Il cinema di Terrence Malick: quando la poesia si fa immagine
Giacomo Cristanelli
Giacomo Cristanelli
In un’epoca dominata dal rumore, dalle frasi spiegate e dai finali chiusi a chiave, il cinema di Terrence Malick somiglia a un sussurro. Uno di quelli che ti costringe a tendere l’orecchio, a fermarti, a respirare più lentamente. Ogni suo film è un atto di fede nella bellezza, nella natura, nel silenzio. Ma anche nel tormento dell’essere umano, nella colpa, nella grazia, nella perdita.
Malick non è un regista prolifico. Dal suo debutto con “Badlands” nel 1973 fino a oggi, ha realizzato una manciata di film, spesso a distanza di molti anni l’uno dall’altro. Ma ogni sua opera è un’esperienza sensoriale, visiva, spirituale. Guardare un suo film non è semplicemente “seguire una trama”, ma lasciarsi trasportare da un flusso di immagini, suoni, pensieri. È cinema che si vive con la pelle.
Un uomo invisibile
La figura di Terrence Malick è avvolta nel mistero tanto quanto i suoi film. Estremamente riservato, non rilascia interviste da decenni, non partecipa alle conferenze stampa e non si fa quasi mai fotografare. Non è mai salito a ritirare un premio, nemmeno quando “The Tree of Life” vinse la Palma d’Oro a Cannes nel 2011. Niente social, niente apparizioni pubbliche, nessuna dichiarazione sul proprio lavoro. In un’industria dove l’autopromozione è spesso più rumorosa delle opere stesse, Malick è un’eccezione quasi ascetica.
Questo atteggiamento non è snobismo, ma coerenza. La sua arte parla per lui. Malick sembra appartenere a un’altra epoca, o forse a un’altra dimensione: quella in cui il cinema è ancora un mezzo per toccare il mistero dell’esistenza, non solo per intrattenere.
L’estetica del sublime
Terrence Malick è prima di tutto un poeta dell’immagine. Collaborando con direttori della fotografia come Néstor Almendros, Emmanuel Lubezki e Rodrigo Prieto, ha costruito un linguaggio visivo unico: movimenti di macchina morbidi, luce naturale, inquadrature che sembrano rubate al mondo mentre si distrae. Il sole tra le foglie, un bambino che rincorre le lucciole, una madre che accarezza un lenzuolo: nulla è troppo piccolo per diventare sacro.
Il montaggio frammentato, ellittico, è spesso accompagnato da voci fuori campo che non spiegano, ma meditano. I personaggi non parlano per informare, ma per rivelarsi interiormente. E così, anche i momenti più semplici – una camminata nei campi, un sorriso tra due innamorati – assumono un valore quasi cosmico. In Malick, ogni gesto è eterno, ogni sguardo può contenere l’infinito.
Il tema del sacro e della grazia
La filmografia di Malick è attraversata da una tensione costante tra natura e spiritualità. In The Tree of Life (2011), forse il suo capolavoro più amato e discusso, questa tensione diventa esplicita: “Ci sono due vie nella vita – la via della natura e la via della grazia”, recita Jessica Chastain nel prologo. Il film, una sorta di sinfonia visiva sull’infanzia, la perdita e il senso dell’universo, intreccia il racconto intimo di una famiglia texana con visioni cosmiche sulla nascita della vita.
Ma anche nei suoi altri lavori, questa dualità torna con forza: in “The thin red line”(1998), il conflitto tra la brutalità della guerra e la bellezza della natura è il vero cuore del film; in “The New World” (2005), l’incontro tra Pocahontas e gli inglesi è un racconto epico di innocenza perduta; in “A Hidden Life” (2019), la resistenza silenziosa di un contadino austriaco alla follia del nazismo diventa una preghiera sussurrata al cielo.
Un cinema contro il tempo
Malick non ha mai avuto paura di andare controcorrente. I suoi film sono spesso privi di una struttura narrativa classica, faticano a incasellarsi nei generi, rifiutano le scorciatoie emotive. Questo lo rende un regista polarizzante: per alcuni è un genio, per altri un formalista sopravvalutato. Ma forse è proprio in questo scarto tra attese e realtà che risiede la sua forza.
Nel suo cinema il tempo non scorre, fluttua. I ricordi si sovrappongono al presente, il futuro è un’eco, e il passato un respiro. Malick filma l’essere umano nella sua fragilità, come parte di un tutto più grande, immerso in un mistero che non può essere spiegato, solo contemplato.
Perché iniziare a guardare Malick
Se non hai mai visto un film di Terrence Malick, potresti chiederti da dove cominciare. La risposta dipende da cosa cerchi. Se vuoi un’introduzione più narrativa, Badlands (1973) è un’opera di sorprendente freschezza e immediatezza, influenzata dal cinema della New Hollywood. Se invece vuoi immergerti completamente nel suo stile poetico, The Tree of Life è il cuore pulsante del suo cinema. Un’esperienza che non si dimentica, anche quando non si capisce tutto. E se ami le riflessioni sul bene, il male e il coraggio dell’anima, A Hidden Life potrebbe toccarti nel profondo.
Il cinema di Malick non è per chi cerca risposte, ma per chi ha il coraggio di farsi domande. È un viaggio dentro e fuori di sé, in un mondo dove la luce filtra tra gli alberi e la voce dell’anima trova finalmente uno spazio per parlare.
Marco Cacciatore
"Ciao Bambino" è un esordio, e si sente. Eppure è un esordio bello, fatto bene, con un'idea alla base e con delle intenzioni ben chiare. In un certo senso, la storia non è poi così nuova: un bravo ragazzo in un mondo cattivo. Detto così non sembra niente di entusiasmante o originale, eppure ha una sua forza espressiva, in parte anche legata alla scelta degli attori, anche loro per lo più emergenti: certo, c'è sicuramente dietro anche una questione economica, ma in ogni caso la presenza di attori alla loro prima esperienza cinematografica ha avuto un influsso positivo sul film, conferendogli un grande senso di sincerità che rende la pellicola genuina e spontanea.
Da un punto di vista tecnico non ho molto da dire, né, in realtà, ho le conoscenze necessarie per fare una critica approfondita. Quello che so è che mi è piaciuto quasi tutto quello che ho visto. C'è stato forse qualche momento di dialogo che avrebbe potuto essere scritto meglio, qualche battuta si sarebbe potuta tagliare, ma, in fin dei conti, la maggior parte delle interazioni tra i personaggi funziona bene e non risulta banale. Mi è piaciuto molto il personaggio del padre e anche Vittorio, entrambi interpretati molto bene. Anche le musiche funzionano... l'unico piccolo rimpianto forse é nel finale, il quale sarebbe stato più incisivo senza la lettura da parte della ragazza della lettera, chiudendosi invece su quell'ultima inquadratura.
Edgardo Pistone ci regala un'opera prima che lascia ben sperare per i suoi prossimi progetti. È evidente la volontà di costruire una narrazione in cui Napoli non è la solita caricatura fatta di stereotipi. In un'intervista fatta da Artesettima, Pistone dichiara: "Ciao Bambino in una Napoli contemporanea si posiziona in una posizione abbastanza inedita, perché prova a raccontare Napoli attraverso un territorio inesplorato, provando ad avere una visione della stessa città senza calcio, senza cibo, senza troppo sole e senza Vesuvio."
"Ciao Bambino", come si capisce proprio dal titolo, è un film che parla del dover diventare adulti. Attilio, il protagonista, ha 17 anni e possiede ancora una sua innocenza, una sua ingenuità, ma vive in una realtà in cui queste non sono altro che debolezze. Attilio è ingenuo perché pensa di potersi innamorare di una prostituta e di poterla salvare, è ingenuo perché pensa di poter saldare i debiti del padre e di poter salvare quest'ultimo e, infine, è un bambino, perché pensa di poterlo fare senza conseguenze.
Questo film ci mostra quegli spazi urbani che sono considerati "spazi vuoti", ovvero quegli spazi che, per la maggior parte delle persone, me compreso, sembrano non esistere, come se al loro posto non ci fosse altro che il vuoto, degli spazi fatti di sola assenza. Pistone riesce a catturarli e a renderli reali, solidi e pieni: si tratta di spazi in cui il concetto di eredità è ancora importante (mentre altrove è stato dimenticato), spazi in cui contano ancora valori come la famiglia e il rapporto con il quartiere. Ambienti, insomma, in cui esistono ancora delle dinamiche sociali ben definite, da cui non si può e non si deve evadere (come invece prova a fare Attilio).
Insomma, sono felice perché questo film, assieme a Vermiglio di Delpero, mi dà speranza per il futuro del cinema italiano.
Aurora Sirtori
Babygirl, l’ultimo film di Halina Reijn, sembra avere una trama molto semplice, banale, quasi da storiella wattpad. Ma sarebbe scorretto liquidarlo in questa maniera.
La verità è che quella che pare una storia come tante altre in realtà tratta temi rilevanti e lo fa in chiave del tutto nuova.
Babygirl è portatore di una visione specifica sul potere, sulla sessualità e sul desiderio. Ma procediamo per gradi e concentriamoci su ciascun punto.
Romy, la protagonista, è amministratrice delegata di un’influente azienda, è una donna di successo ed è estremamente rispettata sul posto di lavoro. Alla sua figura si contrappone quella di Samuel, stagista in cerca di un mentore all’interno dell’azienda.
Dal punto di vista lavorativo è evidente la posizione di potere della prima nei confronti del ragazzo.
La vicenda si complica nel momento in cui questi ruoli vengono invertiti. Infatti, Samuel comprende presto la mancata soddisfazione dei desideri sessuali di Romy e ne approfitta, mostrandosi disposto a realizzare tutte le sue fantasie.
