenziato precedentemente si può affermare che il transfert sia un rapporto di dipendenza in cui il nostro “essere bambino” si affida in tutto e per tutto, o almeno quasi, al medico, e dunque, estendendo il fenomeno alla quotidianità possiamo identificare il nostro affezionarci o distaccarci come un trasferimento del nostro rapporto con i genitori – a sua volta tradotto come una ricerca di sicurezza, dipendenza al fine di fronteggiare i pericoli della vita – a quella persona. È così dimostrato che quella sensazione di ammirazione, di appartenenza verso un individuo, un personaggio di una serie TV o di un film, un leader politico nient’altro è che la proiezione del proprio bisogno di sentirsi sicuri. Riporto alcuni passi di uno psicologo tedesco, Erich Fromm, il quale sostiene tale tesi:
«Anche l’adulto è debole e, al pari del bambino, è alla ricerca di qualcuno che lo faccia sentire deciso, sicuro, in salvo, ed è per tale ragione che desidera ed è proclive a venerare personaggi che sono, o che volentieri si prestano a essere considerati, salvatori e protettori anche se magari sono degli squilibrati». (da Grandezza e limiti del pensiero di Freud, Mondadori, Milano 1979)
Sia l’adulto che il bambino, afferma Fromm, vivono in una condizione di instabilità e di pericoli dai quali tentano di fuggire. Questo meccanismo di transfert, quindi, provoca dipendenza, poiché affida la propria autonomia a chi, all’apparenza, pare poter soddisfare i nostri bisogni facendoci sentire protetti. È chiaro come una persona non potrà mai svolgere questa mansione per nostro conto e, dunque, nemmeno potrà assicurarci la salvezza dai pericoli che la vita inevitabilmente ci pone davanti.
È necessario, obbligatorio, cardine prendere consapevolezza dell’esistenza di questo processo psichico che può rendere estranea a noi la sopravvivenza e la convivenza nel mondo conducendoci alla subordinazione. La conseguenza più grave di un simile attaccamento è che nel momento in cui si perde la figura di riferimento, si perde anche se stessi giungendo, così, a uno stato di estrema confusione e disorientamento.
1con questo termine Strachey si riferisce alle prime immagine che abbiamo dei nostri genitori
L’arma per rispondere a questa minaccia interna è il rendersi conto della presenza del transfert e dubi tare dell’ammirazione o dell’odio a priori verso una persona, nella maggior parte dei casi, ancora poco conosciuta.
10/07/2024
“Esistono tre modi efficaci di educare: con la paura,
con l’ambizione e con l’amore. Noi rinunciamo ai primi due.”
Rudolf Steiner
Non esiste un solo modo di fare scuola. Guardandomi intorno vedo molti studenti che soffrono, eppure nel corso della storia tante menti brillanti si sono dedicate alla pedagogia e all'insegnamento nel tentativo di educare meglio. Tra questi maestri, è secondo me degno di essere conosciuto Rudolf Steiner, un pedagogo tedesco che cercò di creare una nuova scuola, aperta a tutte le classi sociali, in cui l'individuo potesse formarsi e crescere libero.
Per la pedagogia steineriana (detta anche Waldorf), l'obiettivo è crescere degli individui liberi ma responsabili: non bisogna né abbandonare il bambino a se stesso né forzarlo a percorrere un sentiero prestabilito, bensì mostrargli quante più strade possibili lasciandogli la scelta di quale percorrere.
Questo avviene con un'educazione basata sull'esperienza diretta e la curiosità, che preferisce evitare aride nozioni e ore passate sui libri. Per esempio, nelle materie scientifiche (come fisica o chimica) invece di spiegare le varie leggi e nozioni, l'insegnante cerca di farle ricavare dagli studenti mediante esperimenti fatti in classe, in modo che la comprensione del fenomeno avvenga sempre dopo la sua osservazione.
Un altro modo di allenare le capacità creative del ragazzo avviene invece con l'arte. Mentre nel tradizionale percorso di studi l'arte ha un ruolo marginale, nelle scuole Waldorf vengono dedicate molte ore a pittura, scultura, cucito, teatro, musica o altre attività simili, facendo lavori via via più complicati nel corso degli anni (a 7 anni per esempio si realizzano porta-flauto a maglia, mentre a 17 anni si rilega un libro o si scolpisce il marmo). Steiner riteneva infatti che le scuole dovessero far crescere l'alunno anche da un punto di vista artistico, e mostrargli quanto potesse fare con le sue stesse mani.
Il rapporto tra studenti e docenti poi, è molto particolare. Specialmente nei primi anni, i ragazzi hanno principalmente a che fare con il “maestro di classe”: questi prende una classe in prima elementare e la porta avanti fino alla “dodicesima” (la nostra quarta liceo), lasciando via via spazio agli specifici maestri di materia col proseguire degli studi. Naturalmente già alle medie il maestro di classe insegna solo ciò su cui è abbastanza preparato, ma rimane pur sempre una figura di riferimento centrale: organizza le gite, coordina i suoi collaboratori, lavora alle recite ed è in stretto contatto con i genitori. I ragazzi quindi rimangono molto attaccati al loro maestro di classe, ma anche questi si lascia profondamente influenzare da loro: in questa filosofia, sono prima i bambini che insegnano qualcosa al maestro. Non si deve credere però che i maestri siano amiconi dei loro studenti: devono comunque rimanere al loro posto, sebbene senza chiudersi in una fortezza di autorità (non sono tanto distanti da quello che potrebbe essere un “terzo genitore”).
I maestri hanno anche il duro compito di motivare gli studenti. Mentre nelle nostre scuole ciò che sprona a studiare è quasi solo il voto (il programma è scandito da verifiche e interrogazioni, siamo premiati per una media alta e se il voto è insufficiente veniamo puniti con altre prove di recupero), la pedagogia Waldorf guarda con diffidenza questi strumenti.
Verifiche e interrogazioni sono quasi assenti: vengono introdotte solo nelle classi più grandi così da abituare i ragazzi alla scuola successiva, ma sempre mantenendo un ruolo marginale; infatti non ci sono voti e non c’è un registro. Per accertarsi che gli alunni non rimangano indietro quindi, i maestri li seguono molto da vicino (piuttosto che aspettare un compito insufficiente per intervenire). Questo approccio è aiutato da un modo diverso di affrontare il programma nel corso dell’anno: in periodi di 3 o 4 settimane chiamati “epoche”, le prime due ore vengono dedicate alla stessa materia. Ciò aiuta soprattutto gli studenti in difficoltà con quella disciplina, che possono dedicarcisi senza essere appesantiti dal resto del programma, ma permette anche a chi è già interessato di approfondirla e di godersela con tranquillità. L’immersione è anche favorita da un’assenza quasi totale di libri scolastici: ogni alunno lavora al suo quaderno per ogni materia, creando così il suo personale compendio di quella disciplina, mentre i maestri forniscono del materiale scritto che è stato raccolto (o creato) da loro appositamente per quella classe. Nonostante distribuzione di orari diversi, attività extra, assenza di libri e metodi molto differenti, i ragazzi seguono comunque il "programma" scolastico, perciò non si deve pensare che questi studenti non siano al pari delle altre scuole sotto questo punto di vista. Infatti tra quelli che lasciano le scuole Waldorf alle medie, quasi nessuno riscontra difficoltà a stare al passo con il programma delle scuole pubbliche superiori, forse sono anzi più avvantaggiati in certi ambiti per via del loro approccio più propositivo e la loro capacità espressiva.