Ed ecco che a letto, Samuel ha il potere, ha Romy alla sua mercé e la capacità di farle fare tutto ciò che desidera.
In poco tempo una donna, matura, di grande successo viene piegata da un giovane ragazzo, che dovrebbe invidiarle tutto, a partire dalla posizione che ricopre.
Romy vive terribilmente la sfera sessuale fino all’entrata in scena di Samuel.
Dopo anni di matrimonio e due figlie, ammette di non aver mai avuto un orgasmo con suo marito. Tanto è vero che nella seconda scena, a pochi secondi dall’inizio, la vediamo darsi piacere da sola subito dopo un rapporto con il compagno.
A darle tormento sono anche le sue fantasie sessuali, che non le danno pace, diverse volte le si presentano e via via si sente sempre più sbagliata, malata.
Infine, possiamo aprire una riflessione più generale sulle voglie che spesso ci attanagliano. Come mostrato in Babygirl respingerle è controproducente.
Talvolta è meglio assecondare i nostri desideri per evitare che si presentino più forti e insistenti in futuro, senza la possibilità di controllarli, con effetti distruttivi all’interno della nostra vita.
Per quanto questi possano essere imbarazzanti, gli autori del film vogliono spingerci ad esternali, a comunicare.
Tirando le somme, Babygirl vuole lasciare il segno sui suoi spettatori e ci riesce a pieno, toccando la loro sensibilità. Guardandolo vi capiterà di provare vergogna, di sentirvi in ridicolo o addirittura di provare pena per la protagonista. Vi sentirete i diretti interessati degli eventi.
Babygirl è un film complesso, che spazia con le sue tematiche, che sconvolge, stranisce; insomma è un po’ fuori dalle righe. O lo si ama o lo si odia.
Eleonora Noto
Giunge dalla penna del francese Christophe Honoré uno dei protagonisti più surreali della passata
stagione cinematografica. Si tratta della commedia esistenziale Marcello mio, a cui oltre che in fase
di scrittura Honoré ha lavorato per quanto riguarda la regia. L’intenzione è quella di impostare una
riflessione su un pesante retaggio genitoriale, e quale figura più consona ad incarnarlo se non quella
di Chiara Mastroianni, peraltro frequente collaboratrice del regista. L’attrice, figlia dell’icona tutta
italiana di cui porta il cognome (e, non secondariamente, di Catherine Deneuve) per una durata di
121 minuti abita una vicenda ricamata sulla sua figura, dall’andamento curioso e marcatamente
metalinguistico. Il progetto, presentato lo scorso maggio al sempreverde Festival di Cannes, giunge
nelle sale internazionali pochi giorni dopo.
Chiara Mastroianni è ormai adulta, i giorni dell’infanzia sono passati ma le silhouette delle figure
dei genitori sono nel suo presente ugualmente mastodontiche. Ovunque e comunque si muova, sia
nella vita privata che soprattutto in quella professionale, la presenza genitoriale è iper-presente.
L’attrice è stanca di sentirne il peso, di subire le interferenze di una madre (Catherine Deneuve) che
dispensa consigli non richiesti e di un padre, Marcello Mastroianni, che pur non essendoci più
sembra far sempre capolino. È esausta di sentirsi dire di recitare “meno à la Deneuve”, o di porsi
“più à la Mastroianni”. Il debito nei confronti della figura paterna è pressante e onnipresente.
Estenuata, Chiara giunge ad un elementare conclusione: mi volete come lui? Dunque diventerò lui.
Ed è così che, con l’aiuto di una parrucca, un completo, un cappello e dei baffi finti, Chiara smette
di essere se stessa per rendersi suo padre. Abbandona il suo francese di nascita in favore della lingua
italiana, ripropone le sue pose, pretende che la gente si rivolga a lei (a lui?) con l’appellativo di
Marcello. Assume la fisionomia dell’icona e assorbe le abitudini del padre, frequentando gli stessi
ambienti e facendo propri i vizi e le usanze. Di fronte ad uno stravolgimento tanto convinto e
repentino, i suoi cari non possono esimersi dal manifestare preoccupazione: in pochi la
assecondano, molti altri sollevano dubbi e perplessità. Ma, per quanto paradossale, il volo pindarico
della trasformazione può essere per Chiara ciò che le consente di imparare a nuotare da sola, a
destreggiarsi nella vita con le proprie forze.
Cristophe Honoré, per il quale Marcello mio costituisce il tredicesimo lungometraggio, con la
maestria dell’esperienza guadagnata nel tempo compone il surreale inno dei nepo baby, a cui un
fortunato albero genealogico può aver permesso di incontrare porte aperte, ma a costo di un ritorno costante a chi ha dato loro le chiavi d’accesso alla fama. Chi dunque meglio di Chiara Mastroianni,
doppia figlia d’arte, per dare corpo a questa condizione di vantaggio ambivalente. Attraverso un
percorso quasi psicoanalitico nel presente della protagonista, la sceneggiatura esplora il concetto di
eredità (chiaramente in senso lato, non di accezione monetaria), sempre in bilico tra propulsione e
fardello. Un retaggio di cui beneficiare, soprattutto agli esordi di una carriera “facilitata”, ma di cui
dover rispondere sistematicamente nel lungo termine. In questa commedia umana - l’etichetta è per
Marcello mio più che mai calzante - la concettualità poggia su una base di realtà concreta per
approdare a derive narrative. Il metalinguismo si fa così non solo proiettato sul corpo filmico, ma
anche sul personaggio. Ad andare incontro ad una lettura complessa e stratificata non è unicamente
il film, ma anche la protagonista che lo abita, di cui l’esperienza di vita tanto investe la trama.
Chiara è ovviamente Chiara, ma è anche Marcello, e questa dicotomia colloca il prodotto in un
limbo incerto fra vissuto reale e diegesi fictional. Certo, un andamento del genere comporta rischi
non indifferenti, e non a caso di tanto in tanto la trama vacilla. I passaggi dall’assurdo debordante
alla narrazione eccessivamente placida sono in effetti talvolta repentini, ma permettono comunque il
delinearsi di un piacevole anomalo racconto di formazione che ha per riferimento il mito.
Gli spunti d’ispirazione dell’approccio alla scrittura di Marcello mio sono plurimi, se si focalizza
sullo spunto serioso calato in una dinamica dai toni comici. Fra i tanti, è impossibile non pensare,
ad esempio, a Victor Victoria (Blake Edwards, 1982), storia di un trasformismo che ha segnato
un’epoca. Ma, giocando con l’elemento aggiuntivo di una metamorfosi rivolta ad una figura paterna
leggendaria, il meccanismo si eleva ad un piano indubbiamente più complesso. Data questa matrice,
il percorso è ancor più viscerale e incisivo. E quando infine Chiara, alla ricerca dell’eco del padre,
finisce per trovare se stessa, la nostra reazione più probabile è quella di un sospiro di sollievo di
fronte al sopraggiunto equilibrio. In questo sviluppo, la performance della protagonista si fa
inevitabilmente sentita. Chiara Mastroianni proietta il proprio vissuto su una scrittura che le è amica
mettendola però contemporaneamente alla prova. Ma a stupire forse ancor di più è l’autoironia e la
disponibilità con cui si avvicina al progetto l’altra sua componente genitoriale altrettanto
leggendaria, quella costituita da Catherine Deneuve. La diva affronta questa operazione scegliendo
un approccio giocoso, complice, non scontato (e dunque rispettabilissimo) dall’alto del suo statuto.
In definitiva, Marcello mio è un progetto che si ripiega su se stesso giocando instancabilmente con
le impalcature testuali dettate dai suoi personaggi. Nel farlo si diverte, e dunque non può fare a
meno di divertire a sua volta l’osservatore.
Carla Lucia Stendardo
Diventare adulti e acquisire quella maturità che caratterizza lo stato psicologico dell’adulto sembra oggi quantomai difficile. A renderlo tale è quella “sindrome di Peter Pan” che sembra aver colpito gli adulti, ora adultescenti, digitali. La questione centrale è la progressiva e sempre maggiore identificazione degli adulti con gli adolescenti, rinunciando quindi a quel processo naturale di crescita, soprattutto emotiva. Dove può dunque trovare maturità e responsabilità, stabilità e sicurezza, un ragazzo, ancora indefinito nella sua forma opaca, circondato da tanti “genitori-bonsai”, tanti adolescenti nel corpo di adulti che scappano alla vista di responsabilità e doveri che, in teoria, dovrebbero accogliere e gestire come parte della loro natura di adulti e genitori «formati»? L’acquisizione di una forma, un’identità unica e stabile che possa fare da pilastro portante nella vita del ragazzo è continuamente rimandata, la si cerca di scansare per evitare di esserne toccati e condannati ad una vita distante dalla spensieratezza infantile e adolescenziale. L’adultescenza si concretizza quindi in un’identità opaca, sempre incoerente con se stessa e inconsistente, mai definita e mai realizzabile, sempre libera ma schiava della sua incertezza, priva di legami con la realtà, quasi alla deriva, ormai lontana dalla forma che la vita severamente richiede. Ora, nonostante questo fenomeno di eterna giovinezza e di fuga dal mondo adulto sia inequivocabilmente cresciuto nell’era moderna, quella digitale, e sia amplificato da numerosi fattori nuovi e moderni che ne complicano la natura, lo ritroviamo, talvolta, negli animi di chi ha abitato il passato. Basta saperne leggere qualche parola per scoprirlo.
Arthur Rimbaud, per esempio, è uno dei nostri Peter Pan del passato. La sua stessa esistenza, così come ovviamente le sue opere, riflettono quella tensione costante tra una ribellione giovanile mai stanca e mai appagata e una mancata transizione verso la maturità adulta. La sua vita e le sue opere mostrano un sistematico rifiuto delle responsabilità e delle aspettative della società adulta. Questo rifiuto è evidente nella sua decisione di vivere da vagabondo, posizionandosi nel polo opposto rispetto alla tipica, ferma e rispettabile vita adulta. Altro filo che lo tiene fin troppo vicino all’età adolescenziale, e quindi ad una particolare incapacità di mantenere rapporti affettivi stabili e duraturi, è lo stesso filo che lo tiene legato a Paul Verlaine, con cui intrattiene una relazione tumultuosa e disturbata da passioni distruttive tipiche di chi non possiede la capacità del controllo. Un controllo che manca totalmente nel mondo emozionale dell’adultescente (e adolescente), ieri come oggi: un’oscillazione perpetua, stremante, tra orgoglio, angoscia, poi ottimismo, delusione. Un vortice emotivo che non si riesce ad ammaestrare, che avvolge, sconvolgendo, la propria identità, rendendola passiva e inadatta alla sua stessa attuazione.
there’s a bluebird in my heart that
wants to get out
but I’m too tough for him,
I say, stay in there, I’m not going
to let anybody see
you.
(Estratto della poesia “Un uccello azzurro”, Charles Bukowski, 1992)
Così Charles Bukowski si confessa al mondo, e alla parte più profonda di se stesso, l’«uccellino azzurro», ammettendo esplicitamente la sua inadeguatezza nel guardare chiaramente le sue emozioni, conoscerle e ri-conoscerle e, soprattutto, accettarle, apprezzarle. E come Bukowski, gli adolescenti e adultescenti di oggi sono completamente estranei al loro mondo emozionale, non riescono a capire cosa provano, non sanno nominare le loro stesse emozioni. L’estraneità delle nostre emozioni, delle nostre sensazioni, ci caratterizza pienamente: ci troviamo in una situazione di estrema e angosciante lontananza dal mondo e dagli altri, che ora sembrano parlarci in altre lingue o non parlarci affatto. Sembra essersi avverata quell’incomunicabilità pirandelliana che siamo stati abituati a studiare e leggere, e che ora viviamo. «Crediamo d’intenderci; non c’intendiamo mai!» : così ci viene presentato l’urlo rivelatore di uno dei protagonisti di “Sei personaggi in cerca d’autore”, e così sembra gridarci nell’orecchio la nostra attuale condizione umana, a-sociale.
La solitudine che inevitabilmente ne scaturisce, che ci rende nuclei isolati nel nostro bisogno di comunicazione, solitudine illuminata dalla luce acciecante degli schermi, ci pervade senza possibilità di fuga. In ambito artistico, oltre che letterario, si è cercato di dare un volto a quest’ombra che l’uomo si è sempre portato dietro, forse per averla più chiara davanti agli occhi, per darle forma ed esorcizzarla. Emblematiche le opere di Edward Hopper, che sembra usare come modella proprio la solitudine. Una solitudine definita “silenziosa”, che è nascosta dalla presenza di altri soggetti (nelle tele come nella vita), e proprio da questa amplificata. Quel “sentirsi soli tra la gente” pugnalante che è, necessariamente, accompagnato e determinato da un’impossibilità comunicativa. È il caso di “Room in New York”, sotto riportata, che sembra descrivere visualmente in modo perfetto e immediato l’analfabetismo affettivo che dobbiamo giornalmente sopportare, insieme a quel sentirsi spesso inadeguati e mai compresi che troviamo spesso nell’età adolescenziale.
(Room In New York, Edward Hopper, 1932, Sheldon Museum Of Art)
Ma perché la sfera emotiva ha così tanta rilevanza nella costruzione della nostra forma? Ebbene il mondo su cui la nostra identità poggia, cresce e si costruisce, è umana, e in quanto umana è affettiva, emotiva, passionale. Antonio Damasio scriveva, ne “L’errore di Cartesio”, che non siamo macchine pensanti che si emozionano, al contrario siamo macchine emotive
che pensano, mettendo quindi al vertice della piramide gerarchica delle nostre diverse parti costitutive proprio l’emotività. L’essere umano si emoziona, è egli stesso emozione, passione, struggimento, angoscia. L’umano oggi ha smesso di essere tale, siamo analfabeti d’amore.
Si rende necessaria, dunque, un’«educazione affettiva» che possa insegnare ai nostri Peter Pan a crescere e acquisire maturità, anche e soprattutto dal punto di vista affettivo.
«Abbiamo fame di tenerezza, / in questo mondo dove tutto abbonda […]» (Alda Merini)
Un’ulteriore questione si incontra a questo punto: come è possibile un’educazione alle emozioni e ai sentimenti in un mondo, quello digitale, che ha completamente disconosciuto queste parole? La cultura digitale ha infatti completamente disintegrato il nostro pensiero critico, presentandoci un sapere ormai disordinato e frammentato, che inevitabilmente ci confonde. Divulgatore e destinatario del sapere si dissolvono ormai l’uno nell’altro, si contaminano a vicenda fino a creare un non-sapere che caratterizza la crisi delle conoscenze che stiamo in questo momento vivendo. Si ha a disposizione una quantità di informazioni tale da sopraffarci, troppo vasta per rientrare nei nostri concetti di spazio e tempo: tutto è diventato vicino e immediato. Questa riduzione dello spazio e del tempo, regalatoci da Internet, ci debilita abituandoci ad una dimensione di immediatezza che non ci appartiene. L’attività, nel mondo digitale, si riduce in passività. L’attesa e il silenzio hanno ormai smesso di abitare dentro di noi. Quello che ci circonda è il caos, inseguiamo degli istanti che immediatamente ci sfuggono, ed è questo che non permette di crescere e raggiungere una propria stabilità. Questo velo digitale, questo schermo che ci illumina il viso rendendo palese la nostra lontananza dal mondo sociale, ci chiude gli occhi, siamo ciechi di fronte al viso degli altri. Anzi proprio la componente più “corporea” dell’emozionalità qui viene meno: il volto. Una parte fondamentale della comunicazione emotiva tra esseri umani è il linguaggio non verbale, che sfugge alla nostra volontà e alle nostre distorsioni, l’unico ad essere completamente veritiero: è questa parte della nostra umanità che il mondo digitale ci ha precluso. Manca lo scambio sano di emozioni tra gli individui, rinchiusi nella loro gabbia luminosa. Eravamo, per Aristotele, animali politici, sociali, nati ed evoluti per vivere con gli altri, anche Hegel nella sua Fenomenologia ce lo insegna. Ora abbiamo perso la nostra socialità, ed insieme ad essa la nostra umanità, per chiuderci nella nostra distanza e diventare animali digitali. Vivevamo di emozioni, ora viviamo di apatia. Il nostro mondo emozionale e quello dell’altro diventano vicendevolmente incomprensibili, estranei ed esterni, siamo schiavi di questa ignoranza. Mancano le relazioni interpersonali, ormai solo virtuali, e mancano le relazioni, le conversazioni intrapersonali: siamo inadeguati a capire chi ci sta di fronte, anche se si tratta del nostro riflesso. Siamo «uomini soli, ma connessi; poveri di sentimenti, ma confortati dai prodotti; appartenenti a mondi esclusivi, ma tagliati fuori da un orizzonte comune»
CINEMA ESPOSTO E POST-MEDIALITÀ
Secondo la FIAF (International Federation of Film Archives) è film:“ Ogni registrazione di immagini in movimento, con o senza accompagnamento sonoro, quale che sia il supporto”. Attenendosi a codesta definizione - non per limitare la multiformità del cinema, ma per far sì che possa fungere da bussola nel vasto territorio della film theory odierna - proviamo ad orientarci all’interno dell’articolato e poliforme panorama cinematografico-artistico contemporaneo.
Tenendo conto dell’ormai noto concetto di post-medialità - fenomeno individuato nel passaggio dei media alla tecnologia digitale, con tutto ciò che ne concerne: dalla “naturalizzazione” dei dispositivi al loro filtraggio della realtà - la rilocazione delle immagini in movimento è un aspetto da cui sembrerebbe facile partire. Questo perché siamo sempre più abituati al consumo di prodotti audiovisivi su apparecchi non propriamente destinati alla fruizione di determinate opere. Non più sale cinematografiche, ma monitor, smartphone, tablet, schermi pubblicitari. Ci sono infatti artisti che su questo “reshoring” delle immagini in contesti sempre diversi stanno progressivamente riflettendo all’interno della loro filmografia.
In un’oscillazione costante tra cinema e arte contemporanea, Albert Serra - regista catalano classe 1975 - è sicuramente uno dei più abbienti nell’attuale ecosistema mediale. Serra crede nella necessità di un’auto-riflessione del medium-cinema, solo così lo stesso avrebbe la possibilità di sopravvivere nel tempo della "vaporizzazione" dei dispositivi. In questo modo, l’opera dell’artista catalano è sempre spinta da una profonda sperimentazione, non solo nel linguaggio, ma anche nel supporto per cui è realizzata. Questo per Serra è possibile anzitutto grazie alla svolta digitale, che permette al filmmaker un controllo totale del processo produttivo. Ma è dalla libertà espressiva, data dalle dinamiche interne al circuito artistico contemporaneo, che Serra ha potuto radicalizzare ancora di più il suo linguaggio, oltrepassando il confine dello schermo cinematografico e approdando alla video-installazione.