Tra le varie pedagogie alternative che ho incontrato, questa è quella che più mi sta a cuore. Restituire vita al sapere, accogliere i ragazzi e mostrar loro il bello del mondo; sono convinto che una migliore educazione migliorerebbe la nostra società.
In tutte le cose, per quanto a primo impatto antipatiche, ci deve essere qualcosa che ci può affascinare: una buona educazione deve mostrarcelo.
10/07/2024
La democrazia moderna si fonda saldamente sul diritto al voto, un pilastro cruciale per garantire la rappresentanza e promuovere il cambiamento sociale. Tuttavia, recentemente, alle elezioni europee, meno della metà degli elettori ha partecipato, segnando un triste record nella storia repubblicana. Questo solleva una domanda essenziale: quali sono le conseguenze quando il popolo non vota?
Il voto non è solo un atto pragmatico per determinare la composizione delle istituzioni politiche, ma anche un mezzo per proteggere i diritti individuali e influenzare le decisioni pubbliche. John Stuart Mill, filosofo del XIX secolo, sosteneva che "la parte più importante del bene generale è il buon governo, e particolarmente il buon governo democratico". Secondo Mill, la partecipazione politica informata è essenziale per garantire che le politiche pubbliche rispondano ai bisogni e alle volontà della popolazione, promuovendo così una giustizia sociale più equa.
Nel dibattito filosofico, però, alcuni autori hanno sollevato dubbi sulla capacità universale dei cittadini di partecipare in modo informato. Platone, ad esempio, suggeriva che non tutti possiedono la saggezza necessaria per prendere decisioni politiche informate, proponendo un governo guidato da filosofi per preservare la stabilità e l'efficacia governativa al di là degli interessi particolari.
Oggi, ci troviamo di fronte a una bassa affluenza alle elezioni, alimentata dalla crescente disillusione politica, dalla mancanza di rappresentanza significativa e dalle disparità socio-economiche che limitano l'accesso al voto, come nel caso del voto fuori sede garantito solo agli studenti e non ai lavoratori. Secondo Jean-Jacques Rousseau, "l'amore per la patria si affievolisce, e la politica dovrebbe limitarsi a gestire le tasse, la difesa e la sicurezza".
Immaginando un futuro in cui la partecipazione politica continua a diminuire, c'è il rischio concreto che il diritto al voto venga minato. Secondo Joseph Schumpeter, economista del XX secolo, la democrazia moderna funziona attraverso la rappresentanza elettorale: i cittadini non decidono direttamente ogni aspetto politico, ma eleggono periodicamente i loro rappresentanti. Tuttavia, se sempre meno persone partecipano attivamente alle elezioni e al dibattito politico, la democrazia potrebbe diventare inefficace. Schumpeter avvertiva che questo scenario potrebbe aprire la strada a forme di governo meno rappresentative, o addirittura a regimi autoritari, dove i cittadini diventano spettatori passivi anziché attori principali del processo politico.
In conclusione, nonostante le valide critiche filosofiche alla partecipazione universale, l'importanza del voto nel contesto democratico rimane imprescindibile. La bassa affluenza alle elezioni non è solo un segno di disinteresse, ma una sfida esistenziale per la nostra democrazia. Affrontare questa sfida richiede un impegno collettivo per educare, motivare e superare le barriere che impediscono ai cittadini di esercitare il loro diritto democratico. Solo attraverso una partecipazione politica informata e responsabile possiamo garantire un futuro in cui il popolo continua a essere il vero sovrano delle proprie decisioni.
10/07/2024
La cultura dello stupro nel mondo latino
LA CULTURA DELLO STUPRO
Con cultura dello stupro si fa riferimento ad un sistema sociale e culturale in cui la violenza sessuale viene NORMALIZZATA e GIUSTIFICATA. In questo sistema, sia gli uomini che le donne assumono che la violenza sessuale sia INEVITABILE.
Il termine nasce dagli studi di genere e dalla letteratura femminista e postmoderna. La ‘’rape culture’’ in inglese è infatti un concetto coniato a partire dal 1970 nell’area della sociologia.
LA STORIA DI APOLLO E DAFNE, DAL MITO AI DATI
Prima di parlare di dati e statistiche e spostarci sul problema attuale è però necessario capire come questo possa essere collegato a Dafne ed al celebre mito latino. Per farlo, è conveniente riassumerne la trama:
Nella versione attribuita ad Ovidio, una delle più note, ci viene raccontato di Dafne come di una ninfa dall’aspetto SELVAGGIO, devota alla dea Diana (ricordata per la sua devozione alla verginità. In nome di Amore aveva fatto voto di castità, amava la solitudine ed era nemica dei banchetti.) e protettiva nei confronti della sua verginità. Proprio per questo motivo vuole vivere come Diana, rimanendo ninfa della selva, lontana dai piaceri sessuali.
Uno screzio fra Apollo e Cupido fa sì che il primo si innamori perdutamente di Dafne, bramandone il corpo e sognando di unirsi a lei. Quest’ultima viene colpita da una freccia che porta l’effetto opposto, ed ecco che al potere FACIT (che induce all’amore) si contrappone quello FUGIT, che porta la Ninfa a scappare senza sosta rifiutando aspramente di assecondare il desiderio del dio Apollo. La storia viene ricordata come quella dell’amore non corrisposto, di fatti il tema principale è quello di un Dio innamorato perdutamente di una Ninfa che ha ormai DECISO un altro destino per lei.
Ma come possiamo trovare una correlazione fra MITO e CULTURA LATINA? I miti nel mondo antico erano utilizzati come portatori di virtù e valori, intrinsechi nella loro cultura. Basti pensare a Odisseo, ricordato come l’uomo poliedrico dalle mille qualità, esemplare nella sua eroicità. Per questo motivo quando parliamo di storie latine è bene ricordare che per quanto possano essere avvolte nell’atmosfera magica e mitica, esse nascondono un ‘’fondo di verità’’ e ci aprono ad uno scorcio sulle idee che componevano il pensare latino.
LA STUPRO NELL’ANTICHITÀ E ORA - UN PARELLELISMO
La violenza nel mondo latino era vastamente diffusa e accettata: per questo ho deciso di parlare di ‘’cultura dello stupro’’. A onor del vero, con il termine stuprum, si intendeva un concetto molto diverso dall’attuale stupro. Lo stuprum, nel diritto romano, è l'unione carnale temporanea fra un uomo e una donna che non hanno vincoli matrimoniali fra loro.
La violenza sessuale per come la intendiamo noi era invece normalizzata per certi versi, soprattutto quando si parlava di donne libertine, esterne al matrimonio. Ecco perchè sono numerosi i casi di Dei che hanno rapporti sessuali con ninfe, stupri da parte di Giove, documentazioni di violenze avvenute a seguito di guerre ai danni del popolo conquistato.