Un esempio indicativo è The Three Little Pigs (2012), monumentale installazione performativa dalla durata di 101 ore, in cui emergono tutti i topoi dell’opera di Serra: dall’idea di performance, alla temporalità dilatata - con lunghi piani sequenza -, fino alla riflessione sul corpo attoriale. Bisogna assolutamente sottolineare l’influenza di un ulteriore medium: quello letterario. Il regista catalano tende sempre a far presente quanto sia stata importante la sua formazione letteraria, che riecheggia assiduamente nei suoi film. In The Three Little Pigs, Serra traspone in immagini in movimento tre testi su altrettanti personaggi storici. Il risultato supera anche il contesto storico nel quale il “film” è realizzato. Mettendo in discussione la classica narrazione biografica del biopic, e quella del film storico, rompendo le logiche della rappresentazione. Per un’opera impossibile da categorizzare rivolgendosi ai generi cinematografici.
Come era avvenuto in precedenza con Honor de cavalleria (2006) e El cant dels ocells (2008), e come avverrà in seguito con Història de la meva mort (2013), La
Mort de Louis XIV (2016) e Liberté (2019), Serra ricontestualizza e fa suoi determinati momenti storici. In questi trova terreno fertile per ricostruzioni di vizi e virtù umane che ricorrono nel corso della storia. Quindi, non rappresentazioni storiografiche, ma immagini che hanno il valore di quadri, in cui l’artista dipinge un particolare attimo della vita di un personaggio. Sono personaggi, quelli di Serra, che portano il peso di intere classi sociali; il cui corpo stanco, e la cui lenta - ma ormai prossima - decadenza è inquadrata dal regista con fervore e con partecipazione, come fosse la macchina da presa a togliergli la vita. È evidente la natura politica, ma nei suoi film vi è sempre una tangibile ambiguità di fondo: questa è essenziale, poiché lascia spazio all’ultimo anello della catena - lo spettatore - di inserirsi e riflettere su quanto visto.
L’approccio di Albert Serra è orientato verso la definizione di cinema esposto. Questo perché la volontà del regista catalano è quella di muoversi nell’ambito dell’arte, e lasciarsi suggestionare dall'eterogeneità degli elementi che essa mette a disposizione, ma di nutrirsi di un cinema che non debba più appellarsi a meccanismi ormai stantii. Le sue produzioni sono contraddistinte da una frequente improvvisazione, senza regole prescritte; tentano di trasmettere l’intensità e la singolarità della vita. È poi, in fase di post-produzione, con il lavoro al montaggio, che raggiungono il senso ultimo; in cui la manipolazione cinematografica diviene performance, con, anche qui, spontaneità nel combinare le immagini; al di là di una consecutio narrativa.
Alla luce di quanto detto, appaiono chiare le motivazioni che hanno spinto Serra a girare Tardes de soledad (2024) - documentario sulla corrida in cui il regista si muove tra realtà e finzione - anche se lo stesso Serra ha dichiarato più volte di non amare la forma documentaristica, e che Tardes de soledad sarebbe stato il suo primo e ultimo documentario.
Andando oltre, l’autore che più di tutti incarna la cultura post-mediale è Harmony Korine. Il regista americano indie nella sua filmografia si è sempre mosso su due piani: la messa in scena di un nichilismo incessante, con conseguente svuotamento emotivo di cui sono affetti i suoi protagonisti, e una continua sperimentazione formale. Quest’ultima è stata l’oggetto di studio di Aggro Dr1ft (2023) e Baby Invasion (2024), entrambi presentati alla Mostra del Cinema di Venezia. Successivamente, tutti e due non hanno goduto di una regolare distribuzione, ma sono stati proiettati in vari night club di Los Angeles e New York; non più, quindi, esperienza cinematografica unica, ma proiezioni di sostegno ad un altro tipo di evento.
Il caso più rappresentativo è sicuramente Baby Invasion. Un delirio di linguaggi, forme, spazi che si sovrappongono; un film difficile da descrivere, ma che ben sintetizza l’incursione mediale, la bulimia di segni appartenenti a diversi media: dal videogioco all’interfaccia twitch, fino alla riproposizione della trascendentalità tipica del Korine post- Spring Breakers (2012).
“THIS IS NOT A FILM”, compare a schermo durante Baby Invasion: è dunque vero? Il cinema - nella sua definizione più classica, non quella data dalla FIAF - è stato
surclassato, inghiottito dal turbinio post-mediale? Dall’ormai svelato rimpiazzo della realtà a favore dell’iperrealtà?
Il cinema è un’arte estremamente flessibile, che attrae a sé queste ingerenze mediali soprattutto per evolversi, per trasformarsi in qualcosa che non si eroda con il passare del tempo. Un’arte che accoglie, non rifiuta; che ingloba, rimodella, plasma. Francesco Casetti, nel libro La galassia Lumière, scrive:” (...) il cinema è sempre stato una “macchina” assai flessibile, aperta alle innovazioni e insieme attenta ai propri equilibri; se è vero che il cinema oggi si trova di fronte a una sfida decisiva, che lo spinge verso nuovi territori e nuove forme di esistenza, è anche vero che è come se esso vi fosse preparato da tempo”.
D’altronde, anche il regista francese Robert Bresson, le cui parole assumono oggi connotati profetici, sosteneva:” Cinema must evolve, it can’t permanently remain as it is”. E se di fronte a tutto questo, neanche un gigante della New Hollywood come Francis Ford Coppola si è tirato indietro, qualcosa dovrà pur significare.
Megalopolis (2024), lisergica odissea retro-futuristica, è la presa di coscienza di un vecchio maestro a confronto con l’impossibilità del cinema di riprodurre il reale. Uno stretto dialogo, quindi, con le nuove forme del contemporaneo, ma anche con l’essenza delle immagini di oggi. Un contenitore di archetipi del cinema di Coppola, di dati che sembrano essere stati rielaborati e montati insieme da un’intelligenza artificiale.
All'astrattezza del digitale - a questa incapacità di comprendere l’effettiva esistenza di qualcosa che viva oltre le immagini che creiamo, e che sostituiamo al reale - Coppola contrappone la speranza. La speranza che lui riversa sul cinema come strumento di unione. Questa prospettiva è, invece, quasi opposta a quella dell’ultimo film di un altro grande maestro: The Shrouds (2024) di David Cronenberg. Il protagonista, Karsh, nel tentativo di elaborare il lutto della moglie, si circonda di schermi, immagini, volti - la sorella della moglie, interpretata dalla stessa attrice - che la ricordano. Come Cronenberg stesso afferma: “I film non salvano dal dolore”, Karsh - alter-ego del regista canadese - cade rassegnato nella moltitudine di copie, patine, doppi, che lui stesso ha creato. Un punto di vista divergente rispetto alla visione del collega Coppola. Con Megalopolis oltre a metterci a conoscenza delle problematiche che derivano dalla digitalizzazione, Coppola ci propone anche una soluzione, una concezione più ottimista. In The Shrouds si percepisce una castrazione di un’ipotetica risoluzione, che lascia più interrogativi. Due modi di porsi in dialettica con la contemporaneità antitetici tra loro, ma similmente stimolanti.
Per concludere, imporre dei paletti al cinema - o alla propria idea di cinema, a ciò che interessa o meno - denota una scarsa fiducia verso esso; e chiunque pensi che il cinema sia “altro” finirà, in qualche modo, per ricredersi.
Albert Serra, Harmony Korine, Francis Ford Coppola, David Cronenberg, sono solo alcuni dei registi che stanno venendo a patti con l’assodato assorbimento da parte del cinema di altri linguaggi - e con la dissoluzione delle distinzioni tra i media. A questi si aggiungono anche Jonathan Glazer, Bertrand Bonello, Radu Jude, e tanti altri ancora.
È, dunque, impossibile opporre resistenza ad un movimento intrinseco presente fin dalla nascita, e che, di certo, non cesserà proprio adesso.
“Cambia la parola cinema e cambierà tutto, lentamente ma cambierà. Non è facile ma penso che non sia impossibile. [...] Immagine in movimento, schermo, qualunque cosa ma non usare mai la parola cinema.
[...] Non dobbiamo discutere della morte del cinema perché non facciamo più parte del cinema. [...] A loro date cinema, a noi arte”.1
Albert Serra
Silvia Balestrieri
“La cultura è resistenza, nessuno può togliercela”.
Queste parole sono state pronunciate dalla protagonista del film “Leggere Lolita a Teheran”, l’attrice Golshifteh Farahani, basato sull'omonimo libro autobiografico di Azar Nafisi, presentato alla Festa del Cinema di Roma 2024. Parole forti, che hanno racchiuso la situazione politica e femminile degli anni ‘80 in Medio Oriente, attuale ancora oggi. L’autrice insegnava letteratura inglese all’Università di Teheran, ma a seguito della Rivoluzione Islamica del 1979 scelse di smettere di insegnare a causa delle continue repressioni e censure, che colpivano più in generale sulla vita della donna, costrette a portare il velo e a seguire altre restrizioni. È stato senza dubbio un evento che ha cambiato la geopolitica dell’Iran e del Medio Oriente: nel gennaio del 1979 Khomeini salì al potere, a seguito della fine della monarchia iraniana, il quale criticò fortemente il regime allora regnante, accusando l’Iran di essere un “burattino” degli Stati Uniti e di farsi influenzare in modo negativo dall’Occidente. A marzo dello stesso anno, dichiarò che il paese sarebbe diventato una Repubblica Islamica e impose la legge islamica, basata sulla teocrazia. Tuttavia, comportò delle limitazioni per quanto riguarda la vita femminile, obbligandole a portare il velo (l’hijab, che copre tutto il corpo) come già detto in precedenza, escludendole dalla partecipazione politica e sociale e addirittura anche dalla formazione e dalle espressioni artistiche.
Mentre il paese attraversava questo cambiamento politico, Nafisi per non interrompere del tutto il suo insegnamento universitario, decise di organizzare un seminario privato una volta a settimana, invitando un gruppo di studentesse a casa sua per poter discutere di letteratura; nel corso della narrazione si può notare come i dibattiti vertano su grandi romanzi, come “Lolita”, “Il grande Gatsby”, “Orgoglio e Pregiudizio”, “Cime tempestose” e le studentesse cercano di collegare le tematiche dei libri alla situazione politica che stavano vivendo, stimolando in questo modo un colloquio intellettuale, come in una reale lezione accademica.
In questo modo la letteratura viene percepita come una forma di resistenza, in cui i lettori possano immedesimarsi e trovare degli spunti di riflessione, utili per prendere atto dei regimi che soffocano l’umanità e limitano la libertà di espressione. “Leggere Lolita a Teheran” è l’opera emblematica per questo problema, nella natura propria di come è strutturata: un’opera letteraria, che si occupa di romanzi e grandi idee, dalla quale si arriva a dipingere il riquadro iraniano per mettere in discussione ciò che risulta obsoleto e ingiusto per i diritti delle donne, non solo nella regione mediorientale. Proprio per questo è stato scelto “Lolita” come libro da usare per il titolo: Dolores, il vero nome della protagonista, è imprigionata nella figura di Humbert, un personaggio che usa la sua posizione maschile per esercitare potere, favorito dalla debolezza dovuta alla giovane età di Lolita. Un titolo non casuale, che riflette la condizione che le donne dell’epoca subivano e che purtroppo continuano ancora a vivere: una condizione di oppressione maschile e Nafisi riporta il parallelismo che vede le donne come la piccola Lolita e il regime islamico come Humbert. L’ossessione di Humbert per la bambina non è solo un fattore estetico, ma più precisamente esprime una presa di posizione da parte sua per un controllo della personalità di Lolita, mettendola all’oscuro ed eliminando la sua figura di futura donna, sottomettendola alle sue decisioni, così come sta accadendo in Iran, Afghanistan e altre zone del mondo.
Nonostante Nafisi abbia già utilizzato la sua scrittura come pretesto per denunciare le oppressioni della Repubblica Islamica, la situazione attualmente non è cambiata molto. L’11 dicembre 2024 Amnesty International ha pubblicato un articolo in cui si parla della proposta di reintroduzione del velo obbligatorio in Iran, a tutte le donne, musulmane e non, anche le turiste. Anche se è stata rinviata a seguito delle proteste, segna un’ulteriore negazione dei diritti delle donne; la proposta di legge, composta da 74 articoli, “prevede anche pene come frustate, multe esorbitanti, dure condanne detentive, divieti di viaggio e restrizioni all’istruzione e all’occupazione per le donne e le ragazze che si oppongono al velo obbligatorio”.
La morte di Mahsa Amini nel 2022, arrestata dalla polizia morale a Teheran per non aver indossato correttamente il velo e morta poco dopo in detenzione, ha scatenato un’ondata di proteste e dando origine al movimento “Donna, Vita, Libertà”. Purtroppo decine di attivisti continuano ad essere arrestati, tra cui la giornalista italiana Cecilia Sala, arrivata in Iran il 12 dicembre scorso per il suo lavoro giornalistico, ma è stata detenuta in isolamento dal 19 dicembre all’8 gennaio; come riporta il Sole 24Ore, l’Iran solo nel 2024 ha arrestato 644 donne per uso improprio del velo. La lettura di “Leggere Lolita a Teheran” non serve solo a comprendere il contesto storico degli anni ‘80 iraniano, ma è fondamentale reinterpretarlo in una chiave di lettura attuale: la scrittura, ancora e soprattutto oggi, risulta uno strumento politico potentissimo che aiuta a creare un dibattito e a stimolare una riflessione sull’attualità. Nafisi e le sue studentesse hanno dimostrato come la letteratura possa essere resistenza, di lotta per le classi sociali e i diritti umani; la cultura aiuta a sviluppare il pensiero critico e se c’è cultura alla base di un governo, allora esiste la libertà per il popolo.
Era il 1964 quando la nuova voce rivoluzionaria del folk, Bob Dylan con un’armonica ed una chitarra profetizzava tempi decadenti con la vibrante The Times They Are A-Changin'. Lotte di classe, manifestazioni, conflitti internazionali e corse allo spazio. Gli anni sessanta rappresentano un periodo di enorme cambiamento. Ed è sullo sfondo di una Bruxelles in piena crisi adolescenziale che Michèle, una giovane incerta della sua identità in fuga dalla routine scolastica, inciampa in Paul, un rifugiato polacco. Tra i due nasce un legame istintivo realizzato sulla base di sguardi e conversazioni sul futuro e la libertà. Nello scenario mondiale irrequieto del tempo, come la guerra in Vietnam e le tensioni in Algeria, Michèle è assorbita dalle trasformazioni del paese, tratteggia per noi i timori socio-culturali del cambiamento interno. Il Belgio per tutti gli anni ‘60 è stato teatro di urbanizzazione, tensioni linguistiche franco-fiamminghe e influenze culturali che portarono i giovani a crescere in una costante condizione di ricerca di stabilità emotiva.
La connessione tra individuo e ambiente è l’aspetto principale di una delle opere più interessanti di Chantal Akerman: Ritratto di una ragazza alla fine degli anni '60 a Bruxelles (Portrait d'une jeune fille de la fin des années 60 à Bruxelles).
Mediometraggio televisivo della durata di un’ora, è tratto dalla serie Tous les garçons et les filles de leur âge, nove episodi diretti da nove registi diversi (Claire Denis tra gli altri) che hanno il compito di raccontare l’adolescenza. L’episodio girato da Chantal Akerman nel 1993 destruttura un’epoca, osservandola con un occhio più maturo, quasi trent’anni dopo, con l’impressione di trarre riflessioni sul presente e le crisi di fine secolo.
Chantal Akerman con una camera leggera ricerca da vicino le espressioni, le reazioni e i sentimenti di Michèle. Lunghi piani sequenza si perdono in dialoghi profondi e naturalistici, scivolando in frammentazioni di montaggio per passare da un ambiente all’altro. Assorbita da ciò che rifiuta e ciò che la spaventa, Michèle è plasmata in un disegno psicologico senza mutare troppo sotto l’occhio vigile della macchina da presa, inseguita fino alla fine della sua fuga, quando si ritroverà ugualmente sottomessa ai dogmi della società. Una tensione irrisolta che lascia poco spazio alle speranze della protagonista. Un ritratto autentico di una generazione in bilico tra lo spazio e il tempo.
Basta sbirciare le nuove generazioni per rendersi conto quanto l'opera invecchi tremendamente con una lentezza disarmante. Oltre alle importanti distanze col mondo adulto, c’è un file-rouge che unisce le due epoche: il conflitto israelo-palestinese, già negli anni sessanta simbolo della tirannia dell’invasore e di privazione della libertà. Combattiamo ancora le stesse guerre, per gli stessi ideali, con lo stesso timore e con la stessa voce.
Le giovani generazioni sono state costrette nel tempo ad esprimersi e a denunciare attraverso lo strumento filmico, ponendo domande lecite: in che direzione stiamo andando? Qual è il nostro rapporto con gli altri? Le drastiche domande erano succedute da altrettanto devastanti risposte, se si pensa che nel 1965 un giovanissimo Marco Bellocchio esordisce dietro la macchina da presa con I pugni in tasca, un riflessivo racconto pessimista su un giovane contro le convenzioni sociali, simboleggiando la crisi dei valori tradizionali e il desiderio di un futuro diverso. Quello era un periodo che precedeva infatti un decennio che avrebbe segnato irreversibilmente l’intero paese: gli anni di piombo.
I giovani restano disillusi, senza speranze, nascosti nell’ombra di rugosi corpi flaccidi come la Demi Moore in The Substance (2024). Con la netta differenza che qui non si tratta di paura di invecchiare, ma paura di restare vecchi. Nuove generazioni italiane che devono fronteggiare le pressioni dei vecchi che giudicano con aspettative, in una società dove l’incerta precarietà con un tasso di disoccupazione di circa il 20% è conseguenza diretta di un’instabilità emotiva ed dell’insoddisfazione generale. Oltre il 43% degli Under 35 guadagna meno di mille euro al mese, gli affitti sono alle stelle ed ottenere un mutuo è un’ardua impresa. Un paese in cui ricercare stabilità diventa un viaggio Fantozziano dalle venature pessimistiche e tragicomiche.
Anche le giovani agguerrite speranze che studiano cinema sono schiacciate da un sistema meccanico, impolverato e decrepito. Eppure Da segnalare il lavoro di resistenza, dato che non ne hanno il coraggio distribuzioni o le istituzioni, andrebbero nella lista film come Una Sterminata Domenica (2023) di Alain Parroni o il recente esordio di Edgardo Pistone, Ciao Bambino (2025), Non Credo in Niente (2023) di Alessandro Marzullo e perché no? L’opera economicamente sperimentale Tre Euro e Quaranta (2025), di Antonino Giannotta, sostenuta da un ideale più che da una produzione. Ancora alle prese con giovani protagonisti sbandati e disorientati in un mondo onirico che ha ben poco di tangibile. Un disordine temporale dove, ci piaccia o meno, le lancette continuano a scorrere frettolose.
L’opera ancora attuale di Akerman lascia riflettere quindi su quanto il cinema sia stato ed è uno strumento d’espressione per intere generazioni, per vomitare al mondo chi siamo e chi non vogliamo diventare, anche se con certezza ancora non lo sappiamo. Non dobbiamo sprecarlo.