Proviamo ad azzardare ora un confronto direttamente con il mito di Dafne ed approfittiamone per discutere di alcuni termini utilizzati dai movimenti femministi moderni per parlare di stupro e violenza.
● LA COLPEVOLIZZAZIONE DELLA VITTIMA
Con victim blaming si identifica quel comportamento che porta a spostare il focus dal comportamento dell’aggressore a quello della vittima. Mina la credibilità della vittima, come a dare per scontato che ‘’qualcosa di male lo deve pur aver fatto per meritarsi questa violenza’’. Anche se non esplicitamente, tutti i commenti e tutte le dinamiche (intrinseche nella nostra cultura) che mirano a ipotizzare una colpa della vittima quando si parla di stupro, danneggiano la sua causa e alimentano la cultura dello stupro.
In Italia per esempio i dati parlano chiaro: I dati Istat del 2019 riportano che il 39,3% della popolazione pensa che una donna sarebbe in grado di sottrarsi a un rapporto sessuale se davvero non lo volesse, il 23,9% è convinto che le donne possano provocare la violenza sessuale con il loro modo di vestire. Il 15,1%, ritiene che una donna che subisce violenza sessuale quando è ubriaca o sotto l’effetto di droghe sia almeno in parte responsabile dell’accaduto. Il 7,2% sostiene che di fronte a una proposta sessuale le donne spesso dicono “no” ma in realtà intendono “sì” e il 6,2% dichiara che “le donne serie” non vengono violentate.
Questi dati mettono in luce le credenze alla base della nostra società e ci fanno capire quanto intrinsechi siano certi modi di pensare.
E forse quella di spostare l’attenzione dal commettitore della violenza è una tendenza tutta umana, forse derivante dalla società antica: di fatti non è nuova questa visione (che ora potremmo definire distorta secondo i nostri standard morali) delle cose, che troviamo anche nella letteratura latina.
Ricordando Tito Livio, che nei suoi Annales vuole riscrivere la storia romana (citando anche quella più antica e di conseguenza avvolta nel mito), possiamo parlare di Lucrezia, moglie di Collatino. La celebre matrona romana arriverà ad uccidersi, in stile perfettamente didoniano, come ci racconta il poeta, perché sporca di un peccato
imperdonabile. Essere VITTIMA di uno stupro. Sebbene il marito cerchi di consolarla e confortarla circa l’accaduto, Lucrezia compirà l’estremo gesto e verrà ricordata come un’eroina. Essere vittima di uno stupro ti rendeva macchiata di un peccato imperdonabile, e questo era un VALORE imprescindibile che i romani (e Tito Livio!) volevano trasmettere al popolo latino.
● IL MANUALE ANTI-STUPRO
Le donne, in una società patriarcale, vengono cresciute pensando che ci sia un manuale anti-stupro da seguire che le salverà dall’essere vittima di violenza.
I dati però, ci mostrano come tutto questo sia falso e solo l’ennesima credenza figlia di una cultura che nella violenza ci è immersa. Non camminare sola per strada, non indossare abiti corti o in cui mostri la pelle, non bere, non andare alle feste: la lista è infinita. E inutile.
La verità è che le donne vengono stuprate anche quando sono sobrie, in casa loro, nelle case dei loro familiari e fidanzati, a lavoro o quando sono coperte dai piedi fino al collo. La spiegazione è semplice: non c’è nulla, nessun comportamento o tattica che una donna possa mettere in atto per difendersi o evitare uno stupro. Perchè? Perchè la violenza sessuale è causata unicamente dalla decisione della persona che decide di commetterla.
Anche qua ci è concesso tentare un altro azzardo, volgere nuovamente lo sguardo su Dafne. La ninfa definita SELVAGGIA, dedita completamente alla verginità e volta a proteggerla a costo della vita, verrà bramata e lodata da Apollo anche dopo la sua morte. Anche da semplice foglia di alloro.
É bello vedere in questo un messaggio molto romantico e passionale: un amore che non muore e che continua anche oltre al corpo. Forse però, volgere lo sguardo alla povera Dafne, che in vita ha cercato di rifiutare nella maniera più decisa possibile il Dio messaggero, ci aiuta a capire qual è il grande problema della nostra cultura.
Una cultura che è, appunto, dello stupro.
Ad Apollo non interessa che i vestiti di Dafne siano curati, i capelli ben pettinati, la figura seducente. Ad Apollo, schiavo della freccia di Cupido, non interessa l’opinione di Dafne. Ormai la vuole, farà di tutto per averla.
Nella mente di uno stupratore non esistono ragioni. Dafne ha fatto il possibile per scappare da Apollo ma il possibile non è stato abbastanza.
Queste storie, come tante altre, provenienti dal mondo antico e non solo, hanno inevitabilmente costruito un immaginario intriso di racconti in cui il sesso è affermazione di forza e sopruso.
LE CONCLUSIONI
Sebbene il parallelismo sia a tratti forzato, e questo va riconosciuto, ritengo che sia utile riflettere su questi importanti temi attuali anche guardando al passato.
Sono numerose le caratteristiche culturali che attingiamo dai latini, così le positive come le negative. Per questo motivo mi sono dilettato nello scrivere questo breve testo: per dare forma ad una riflessione che sembra superficiale ma che può scavare nel profondo.
Una forma senza dubbio breve e con molte lacune, ma che possa servire da spunto per uno studio più approfondito sulla questione. Spero di aver trattato l’argomento con il dovuto rispetto, seppur con una superficialità dettata dal tempo e dagli strumenti a mia disposizione.
Spero di aver fatto informazione nei limiti del possibile, di aver suscitato una qualche riflessione. Infine, ringrazio per la lettura.
10/07/2024
Negli ultimi anni con l'avvento della transizione digitale e dei processi di innovazione tecnologica, scientifica e informatica, il mercato del lavoro ha assunto via via un assetto sempre più esigente verso nuove abilità tecniche e scientifiche: le cosiddette hard skills. Infatti le competenze legate a questi ambiti sono diventate tra le più richieste e remunerate incrementando anche i percorsi di studio per discipline simili. In tale ambito, in Italia, emerge la grave insufficienza di donne, prima ancora che nell’occupazione, nell’interesse recato nei confronti di queste materie considerate maschili dalla società. A sostegno dell’affermazione è efficace osservare dei recenti dati ISTAT: le alunne che scelgono di frequentare un liceo scientifico sono il 19% rispetto al 26% degli alunni, mentre solo il 22% delle ragazze sceglie un istituto tecnico contro il 42% - quasi il doppio - dei ragazzi. Inoltre, tra i laureati, solo il 16,5% delle donne consegue la fine degli studi universitari di facoltà STEM, contro il 37% degli uomini.
Constatando dei dati da una prospettiva lavorativa si evince che, nel mondo del lavoro italiano, il tasso di occupazione femminile sia per l’area “scienze e matematica” che per l’area “informatica, ingegneria e architettura” è inferiore a quello maschile di 10 punti percentuali. Per stimolare l’interesse delle giovani ragazze verso le materie STEM, quest’anno in Italia è stata celebrata la “Settimana STEM”, la prima di tante, a seguito della “Legge 187” promulgata nel 2023.