Se si pensa a fuorilegge, a duelli e in generale, al selvaggio west in ambito cinematografico, non si può non nominare quello che forse ne è nel tempo divenuto il padre assoluto: il regista romano Sergio Leone. Cimentandosi più volte nel genere ed ispirandosi a principi cari ad Akira Kurosawa come la giustizia, la moralità, la concezione del paesaggio come elemento narrativo e, soprattutto, la crescente tensione prima e durante gli epici duelli, Leone arriva a partorire quello che, ad oggi, è considerabile il western più iconico di tutti i tempi: "Il buono, il brutto e il cattivo". Nonostante tale opera preceda l'altrettanto acclamato "C'era una volta il west", riesce a distinguersi per le immortali performance di Clint Eastwood, Eli Wallach e Lee Van Cleef (rispettivamente il buono, il brutto e il cattivo) ma anche, e forse soprattutto, per la magistrale colonna sonora del maestro Ennio Morricone. L’eccezionale compositore, anch'egli romano, riesce con la sua "The Ecstasy of Gold" ad esaltare la scena della disperata ricerca del bottino di uno dei tre protagonisti, quasi quanto l'epico duello a tre che precede. Ciò che meglio rappresenta la spina dorsale del film è sicuramente il rifiuto da parte del regista di usare il classico schema narrativo del "viaggio dell'eroe": qui Clint Eastwood non impara, non perde mai lo stoicismo e l'egoismo che lo contraddistinguono ed esce immutato da una devastante guerra civile che, anzi, preferirà in parte indirizzare e modellare attraverso le sue imprese. Proprio raccontando la guerra civile Leone si dimostra cinico e, per quanto possibile, realista, evitando di idealizzare un fatto storico drammatico e anzi marcando la mancanza di generosità e di umanità di coloro che vi hanno preso parte, riuscendo così ad innalzare un racconto come tanti del selvaggio west, ad una vera e propria fotografia della spietatezza del conflitto che fa da cornice più che cruda alla storia principale.
L'importanza e la solennità del film sono date poi dall'analisi che lo stesso offre di temi come la morte, la redenzione e il tradimento: ogni personaggio ha e dimostra convinzioni ferree alla base di ogni suo comportamento, che spesso lo spingono ad infrangere quelle regole non scritte e quella morale caratteristiche di un periodo storico contraddistinto in gran parte dall'anarchia assoluta; le ideologie di ogni uomo e donna di cui si narra, si intrecciano inevitabilmente tra loro, portando ad una serie di scontri non sempre corretti e spesso conditi da uno straordinario uso della violenza da parte del regista, capace di tenere lo spettatore incollato allo schermo e di renderlo sostenitore del personaggio in cui più si ritrova.
Definito ormai come punta di diamante della trilogia del dollaro e scelto come fonte d'ispirazione da numerosissimi registi quali Quentin Tarantino, Sergio Corbucci e George Lucas, "Il buono, il brutto e il cattivo" rappresenta, ad oggi, la migliore definizione di western della storia del cinema.
Frances Ha (2012) è un film diretto da Noah Baumbach, che segue la vita di Frances Halladay (interpretata da Greta Gerwig), una giovane donna che vive a New York alla ricerca del suo posto nel mondo, sia a livello professionale che personale. Tuttavia la sua ricerca è messa a dura prova non appena le incertezze iniziano a influire sulle sue aspirazioni e relazioni. Un elemento centrale che caratterizza l'intera pellicola è il rapporto con la migliore amica, Sophie. Le due condividono un legame molto stretto, ma quando Sophie decide di trasferirsi con il suo nuovo fidanzato, Frances si trova a fare i conti con la realtà e il suo senso di inadeguatezza. Il mondo di Frances Ha rappresenta una realtà oggi comune ma non normalizzata; composta da lotte ed emozioni che ogni spettatore conosce, permettendogli di empatizzare con Frances e di condividere con lei la consapevolezza che il cammino verso la realizzazione personale è tutt’altro che lineare. Il film concentrandosi sulla lotta per la propria affermazione è chiamato a soddisfare un
"requisito" fondamentale: l'autenticità, di cui la pellicola ne è piena. In primis per la realistica rappresentazione dei vent'anni, catturando con sincerità le difficoltà comuni delle persone ordinarie, senza un'idealizzazione di queste. Infatti, Frances è una ragazza come tante altre che non ha ancora trovato la sua direzione, e il film, girando principalmente intorno a questo topic, lo rende simpatizzante per molti giovani adulti che vivono una simile fase di transizione.
Un altro aspetto che contribuisce a rendere il film così realistico è il modo in cui viene caratterizzato il ruolo principale: Frances di fatto si trova agli antipodi rispetto al classico stereotipo della protagonista dei film di "successo" spesso scambiati per film di "crescita personale". Lei è tutto tranne che perfetta, è vulnerabile, ma è proprio la mancanza di perfezione a farci empatizzare con lei.. Potremmo pensare che le scelte cinematografiche non combacino con il contenuto realistico quando in realtà non è così, tutto è perfettamente allineato, a partire dal tono dei personaggi: sottile, che mescola momenti di leggerezza con altri più malinconici. La comicità del film pur essendo presente non è mai eccessiva, fatta di battute contestualizzate in situazioni quotidiane che appaiono quasi ridicole proprio perché sono così realistiche e riconoscibili; È un umorismo che manca di forzature contribuendo a rendere il film maggiormente autentico. L'intero tono intimistico si sposa perfettamente con la scelta estetica del regista di sviluppare il formato in bianco e nero, contribuendo a rendere l'atmosfera maggiormente nostalgica, tuttavia, non si tratta di una scelta stilistica fine a sé stessa, ma piuttosto una scelta perspicace finalizzata a renderla un'opera cinematografica senza tempo, focalizzandosi così sull'emotività piuttosto che sugli aspetti tecnici moderni. Frances ha, come detto prima, è un'opera senza tempo, sempre attuale. Se tu, lettore, non hai ancora trovato il tuo posto nel mondo e pensi che non lo troverai mai o semplicemente se hai bisogno di compagnia allora ti consiglio caldamente questo film. Ti farà sentire coccolato, sussurrandoti che non sei solo, che non ti rincorre proprio nessuno. Sei libero di ritardare.
Una storia su Instagram dura quindici secondi, un video su TikTok qualche minuto, e un episodio di una serie TV al massimo un’ora. Eppure, nel cinema, esistono ancora autori che scelgono consapevolmente uno stile lento e meditativo. Potremmo definirli pazzi o addirittura ingenui, ma spesso sono proprio loro ad aggiudicarsi i premi più prestigiosi nei festival cinematografici di tutto il mondo.
Due sono i principali pregiudizi che il grande pubblico ha nei confronti di questi film. Da un lato, si pensa che siano apprezzati solo dai critici e dai cinefili più colti, relegati alla nicchia dei cosiddetti “film da cineforum”. Dall’altro, si crede che siano una forma di critica sociale nei confronti di un mondo sempre più dominato dalla velocità e dal consumo immediato di contenuti.
Come spesso accade, la verità sta nel mezzo. Ma pensare che un artista investa anni di lavoro, energia e risorse per realizzare un film destinato a una ristretta élite di spettatori significa fermarsi alla superficie e non cogliere il vero valore di questa scelta stilistica.
1)Il cinema lento come scelta artistica
Lo “slow cinema” non nasce come una provocazione intellettuale, bensì come un’esigenza espressiva. Maestri come Andrei Tarkovsky, Chantal Akerman, Béla Tarr e Abbas Kiarostami hanno rivoluzionato il linguaggio cinematografico, utilizzando la lentezza come strumento narrativo.
Questo stile nasce dal desiderio di esplorare la realtà in modo più profondo. Scene dilatate e movimenti lenti permettono una rappresentazione più autentica dell’esistenza, creando un senso di immersione che avvicina lo spettatore ai personaggi e ai loro stati d’animo. Più tempo si trascorre con un protagonista, più diventa naturale entrare in empatia con lui.
Ma il cinema lento non è solo introspezione: è anche estetica. Nei festival cinematografici, la bellezza visiva è un elemento imprescindibile. In questi film, spesso caratterizzati da inquadrature fisse e lunghi piani sequenza, il regista ha il tempo di “dipingere la sua tela”, costruendo con precisione ogni immagine. Due elementi fondamentali in questo processo sono il staging (la disposizione degli attori nello spazio) e il blocking (i loro movimenti all'interno della scena). L’assenza di un montaggio frenetico consente di anare questi aspetti, trasformando ogni inquadratura in un’opera d’arte.
2)La pazienza dello spettatore
Guardare un film lento è un’esperienza che richiede un coinvolgimento diverso rispetto al cinema mainstream. Non è un semplice intrattenimento da consumare distrattamente, ma un’immersione totale che esige pazienza e attenzione. In un’epoca in cui il ritmo della vita è accelerato e tutto è pensato per catturare l’attenzione nel minor tempo possibile, questi film vanno nella direzione opposta: invitano lo spettatore a rallentare, ad abituarsi al silenzio, a osservare i dettagli che normalmente sfuggirebbero.
Eppure, quando ci si lascia trasportare, l’esperienza diventa straordinaria. Come quando si osserva la pioggia cadere fuori dalla finestra o si attende l’alba in silenzio: nella quiete si nasconde una bellezza profonda.
3)Il Cinema Lento Oggi
Lo slow cinema non è un fenomeno del passato: continua a regalare capolavori anche oggi. Un esempio recente è Perfect Days (2023) di Wim Wenders, che ha conquistato pubblico e critica raccontando la routine di un addetto alle pulizie dei bagni pubblici di Tokyo. Un soggetto apparentemente ordinario che, grazie a uno sguardo contemplativo e poetico, riesce a commuovere e coinvolgere.
Anche l’Italia ha abbracciato questa estetica con Vermiglio di Maura Delpero, vincitore del Leone d’Argento a Venezia, capace di immergere lo spettatore nella vita di un piccolo villaggio del Nord Italia con un realismo poetico e ipnotico.
Ma esistono anche film “lenti” che, pur mantenendo questo approccio contemplativo, hanno trovato un ampio pubblico. Pensiamo a Roma (2018) di Alfonso Cuarón, con i suoi lunghi piani sequenza che raccontano un dramma familiare con straordinaria eleganza visiva. Oppure Drive My Car (2021) di Ryūsuke Hamaguchi, che con le sue quasi tre ore di durata e il suo ritmo meditativo ha saputo emozionare e conquistare anche chi non è abituato a questo tipo di cinema.
4)Un’alternativa al cinema mainstream
Il cinema lento non è un rifiuto del cinema commerciale, ma un’alternativa necessaria. Se i blockbuster giocano su velocità, tensione e montaggio frenetico, questi film lavorano invece sulla sospensione e sull’osservazione. Non si tratta di stabilire quale approccio sia migliore, ma di riconoscere il valore di entrambi. Un buon spettatore, infatti, non si nutre solo di azione e adrenalina, ma trova anche nella lentezza una forma di racconto altrettanto potente.
5)Un’esperienza unica
Il cinema lento non è per tutti, ed è giusto così. Ma per chi riesce ad entrarvi in sintonia, ore un’esperienza intensa e profondamente significativa. In un’epoca dominata dal consumo rapido, questi film ci ricordano l’importanza
della pazienza, della contemplazione e della bellezza nascosta nei dettagli del tempo.
Forse, dopo aver guardato uno di questi film, anche noi potremmo accorgerci di quanto sia bello stare fermi ad ascoltare il suono del vento o il rumore delle onde. Perché la lentezza, quando accolta con la giusta sensibilità, può rivelare emozioni che la velocità ci nega.
Candidato a Miglior film straniero agli Oscar 2025, Vermiglio, diretto da Maura Delpero è una storia tutta Italiana ambientata tra il 1944 e il 1945 in un piccolo villaggio del Trentino Alto Adige. I protagonisti fanno parte della classe operaia, poveri ma con una famiglia numerosa da mantenere e incuriositi dall’arrivo di un soldato siciliano, un disertore che romperà gli equilibri monotoni del villaggio. I ritmi del film sono calmi e lenti, proprio come la natura che fa da sfondo a questo racconto che sembra quasi una favola: assistiamo a situazioni e riti comuni come le domeniche in chiesa, le feste paesane e i pasti frugali consumati tutti insieme. Tutti i dialoghi sono dolci e a bassa voce, quasi sussurrati e rigorosamente in dialetto, poiché nei piccoli villaggi con bassi livelli di istruzione l’italiano era ancora percepito come una lingua fantastica e sconosciuta. Al centro del racconto c’è una famiglia dominata da Cesare, pater familias e maestro di scuola che impera austero e severo, ma non in modo tirannico, facendo entrare a pieno lo spettatore nei meccanismi psicologici e gerarchici della famiglia Graziadei. Il film non ha una trama precisa ma fa immergere lo spettatore nella quotidianità paesana narrata anche attraverso gli occhi dei bambini che sono i protagonisti ma anche i narratori degli avvenimenti. La loro realtà li ha privati della leggerezza della loro età, rendendoli, per necessità, precocemente adulti. Ricorrente è la scena della sera, quando i bambini si scambiano dubbi, sogni, desideri e aspirazioni condividendo i letti per mancanza di spazio;
Altro tema centrale è la condizione della donna, esplorata in aspetti diversi dalle tre figlie di Cesare: Flavia, la più piccola, è la prescelta dal padre per continuare gli studi e per questo invidiata da Adele, la mezzana, anche lei assetata di sapere ma frenata dalla situazione economica della famiglia e dagli standard paterni sull’eccellenza. Infine Lucia, la più grande, anche lei sfortunata dal punto di vista scolastico, sperimenta amore, attesa e delusione nella piccola realtà isolata di Vermiglio.
Seguendo lo stesso genere abbiamo un’altra pellicola al femminile che potrebbe concorrere come miglior film internazionale: l’amatissimo C’è Ancora Domani di Paola Cortellesi, uscito nelle sale Americane nel 2024 e quindi possibile candidato per gli Oscar 2025. Altra pellicola che racconta l’Italia del dopoguerra insieme alle sue speranze per il futuro, la voglia di riscatto, ma anche alla povertà e miseria della classe popolare. Qui il tema centrale è l’emancipazione (sia domestica che politica) della donna, contemporaneamente al referendum monarchia/repubblica del 1946. Girata in bianco e nero, mescola la tradizione cinematografica italiana con spezzoni comici appartenenti alla contemporaneità, come la musica pop o le botte subite dal marito che diventano un balletto. La commedia (non presente in Vermiglio) si mescola ad evidenti ispirazioni neorealiste, riproponendo il genere nato proprio nel secondo dopoguerra che espone sul grande schermo la situazione economica e morale della seconda metà degli anni ‘40.
La caratteristica principale del genere è la scelta degli attori non professionisti per recitare le parti secondarie o anche quelle primarie, con lunghe scene all’aperto che servissero anche a mostrare la devastazione bellica. Film come Ladri di Biciclette e Sciuscià (Vittorio De Sica) sono diventati pilastri del cinema italiano solamente grazie alla semplicità delle tecniche di regia ma anche delle storie raccontate: un’Italia pervasa dal desiderio di ricominciare ma incatenata dai ricordi del passato.
I due titoli che parteciperanno agli Oscar hanno già ottenuto molti premi e acclamazioni dalla critica, quindi meritano sicuramente la visione; il cinema Italiano è pieno di nuovi talenti e pellicole interessanti da scoprire, quindi non ci resta che aspettare la notte degli Oscar per sapere se riusciremo a riaffermarci sul panorama cinematografico mondiale.
“It’s the destination, not the journey”
Intenso, toccante e profondamente realista, così si presenta “The Brutalist”, l’ultima opera del giovane regista Brady Corbet arrivata in sala il 6 febbraio 2025.
“The Brutalist” riporta il cinema al suo ruolo primario: raccontare una grande storia. La storia saggiamente ricamata dalle mani dello stesso regista e dalla sua compagna, Mona Fastvold, è un’epopea tragica composta da dolore, ambizione, amore e riscatto. La pellicola si apre con la sua immagine simbolo: la Statua della Libertà rovesciata. Essa ci anticipa una prospettiva distorta della realtà e del cliché del sogno americano. Con un lungo piano sequenza “brutale” il regista, ci spinge all’interno della vita di un uomo disorientato, che ha perso tutto; senza preamboli veniamo avvolti nel suo mondo fatto di ombre, di arte e di sofferenze nascoste sottopelle.
Chi abbiamo davanti è l’architetto ebreo-ungherese László Tóth, (Adrien Brody) che negli anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale dopo essere sopravvissuto all’olocausto, emigra negli Stati Uniti con sua moglie Erzsébet (Felicity Jones), sperando di ricominciare da zero.
László porta con sé una visione architettonica audace e rivoluzionaria, ispirata al movimento brutalista.
Quando un influente e misterioso mecenate americano (Guy Pearce) gli offre un incarico di grande portata, László crede di aver finalmente trovato il suo posto nel Nuovo Mondo. Tuttavia, il sogno americano si rivela ben presto un incubo: il compromesso tra arte e potere, le pressioni economiche e le tensioni personali mettono a dura prova il suo spirito creativo e il suo matrimonio.
Ma che cos’è l’arte brutalista?
Il nome brutalismo fu coniato dallo storico dell’architettura Reyner Banham e deriva dal béton brut, ovvero il cemento a vista, materiale utilizzato per la prima volta nel 1950 nell’Unitè d’Habitation di Le Corbusier a Marsiglia, progetto residenziale diventato vero e proprio simbolo del brutalismo.
Questo stile architettonico si basa infatti sulla funzionalità e non sull’estetica dell’edificio: per questo vengono utilizzati materiali industriali e grezzi, specialmente il cemento a vista, e forme imponenti e massicce.
Gli edifici in stile brutalista, oltre alle caratteristiche appena citate, si riconoscono per la chiarezza formale della struttura e per le piccole aperture in relazione alle altre parti che li compongono.
Nel film “The Brutalist”, l’arte brutalista non è solo un’estetica architettonica, ma un simbolo della condizione esistenziale del protagonista.
Il brutalismo, con le sue forme massicce, il cemento grezzo e la sua funzione sociale, diventa una metafora delle difficoltà, delle ambizioni e delle disillusioni vissute dall’architetto. Egli, come il movimento brutalista, è mosso da un ideale di funzionalità e di resistenza, ma si scontra con un mondo che preferisce il compromesso e il potere al rigore e all’integrità.
La sua architettura è il riflesso del suo stesso spirito: austera, monolitica, improntata a un’idea di bellezza che non cerca di essere accattivante, ma autentica. Anche la regia riflette l’essenza del brutalismo: le inquadrature spesso rigide e geometriche, i colori freddi e le strutture imponenti contribuiscono a creare un senso di oppressione e solennità. L’uso della luce e delle ombre esalta le superfici ruvide, richiamando l’effetto materico del cemento a vista.
In definitiva, “The Brutalist” utilizza l’arte non solo come ambientazione, ma come linguaggio visivo e tematico per raccontare una storia di lotta, idealismo e disincanto. Brady Corbet riesce a coinvolgerci e a farci restare senza fiato anche grazie all’uso di una colonna sonora studiata nei minimi dettagli: caratterizzata da sonorità sottili e talvolta dissonanti, aiuta a trasmettere il senso di solitudine e di alienazione che permea la vita dei protagonisti. Le melodie, lunghe e ripetitive, sembrano rispecchiare lo stato d’animo dei personaggi, in un gioco di riflessi tra suoni e immagini.