“La fisica è stata inventata e costruita dagli uomini, l’ingresso non è su invito.
La fisica? Non è donna”. Queste le parole del fisico Alessandro Strumia che non ci lasciano di certo indifferenti.È pressoché evidente che alla base della sua pesante discriminazione si celino stereotipi di genere e convenzioni sociali, compresi gli orientamenti tradizionali all'interno della famiglia, senza inoltre dimenticare gli svantaggi sul luogo di lavoro che sviliscono ancora oggi le donne. Oltre alla retribuzione mediamente più bassa, a parità di impiego, prevale ancora l’idea che la popolazione femminile debba occuparsi della sola attività casalinga e del solo mantenimento dei figli. Questa situazione riduce il loro potere contrattuale sul mercato del lavoro, anche per promozioni interne ed esterne. Oltre a ciò è ancora più spiacevole constatare che questo è solo un esempio tra tanti altri interventi inopportuni che fanno capire che ancora, nel 2024, ci sia da lavorare sulla parità di genere.
Le personalità femminili che si sono distinte nell’ambito scientifico-tecnologico sembrano essere sempre più nascoste di quello che pensiamo, eppure sono le stesse che hanno scoperto la struttura del nostro DNA, la teoria della relatività del tempo e dello spazio e che hanno contribuito ai primi lanci in orbita e alla conquista dello spazio. Rosalind Franklin, Mileva Maric, Katherine Goble Johnson, Mary Jackson e Dorothy Vaughan sono solo alcuni dei grandi nomi della storia, delle hidden figures a tutti gli effetti. Ed è proprio su Katherine, Mary e Dorothy che il regista Theodore Melfi ha voluto porre l’attenzione con il suo film Il diritto di contare che racconta la storia di queste tre donne scienziate che hanno lavorato alla NASA e che hanno collaborato a una delle più grandi operazioni della storia: il lancio in orbita dell'astronauta John Glenn. La loro è una storia di ribellione di fronte all’ingiustizia: ribellione che però non è fatta di violenza, piuttosto di resistenza.
10/07/2024
Quella delle streghe è una storia lunghissima e travagliata: da Circe nell’Odissea alle fiabe per bambini, passando per pagine buie della storia come la famosa “caccia alle streghe” che per 300 anni dilagò in tutta Europa; tuttavia durante la seconda guerra mondiale ci fu un gruppo di streghe davvero particolari. Invece di volare su scope incantate, queste streghe volavano su piccoli e agili biplani, invece di scagliare maledizioni e sortilegi colpivano con ordigni esplosivi e invece di indossare strambi cappelli e lunghi vestiti neri, indossavano uniformi dell’Armata Rossa.
Streghe della notte, Nachthexen in tedesco, fu il nome attribuito dai soldati della Germania nazista alle aviatrici del 588º reggimento bombardamento notturno sovietico.
Nel 1941, con i tedeschi alle porte di Mosca, l’eroina sovietica Marina Raskova ebbe un colloquio privato con Stalin in cui, grazie al proprio carisma e popolarità tra le giovani sovietiche, riuscì a ottenere la promulgazione dell’ordine 0099, che decretava l’immediata creazione di 3 reggimenti di aviazione a composizione esclusivamente femminile.
Ad aderire alla chiamata per “giovani donne desiderose di combattere per la patria” furono in molte e, dopo tre mesi di addestramento nell’accademia militare di Engels, furono inviate al fronte. Inizialmente le streghe vissero momenti di difficoltà: nei primi mesi del ‘42 l’Armata Rossa era in ritirata rotta e, in aggiunta, le giovani donne erano vittime di soprusi e scherno da parte dei compagni maschi.
Nonostante le difficoltà, il 588º divenne progressivamente più efficiente fino ad essere, alla fine della guerra, tra le unità con più voli effettuati (23.000 in 3 anni).
La straordinarietà delle “streghe” fu quindi ampiamente conosciuta, e a metà 1943 il loro reggimento fu ribattezzato a titolo onorifico 46º Reggimento bombardamento leggero notturno delle guardie “Taman”, con conseguente attribuzione di un’insegna militare e un breve inno; inoltre ben 23 di loro ricevettero la stella d’oro di Eroe dell’Unione Sovietica.
L’ultima strega, Irina Vjačeslavovna Rakobol'skaja, è purtroppo morta nel 2016, poco dopo di aver raccontato la sua storia a Ritanna Armeni, che la narra nel libro “Una donna può tutto. 1941: volano le Streghe della notte.”
06/03/2024
Gli scoppi della rivolta, le urla dei manifestanti, le luci, i botti, gli echi della piazza risuonano lontani nella testa innocente dei liceali e degli universitari:
gli stessi che prima del famigerato Coronavirus scioperavano per il clima, simpatizzavano per le proteste operaie, rovesciavano intere scuole e presidi per un trattamento migliore.
Perché la maggior parte dei giovani, pur simpatizzando per le cause dei manifestanti, oggi ha abbandonato ogni forma di protesta e partecipazione attiva?
Per rispondere, bisogna dare per assodato che il nostro spazio generazionale riconosca i valori per cui un tempo si combatteva, i diritti civili e sociali che dovrebbero essere riconosciuti da tutti, da destra e da sinistra. E sembra che sia così davvero: ogni studente, che sia progressista o conservatore, vive ormai in un mondo globalizzato, dove ogni cultura è meritevole di rispetto e dove eventi come il matrimonio tra omosessuali non dovrebbero più destare alcuno scandalo. Per molti appartenenti alle generazioni più “antiche”, supportare i diritti dell'uomo è “da comunisti” o comunque, troppo a sinistra; per un giovane al contrario, a meno che non ci sia stata una pesante influenza familiare, supportare i diritti dell'uomo è perfettamente normale e funzionale alla società di oggi: più che di sopportare si tratta infatti di accettare tacitamente, di rendere parte della normalità le differenze che un tempo destavano tanto sospetto.
Ma perché allora quando questi diritti ormai assodati vengono messi a rischio sono sempre meno i giovani che alzano la testa e “lottano”?
La risposta si trova proprio nel termine “lotta”: per Marx era lotta di classe, e tutti i gruppi studenteschi del XX secolo ne hanno fatto l'emblema della loro protesta, una vera “lotta” contro un nemico tirannico, il mostro del capitalismo e poi del globalismo, poi i leader politici stranieri che spingevano verso la guerra e poi ancora contro la crisi. L'economia era onnipresente, e le politiche sociali del tempo miravano a formare una gioventù che si percepisse “attiva” e pronta alla lotta. Per la generazione X, a cui appartengono i genitori dei giovani di oggi, “lotta” era un termine di grande significato, perché significava alzare la testa, mostrare la propria presenza e riscattarsi contro un oppressore, e soprattutto era un enorme componente identitario per una generazione che aveva vissuto all'ombra dei loro genitori, i più fortunati e numerosi “boomers”, che hanno sempre fatto sentire “impotenti” i giovani della generazione X , privi di identità comune come la dovrebbe avere ogni generazione dai tempi del Romanticismo e permeati da un senso di vuoto come mostra anche Andrea Pazienza nel suo fumetto “Zanardi”. E così gli anni 80 sono ricchi di sottoculture che incitano al disinteresse politico, come gli yuppies, i paninari e i metallari: tutti giovani che crescendo sentiranno il bisogno di riprendersi il protagonismo perduto; protagonismo che spettava invece alla generazione Z di oggi. Le guerre del nostro tempo, prima in Ucraina e poi in Palestina, come anche la grande crisi del terzo millennio, sono l'ennesimo evento provocato dalla generazione dei nostri genitori, e anche i mezzi per mostrare il nostro dissenso appartengono alla cultura della generazione X.
I volantini, i vestiti retrò dello studente barbuto che ci invita alla lotta, il colore rosso onnipresente, i graffiti sui muri e le canne, gli slogan e le urla, le bandiere in alto e una comunicazione tutta basata sul rumore: questi sono i mezzi che ancora oggi vengono usati nelle proteste, che sono gli stessi delle proteste degli anni 80-90, e che non sono più invitanti per la nostra generazione.
Che la generazione Z abbia un grande messaggio da dare è ormai appurato: abbiamo dato per assodati i diritti umani, abbiamo dominato l'internet, abbiamo scosso il mondo con gli scioperi per l'ambiente, i famosi e lontani “Fridays for Future”; tuttavia, siamo anche una generazione pacifica e amante della tranquillità, della musica rilassante, dei film sotto la coperta, delle frasi poetiche di qualche cantautore, della placida routine scolastica e della compagnia, un lato che è emerso ancora di più dopo il 2020, con la pandemia.
Tutti questi valori, mai sentiti prima di adesso, sono in netto contrasto con quelli dei nostri genitori, e ci sembrano lontani anni luce dalla partecipazione attiva, che però è necessaria per mantenere quei diritti che siamo abituati a dare per scontati. È molto importante che i Millenials e la generazione Z insieme abbiano il coraggio di ripartire, di studiare una nuova forma di comunicazione per rendere “attivi” i giovani, senza fossilizzarsi su una cultura obsoleta che apparteneva ai nostri genitori e che non fa altro che allontanare i ragazzi di oggi dalla politica.
06/03/2024
Sin dall’Antichità, l’uomo è sempre stato argomento di discussione per filosofi e pensatori.
In particolare, una delle più frequenti questioni di dibattito che si protraggono, dalla Grecia di Socrate fino ad oggi, è la vera natura dell’uomo: in noi vige una tendenza altruista o, al contrario, egoista?
Sebbene, al giorno d'oggi, sia ormai ben diffusa l’opinione per la quale l'essere umano sia individualista e menefreghista verso gli altri, studi e pareri di importanti ricercatori e pensatori ne dimostrano il contrario.
Innanzitutto è bene sottolineare che l’uomo nasce come altruista, e varie analisi possono confermarlo. Secondo l’indagine effettuata dal dipartimento di Neurobiologia della Hebrew University di Gerusalemme, è rinvenuto che il genere umano dispone di un “gene altruista”, denominato “gene AVPR1A”, per cui ogni gesto altruista innesca una sensazione di gioia e benessere psicofisico. Si è giunti a questo risultato grazie ad un esperimento effettuato dal Professore Reut Avinum su 136 bambini e bambine di età compresa tra i tre e i quattro anni. Singolarmente, ogni bambino è stato fatto entrare in un’aula con svariati giochi e, l’istruttore in merito, ha proposto ad ognuno di tenere per sé tutti gli oggetti del divertimento oppure di poterne donare una parte al bambino che arriverà in seguito. L’esito è stato inequivocabile: due terzi dei bambini ha preferito donare una parte dei suoi giochi ad un bambino “immaginario” che sarebbe arrivato dopo di lui. La risposta più frequente alla domanda dell’istruttore, sul perché questi bambini avessero deciso di condividere, fu: “Perchè così mi sento felice”. Sulla base di quanto affermato, risulta chiaro che l’uomo non solo tende ad essere altruista, ma addirittura nasce altruista, in quanto sin da piccolo preferisce donare all’altro piuttosto che tenere tutto per sé.
In secondo luogo, l’uomo è altruista perché è un “animale sociale”.
Sono in tanti i saggi che seguono questa via di pensiero. Tra i più importanti, certamente, è d’obbligo citare David Hume, filosofo empirista scozzese. Egli sostiene che il sentimento di empatia sia innato nella specie umana perché iscritto nella sua natura. E così concorda anche il filosofo ed economista Adam Smith, che in un suo trattato afferma: “Per quanto egoista si possa ritenere l’uomo, sono chiaramente presenti nella sua natura alcuni principi che lo rendono partecipe delle fortune altrui, e che rendono per lui necessaria l’altrui felicità, nonostante da essa egli non ottenga altro che il piacere di contemplarla. Il fatto che spesso ci derivi sofferenza dalla sofferenza altrui è troppo ovvio da richiedere esempi per essere provato: nemmeno il più gran furfante, il più incallito trasgressore delle leggi della società è del tutto privo di sensibilità”. L’idea di Smith, infatti, è che l’uomo sia altruista perché vive in società ed è quindi costantemente giudicato da quest’ultima. Ogni persona, a suo avviso, immagina uno “spettatore imparziale” che giudica le sue scelte. Questo “io immaginario”, in realtà, va ad immedesimarsi con la persona stessa: l’uomo agisce con altruismo perché, innanzitutto, vuole sentirsi bene con se stesso. Il fine di tutto ciò, però, è la ricerca della propria persona: specchiandosi negli occhi degli altri si trova il proprio io. Questa è la sympathy, cioè il sentire comune che porta l’uomo a vivere in società.
Infine, è lecito citare uno studio compiuto recentemente dalla psicologa Silvia Bonino, che afferma l’altruismo dell’uomo sostenendo che sia tale perché l’essere umano tende a riconoscere l’altro come uguale a sé, e per lui prova quindi empatia e compassione, ciò lo porta ad essere incline a fare del bene verso gli altri. Come pensava già millenni prima Aristotele, il genere umano vede l’altro come estensione di sé, per questo si comporta in maniera altruista.
Sommando i pareri e gli studi di questi importanti personaggi, è ragionevole pensare che l’uomo sia altruista per natura.
Tuttavia, anche se non fossi riuscita a convincerti, immagina: invece di vivere in un mondo egoista, non sarebbe preferibile comportarsi al meglio per costruire un futuro più roseo?
06/03/2024
Lo sguardo docile dell’uomo ha dovuto da sempre ricercare compromessi contro le intenzioni guerrigliere del mondo.
Siamo abituati a combattere; nonostante questa parola appaia a tutti noi, o almeno alla maggior parte di noi, distante e impregnata di un odore acre che difficilmente riusciamo a sopportare. Combattiamo fin dal primo momento in cui le nostre consapevolezze divengono l’essenziale respiro di ciò che ci permette di tracciare, irreversibilmente, il sentiero che scegliamo di navigare. Combattiamo per modellare le nostre idee, difendere i nostri sogni dalle strette giudicanti di chi ha deciso di barattare quest’ultimi per un incubo addolcito dall’indifferenza, per esalare quei respiri affannosi che rallentano la voracità dei nostri pensieri, quando le acque taglienti d’un oceano sconfinato cominciano ad annegarci.
Combattiamo poiché la resa sarebbe il modo più semplice per abbandonarci alla follia del vuoto. Combattiamo per il fervente timore di vederci sconfitti.
Per quanto questa parola sia vicina e al contempo privata dei suoi lineamenti, resi amorfi da una foschia di perbenismo, tutti noi, abbiamo scelto di battagliare perché l’altra possibilità, aveva le medesime sembianze di una morte, privata dei ricordi, che le concedono il valore del suo significato.
Impariamo a guerreggiare, non nasciamo impavidi e ricolmi della certezza che si erge sul piedistallo dei vittoriosi.
Imparando, ci feriamo.
Alcuni smettono di armeggiare per la paura di trovare cicatrici che non saprebbero come lenire. Altri piangono, gioiosi per una vittoria, o solcati da lacrime di consapevolezza, intimoriti dallo scatenio di una sconfitta.
Le lacrime allagano ogni nostra battaglia, riflettono la luce speranzosa che traspare da ogni passo che riemerge da una melma inconfondibile.
Piangere è la lampante dimostrazione che la cruda narrazione della nostra storia è riuscita a trafiggerci, ma ci ricorda, con ogni vitrea lacrima, che siamo ancora vivi per poter riesumarci dal terreno arido che ci ha sepolto.
Proprio per questo, non mi ferisce osservare una persona che piange rimembrando le sue battaglie o descrivendo i fendenti che la stanno ferendo, però mi strazia, soffocando le mie speranze, il volto di un innocente macchiato dalle lacrime di chi è stato designato colpevole, ancor prima che potesse decidere con quali colpe sporcare le proprie notti.
Mi inquieta lo sguardo appassito di chi ha perduto l’ingenuità per colpa di certezze acerbe.
I pianti, stretti tra i denti, di coloro che non avrebbero motivi per poter piangere con coscienziosità e nemmeno l’età per poter farsi assalire dalla coscienza.
Le braccia, marchiate a fuco da bruciature di sigaretta, di coloro che hanno perso la vista offuscati dal fumo persistente della miseria.
Quegli innocenti non sono combattenti, ma sconfitti, che hanno deciso con inimitabile coraggio di riscrivere una storia, la loro audace storia, in cui l’epilogo è tristemente confuso, scarabocchiato dalla penna di un destino bisbetico.
Victor Hugo, nel suo capolavoro ottocentesco “I miserabili”, descrive in modo minuzioso la sofferenza scaturita dalla miseria.
Una miseria dipinta non solo come condizione sociale ed economica, ma come cappio che stringe, senza indulgenza, il collo di chi desidera salvarsi, rubando un futuro più roseo.
La miseria non sopravvive solamente nelle stanze occupate di un angusto appartamento che, invisibile, contribuisce ad alimentare l’ombrosa imponenza del cemento che regna egemone nei contesti in cui, anche il sole, sembra intimorito dal donare i suoi raggi.
La miseria è uno stridio che irrompe la complessa sinfonia suonata da un musicista che, stonando le note, ha imparato a giostrarsi tra le armonie del pianoforte.
La miseria è una condizione che perseguita i corpi dei sopravvissuti, privandoli dell’idea di una quiete perpetua.
La miseria, anche se si riesce a fuggire da palcoscenici fatiscenti in cui i colori sbiadiscono ancor prima di poter essere sognati, rimane una sfumatura rossastra che difficilmente si riesce a diluire. Le notti di chi ha provato a colorare il suo mondo, dileguandosi dalle ombre che lo rincorrevano instancabili, ne sono l’esempio.
Non sono notti sollecitate dal ristoro e dal tepore del fuoco di casa, ma ore, scandite dal perforante tonfo delle lancette, dove ogni ricordo e ogni rimorso danzano, come pitture riesumate da un’accecante e fioca luce, sulle pareti che tagliano lo sguardo di chi vorrebbe osservare il cielo. Vi esorto a guardare con ammirazione la perseveranza, che ogni virtuoso vincitore utilizza come unica arma di cui servirsi, in ogni duello in cui, le circostanze, sembrano sgambettare decise contro la vittoria; ma disperatevi osservando i fangosi vincitori, gettati in duello già vinto dalla vita, in cui tutto ciò di cui possono servirsi è la speranza di poter brandire i propri sogni e i propri successi, per potersi vedere, prima o poi, ripuliti dai solchi scarlatti, scavati sul volto, dalle lacrime degli innocenti.
06/03/2024
“L’Universo non è altro che un sogno che sogna sé stesso.”
-Deepak Chopra.
Figli dell’Universo che ci circonda, siamo fatti della stessa sostanza delle stelle che vediamo la notte.
Siamo il risultato dei miliardi di anni di evoluzione dell’Universo che si affaccia sul suo passato, come se cercassimo di comprenderlo e di capire qual è il nostro ruolo all’interno del Cosmo.
Il primo passo per comprendere l’Universo è osservarlo; tuttavia ciò che ci circonda non è sempre visibile, o perlomeno non nella sua vera forma: diversi corpi celesti ci appaiono, almeno in parte, in bianco e nero, senza presentare i colori sgargianti che siamo soliti vedere nelle foto scattate dalla NASA (National Aeronautics and Space Administration) o dall’ESA (European Space Agency).
Quindi, come riusciamo a osservare il Cosmo attorno a noi? Da dove provengono questi colori? Come vengono ottenute le immagini in questione?
Sapevate che attorno a Giove ruotano quattro fasce di anelli? Non saranno grandi come quelli di Saturno ma sono comunque anelli formati da polveri e detriti, e, a differenza degli anelli del vicino gassoso, quelli di Giove non riflettono la luce solare, rimanendo così nascosti.
Tuttavia, quando osservati attraverso frequenze luminose infrarosse, invisibili all’occhio umano, gli anelli di Giove splendono.
Come appena accennato, dato che l’essere umano percepisce solo una minuscola frazione di frequenze emesse dai raggi di luce, di conseguenza anche la nostra percezione dei colori è fortemente ristretta, confinata agli estremi dal violetto e dal rosso; così, i colori all’esterno del nostro campo visivo ci appaiono in scala di grigi.
In realtà, tutto ciò che ci circonda viene recepito dal cervello come in bianco e nero, ma attraverso delle cellule dette “coni”, divise in tre gruppi a seconda della lunghezza d’onda che trattano, si forma nel cervello l’immagine a colori.
Anche per le fotografie del cosmo avviene un processo simile: quelle scattate dal telescopio spaziale Hubble, ad esempio, sono tutte in una scala di grigi poichè la sua funzione primaria è quella di misurare l’intensità luminosa dei corpi celesti, che appare più chiaramente in bianco e nero.
I colori sono aggiunti in seguito attraverso diversi metodi: uno dei processi è chiamato “filtraggio a banda larga” in quanto vengono prese di mira tre lunghezze generali della luce visibili all’occhio umano, corrispondenti ai tre colori alla base del sistema cromatico additivo: rosso, verde e blu.
Così, facendo uso di filtri che permettono il passaggio solo di una certa lunghezza d’onda alla volta, vengono scattate tre immagini che una volta colorate grazie a software come Photoshop, sono sovrapposte l’una sull’altra, dandoci come risultato una foto nitida e a colori!
Tuttavia, le immagini non sono colorate solo in base a come l’occhio umano le vedrebbe se fosse potente quanto un telescopio spaziale… gli scienziati fanno uso dei colori anche per identificare come diversi gas interagiscono tra loro nell’Universo per andare a formare galassie e nebulose.
Telescopi spaziali come l’Hubble e il James Webb, facendo uso di accessori che permettono la visione di lunghezze d’onda invisibili all’occhio umano, sono capaci di tracciare delle frequenze di luce provenienti da singoli elementi e usare i colori in cui sono visibili naturalmente per evidenziarne la presenza in un’immagine, seguendo il metodo chiamato “filtraggio a banda stretta”.
I principali elementi presi in analisi sono idrogeno, zolfo e ossigeno, i tre più importanti componenti nella formazione delle stelle. Possiamo osservare questo processo in immagini famosissime come “I Pilastri della Creazione”, foto scattata dall’Hubble, nella quale distinguiamo degli immensi agglomerati verticali di gas e polveri simili a dei “pilastri”, come suggerisce il nome, che formeranno col passare del tempo nuovi sistemi solari.
Tuttavia queste immagini non rispecchiano i loro veri colori… sono più delle mappe colorizzate, perché idrogeno e zolfo sono visibili naturalmente nella luce rossa, mentre l’ossigeno in una frequenza tendente al ciano, per questo motivo colorando le immagini seguendo quest’ordine si otterrebbe come risultato una foto particolarmente rossastra, non utile per un’analisi visiva dei gas.
Così gli scienziati si trovano costretti a separare lo zolfo dall’idrogeno, riassegnando gli elementi in base alla loro lunghezza d’onda: questo significa che all’ossigeno, che ha la frequenza più alta, verrà assegnato il colore blu, all’idrogeno il verde e allo zolfo, che ha la frequenza più bassa, il rosso; ottenendo in questo modo un’immagine pienamente a colori.
Un altro elemento molto importante da considerare quando si scatta un’immagine astronomica è l’uso di accessori allegati alle fotocamere dei telescopi che permettono la visione di luce infrarossa e ultravioletta, come già introdotto precedentemente.
Ad esempio il JSWT (James Webb Space Telescope), telescopio spaziale che orbita il nostro pianeta a un milione e mezzo di km di distanza dal recente 25 dicembre 2021, è fornito di quattro accessori che gli permettono di vedere lunghezze d’onda a noi invisibili, in questo modo è possibile vedere per esempio cosa si trova celato da dense nuvole di polvere e detriti, permettendoci così di osservare un’infinità di ammassi stellari, o come nel caso degli anelli di Giove, corpi che non splendono nella luce a noi visibile.
La sua funzione appunto è quella di analizzare approfonditamente il cosmo grazie alla modalità infrarossa, analizzando la formazione delle prime galassie, stelle e pianeti extrasolari.
Un’altra capacità del JWST è quella di identificare determinate molecole osservando l’atmosfera di un pianeta, caratteristica che è risultata fondamentale per la recente scoperta di diossido di carbonio (comunemente chiamato “anidride carbonica”) nell’atmosfera di un esopianeta (pianeta esterno al Sistema Solare), molecola che sulla Terra viene prodotta come scarto da esseri viventi marini.
Il suo collega invece, l’Hubble, presenta tecnologie meno all’avanguardia in quanto più datato, il suo lancio infatti risale al 1990, quattro anni dopo il disastro del Challenger, nel quale morirono sette astronauti.
Il telescopio rappresenta così per la NASA un modo per redimersi, anche se rivelatosi inizialmente un fallimento per via di una minuscola imperfezione; tuttavia tre anni dopo, in seguito a una difficile manovra di manutenzione condotta nello spazio, risultò un capolavoro ingegneristico che apriva le porte a un mondo totalmente nuovo.
Lo scopo dell’Hubble era scoprire l’età dell’Universo e grazie a lui attualmente sappiamo che è di circa 13.8 miliardi di anni.
In sintesi, l’essere umano è fornito di macchine potentissime come il cervello e gli occhi, che tuttavia non bastano in alcuni momenti dove ci si confronta con qualcosa di più grande come l’Universo, e, per far fronte a questo problema, dove non arriva l’uomo arrivano le sue invenzioni, che rendono visibile l’invisibile e possibile l’impossibile.
04/01/2024
"Siamo ridicoli, noi fortunati, quando ricerchiamo a tutti i costi l'esotica povertà:
tra selfie, freddi timori, dolcezze fuori luogo, un'autocritica sociale prova a indagarne il senso, la causa, lo scopo".
V’è pratica comune nel civilizzato vecchio continente e quest’è per certo la noia.
La ricchezza era, è e sempre sarà imperfetta. Il tutto è incompleto, incompiuto; la vera perfezione la troveremo solo nel nulla, nell'assoluta mancanza, nella purezza primordiale.
La povertà si suddivide in povertà d'animo e povertà materiale:
il concetto di povertà d'animo è, all'interno dell'assoluto, relativo.
Viviamo di emozioni assolute e irremovibili ripetute all'infinito, che saranno influenzate dalle nostre insignificanti azioni personali nel corso della nostra insignificante vita.
Il concetto di povertà materiale è, all'interno del relativo, assoluto.
La società cambia insieme al concetto di povertà, ma all'interno di questo relativismo possiamo trovare l'irreversibile assolutismo dei ricchi e dei poveri, degli sfruttati e degli sfruttatori.
La noia porta a riflettersi da dentro, a stringersi il cuore con cinte pungenti, con ami forati, estraendolo con vigore d’amante e divorandolo con gusto, perché s’è romantici, s’è bisognosi d’amore.
Ecco, s’immaginino ora vecchi signori, anziane signore, o giovani già vecchi per l’eccessivo contatto con la saggezza, per la pericolosa lontananza dalla follia adolescenziale. S’immagini la loro conforme necessità di allontanarsi dalla noia, che li divora soffocandoli, e insieme li affoga e dal forte, intrinseco bisogno di conformarsi alla morale che vige, ch’è fatta non sol di libri, di cinema, d’amore nelle mostre, nei musei, nelle scuole, ma anche d’azioni, di sguardi, di saluti e d’addii, sì utile, ma opprimente, perché non v’è cultura se non ve ne son per lo meno due, non v’è bellezza se non nello squilibrio della personale rivolta alla consuetudine. Ora si pensi al descritto gruppo d’anime involontariamente prive di vis. Questo parte per la prima meta trovata, con la prima organizzazione scoperta, alla ricerca di nulla, conoscendo già perfettamente quel che si ha lasciato e quel che si vuol fare (che l’esempio comune sia un paese dell’Africa sub sahariana, affinchè sia medesima la riflessione).
L’euforia accompagna il gruppo, anzi, la folla, non per la genuinità del voler far bene, ma per l’autenticità del mondo verso cui s’incammina, la falsità della vita da cui fugge. L’arrivo nel nuovo paese si può equiparare all’immersione in un mare, dove serve maschera per vedere ed esser visti, boccaglio o bombola per respirare, in cui tutto sorprende per la straordinaria rottura del confine che circonda il castello d’esperienze vissute. Ogni oggetto, bestia, persona, perfino, è causa e insieme fine di meraviglia e stupore e la folla lo fotografa, riprende, attraversando strade vedendo sentieri, parlando a uomini vedendo servi, come se fosse in uno zoo, come se il mondo intorno fosse grande comparsa e ragione di inconsapevole scherno, non per malizia, ma per cultura, ch’è radicalmente aggrappata al cuore e insieme alla mente, che ci àncora al pregiudizio della necessaria diversità verticale.
I compiti dalla folla svolti non solo sono inutili, ma dannosi. La pericolosità sta nella superbia di credere di poter educare sol perché si è bianchi e nella stupidità d’insegnare ai piccoli che la cultura ha un colore, una fisicità, che giunge all’improvviso da settentrione, per poi dopo poche settimane andarsene, stuzzicando, non sfamando di certo, illudendo, non convincendo. L’inutilità sta, invece, nelle poche opere create, nei disegni sui muri delle classi, nelle costruzioni di precarie fondamenta, svolte per pubblicità e ripetuto vagheggiamento, vantandosi d’aver cambiato la realtà, d’aver fatto la propria parte.
Che si abbandoni il vago, la spettacolarizzazione; si adottino concretezza, coraggio; che la nostra cultura sia mezzo, non scopo, sia aiuto, non obiettivo.
04/01/2024
Perché ci sono 52! mazzi di carte
di Manuel Gamba
Se mescolato in modo casuale, il modo in cui sono disposte le carte `e unico e diverso da tutti gli altri mazzi di carte nella storia dell’uomo. Per ogni partita di Burraco, di Scala 40 o di Briscola `e esistito un mazzo di carte inreplicabile con il solo ausilio del caso. Il numero di combinazioni totali `e, di fatto, superiore a 8 · 1068, ovvero 8 seguito da 68 zeri. Per capire il ragionamento utilizzato per arrivare a questo numero e perch´e `e cos`ı grande, conviene prima prendere un esempio di scala minore, utilizziamo due dadi, uno bianco e uno nero.
Ipotizziamo di lanciare il dado bianco e di ottenere il numero 3, per poi lanciare il dado nero e ottenere il numero 1; chiameremo questa e tutti gli altri possibili risultati, che in questo caso sono i numeri determinati dai dadi, disposizioni. Non ci resta che chiederci quanto `e ”unica” la nostra disposizione, o meglio, quante altre disposizioni di numeri esistono. Lanciando il primo dado abbiamo 6 diversi possibili risultati, uno per faccia del dado. Ottenere ”3” come risultato dal dado bianco, `e una di solo sei possibilit`a. Si potrebbe anche pensare che lo stesso valga anche per il dado nero, ma si cadrebbe in errore, perch´e non vogliamo ottenere solo ”1”, ma vogliamo ottenere ”1” dopo aver ottenuto ”3”. E qui che il numero di disposizioni,, cresce, perch´e per ognuno dei sei possibili risultati ` del dado bianco, esistono altri 6 casi per il dado nero. Mi spiego: nel caso in cui il dado bianco risulti ”1”, si potrebbero ottenere dal dado nero un risultato qualsiasi fra uno e sei, dandoci le prime sei disposizioni; nel caso in cui dado bianco ottenessimo due ”2”, dal dado nero potremmo comunque ottenere un numero fra uno a sei, dandoci altre sei disposizioni e portandoci ad un totale di dodici disposizioni. Continuando concluderemmo che abbiamo sei disposizioni per ogni risultato possibile dal dado bianco, dandoci un totale di disposizioni di 6 · 6, ovvero 36. Se tirassimo 3 dadi, avremmo un numero di disposizioni 6 · 6 · 6, da cui otteniamo 216, e per 4 dadi avremmo 1296 disposizioni, ovvero 6 · 6 · 6 · 6.
Abbiamo capito come approcciarci a questo tipo di problemi, passiamo quindi a quello che ci siamo chiesti in origine. Per un mazzo di 52 carte, la carta in cima, o pi`u appropriatamente la prima posizione, pu`o essere occupata da una qualsiasi carta, ci sono quindi cinquantadue possibilit`a. La carta successiva, ovvero quella nella seconda posizione, potr`a essere una qualsiasi di 51 carte, perch´e una `e gi`a posizionata e non pu`o farlo due volte . Abbiamo, solo per le prime due carte, 51 disposizioni per 52 carte che possono occupare la prima posizione, e quindi 52 · 51. Ma un mazzo non ha due carte, ne ha 52, e quindi le disposizioni totali sono molte di pi`u. La terza posizione pu`o essere occupata da 50 carte, la quarta da 49 e cosi via. Si conclude che, logicamente, il numero di disposizioni totale ´e 52·51·50·...·2·1, ovvero il prodotto di tutti i numeri (interi) fra 1 e 52. Siccome ´e un’operazione molto lunga da scrivere per intero, si utilizza il simbolo ”52!”, che si legge come ”cinquantadue fattoriale”. Similarmente 5! (cinque fattoriale) `e 5 · 4 · 3 · 2 · 1 e cos`ı per tutti i numeri ”senza la virgola”, ovvero i numeri detti interi. 52! ´e un numero cos`ı grande che ´e difficile per noi da concepire, che forse il discorso introduttivo per alcuni pu`o sembrare un esagerazione, ma per metterlo in scala, penso che mi basti dire una cosa: la probabilit`a di mescolare un mazzo e ottenere la stessa disposizione due volte ´e pi`u alta di quella di vincere la lotteria per otto volte consecutive.
06/11/2023
La rivista
di Nicole Della Santina
La rivista in quanto periodico dal tema variabile come la conosciamo oggi nasce nel 1665 contemporaneamente in Francia e in Inghilterra. Le prime sono riviste di carattere scientifico come le “Philosophical transactions”, oppure letterario come il “Giornale de’ Letterati” nato poco dopo a Roma. Diffondono cultura nella comunità di dotti, diventano tramite di scoperte scientifiche e conoscenza, e nel XVIII secolo diventano non solo di gran moda ma anche fondamentali per la società. Sono strumenti di diffusione popolarissimi. La rivista vive un periodo di gloria lunghissimo, adoperata a scopo politico, scientifico o letterario ma rimane imprescindibilmente manifesto della cultura per più di duecento anni. E poi nascono le riviste di economia domestica, di moda, di giardinaggio. La rivista diventa una piccola enciclopedia conveniente e a portata di mano per tutti. Al pari di libri e giornali le riviste (o meglio, i loro redattori) hanno una posizione politica e una morale bel precisa che ne delinea il percorso e i contenuti. Rimangono nella memoria collettiva più recente Vogue, Architectural Digest, Botteghe Oscure, Cosmopolitan e tante altre. E ora sembra proprio che il tempo delle riviste sia un po’ passato, sostituito dai post di Instagram e dai video di tik tok, informativi ma rapidi e immediati. La redazione di Satire quindi si impegna a riprendere la rivista in quanto pubblicazione periodica, modernizzarla e diffonderla; un nuovo mezzo di cultura per la generazione z.
01/09/2023