Le tracce sonore non sono mai invasive, ma piuttosto si fondono con il paesaggio visivo, creando un’atmosfera densa di tensione latente, permettendo così anche ai silenzi di avere un peso narrativo.
In un mondo in cui il cemento può essere tanto solido quanto fragile, “The Brutalist” ci
lascia con un interrogativo potente: l’arte può davvero resistere all’erosione del tempo, del potere e del compromesso? Mentre le imponenti strutture di László Tòth si stagliano contro il cielo, ciò che resta non è solo il suo lavoro, ma il peso ineluttabile delle scelte che lo hanno costruito.
Titoli di testa. Siamo nel 1960 circa, nella stazione di Milano. Su un treno si legge “Bari – Milano” ed echeggia sui fumi dei treni la folla che cammina la tuonante e malinconica “O’ Paese Mio”. Sin dai primi fotogrammi Visconti lascia le prime tracce di una storia senza tempo, intrisa fortemente nelle pagine del nostro passato di Italiani, ma che ancora, su diversa scala, appartiene a molti: l’abbandono della propria terra per la ricerca di un futuro migliore.
Protagonista è la famiglia Parondi, che a seguito della morte del padre, lascia la Lucania per cercare fortuna, raggiungendo il figlio maggiore Vincenzo a Milano.
Visconti racconta la parabola dell’immigrato con una semplicità autentica che quasi rimanda ai motivi veristi verghiani, dipingendo le scene di chiaroscuri tra risate e delusioni, vittorie e sconfitte, sia a livello sociale che nella sfera più intima e individuale dei protagonisti, specialmente di Rocco, nella loro complicata integrazione in quel nuovo universo così diverso dal loro.
E’ difficile parlare di un film vecchio, senza avere un po’ la paura di essere banale o non all’altezza. Ammetto che molte volte alcuni capolavori del secolo scorso li ho seguiti con fatica, complice ormai la nostra totale perdita del senso di attesa, del prendersi i giusti tempi, dell’assaporare i secondi di silenzio nelle scene, anche a causa della maggior parte dei prodotti streaming di adesso.
Ma questa volta invece, qualcosa è cambiato, e forse questo film mi aprirà una nuova prospettiva sul mondo del cinema. Infatti, posso dire che “Rocco e i suoi fratelli” mi è entrato nel cuore, ha catturato la mia attenzione facendomi riscoprire un amore per i dettagli, per le scene che si allungano più di quanto noi siamo abituati a vedere e per i silenzi. Scena per scena, la pellicola risucchia nel corso degli eventi, immergendo lentamente lo spettatore in un immedesimazione graduale ma sempre più profonda: non ero più nel 2024, quasi mi sentivo anche io nel 1960, ho sentito scorrere nelle mie stesse vene la speranza, la nostalgia, la rabbia per un destino che magari i personaggi avrebbero voluto scrivere in modo diverso. Visconti ha sviluppato tutto ciò lavorando minuziosamente su tutte le componenti artistiche che caratterizzano un film. Solo la fotografia, la scenografia parlano da sé, narrano un epos: in ogni scena l’occhio ha il tempo di osservare e rimanere affascinato dai particolari, dai muri di casa Parondi pieni di stoviglie ai poster nella palestra di pugilato, per arrivare ai silenzi della notte in cui si odono i passi o l’acqua che scorre dalla fontanella. Milano, insieme ai fratelli, è protagonista del film. E’ la città che accoglie ma che non perdona, che fa rinascere, ma che distrugge. Ogni scena all’aperto è caratterizzata dai rumori dell’industrializzazione, si vedono macchine, gru, si sentono i clacson, i chiacchiericci della folla, gli operai con la divisa Alfa Romeo. E’ frenetica, rappresenta l’eccitazione per la modernità, l’entusiasmo di una nuova vita, è il perfetto dipinto di un’Italia che cerca di riscattarsi. Eppure dietro questa frizzante realtà si nasconde il lato più oscuro: quello della solitudine, di una nuova casa che non sarà mai davvero casa. Attraverso i cinque fratelli e i loro differenti caratteri ho potuto vedere le diverse sfaccettature dell’inizio di una nuova vita, partendo dal non avere nulla se non la propria famiglia. I ragazzi quasi si fanno da padri a vicenda, soccombendo alla morte del loro, si aiutano, si sostengono, soprattutto Rocco che finisce per assumersi il fardello dei folli atti del maggiore Simone. Purtroppo però, è proprio il valore della famiglia che finisce per sgretolarsi pian piano, è questo il costo che i Parondi pagheranno, come dice lo stesso Rocco nel ricordare con amarezza la vecchia e cara Lucania: forse se fossero rimasti lì, sarebbero ancora tutti insieme. Il film quasi assume le note del mito tragico, culminato nell’uccisione di Nadia e dei pianti strazianti di Rocco quando gli viene detto l’accaduto. Rocco è un personaggio poliedrico, cammina sul sentiero dell’uomo di ogni tempo, dell’Ulisse che si adopera con successo per trovare una sua dimensione ma che manda giù con fatica il magone della nostalgia di casa. Rocco cerca in qualche modo di tenere insieme tutti i pezzi di una famiglia sull’orlo del baratro, rinunciando alla sua stessa felicità, come dimostrato soprattutto dal rapporto complesso con Simone, che più di tutti si è fatto inghiottire dai vizi e dagli eccessi della città, prosciugando la sua stabilità economica e psicologica. In Rocco ho potuto osservare le mille sfumature della fragilità umana, di un ragazzo silenzioso che diventa uomo ampliando il proprio animo di
altre mille consapevolezze, paure e sensibilità. Il suo sguardo è malinconico, velato sempre da una certa amarezza, ma soprattutto nella prima metà del film pieno di speranza: “Abbi fiducia”, ripete a Nadia quando si incontrano dopo la sua uscita di prigione, quasi come se lo volesse ricordare a lui stesso. Con il passare del tempo, però, il suo sguardo si disillude. Emblematico per me è il contrasto antitetico tra le vittorie sul ring e lo sguardo più profondo e sofferente di Rocco, che piange, quindi mostrando l’antitesi tra il pugilato quindi lo sport dei duri e le lacrime, la più semplice forma di fragilità. Rocco è quello che più di tutti sembra avere successo, ma è anche colui che soffre di più, rappresentando il disincanto verso la modernità, la nostalgia per un qualcosa che non si potrà più avere.
E in fondo lui è l’uomo di ogni tempo: ha lo sguardo di chi anche ai giorni nostri non riesce a trovare un equilibrio nel mondo veloce in cui si ritrova e va sempre avanti nonostante cerchi di tenersi stretti i valori più intimi di se stesso. E’ per questo che Visconti ha creato un capolavoro, regalando al cinema italiano una storia semplice, condivisa da così tanti, e arricchendola di sfumature tragiche e dolceamare, facendo però anche spuntare un sorriso ogni volta che riconosciamo qualche pezzo di nostra tradizione, qualche detto, qualche frase in dialetto, ma anche il solo pranzo insieme intorno al tavolo.
Martha (Tilda Swinton) è una donna malata terminale. Dopo aver sfiorato la morte diverse volte durante il suo lavoro come cronista bellica, si ritrova ora a combattere un nuovo tipo di guerra contro la sua stessa malattia.
Disillusa nei confronti della propria esistenza, si rivolge alla ritrovata amica Ingrid (Julianne Moore), in cerca di aiuto. La proposta è folle: aiutarla a morire, stando nella stanza accanto.
Ingrid è una scrittrice di successo che, come ha raccontato nel suo più recente romanzo, teme la morte e in un certo senso ne ripudia addirittura il pensiero, perché incapace di affrontarlo. Ciò che Martha le chiede sembra andare oltre limite morale ma, per amore dell’amica, accetta.
È così che le due donne si ritirano in gran segreto in una grande villa tra i boschi, dove Martha ha deciso di porre fine alla sua vita grazie a un medicinale rinvenuto nel dark web.
Le due iniziano a condurre una vita lenta e statica, fatta di piccoli attimi, mentre Martha si spegne lentamente. Per la donna, tutto il piacere della vita sembra ormai essersi ridotto. L’unica sua consolazione è sapere che, quando verrà il momento, Ingrid sarà nella stanza accanto.
Nei suoi ultimi giorni, Martha rivive attraverso il racconto, facendo del ricordo un modo per lasciare una traccia. La parola si trasforma nel suo mezzo per esorcizzare la morte, mentre Ingrid le resta una fedele ascoltatrice. Lei che, nel frattempo, vive quasi in disparte, in una sorta di limbo tra la vita vera e ciò che sta dall’altra parte.
La loro storia si sviluppa in una casa che da un certo punto in poi non sembra avere quasi più pareti. È Ingrid a rendersi conto di come quel luogo in cui vivono si sia trasformato in un mondo a sé, che però, in fondo, non appare poi così diverso dal mondo esterno.
In una realtà sempre più inquieta, appare infatti così difficile mantenere speranza nei confronti della vita. È solo qui che Ingrid prende piena consapevolezza della coraggiosa scelta di Martha: lasciarsi andare.
Pedro Almodóvar conquista il Leone d’Oro al Festival del Cinema di Venezia 2024 con il suo debutto in lingua inglese, regalando al pubblico una delle sue opere più complete e riuscite. La sua regia, attenta e precisa, abbandona in parte un consueto fatalismo, pur mantenendo un’impronta fortemente sensazionale.
Un film di straordinaria eleganza e intensità, più contenuto rispetto ad altre opere del regista, ma comunque ricco di emozioni, con un carattere meno distintamente "spagnolo". La pellicola si distingue per una palette cromatica raffinata e affascinante, accompagnata da una regia profonda che non si limita a concentrarsi sui personaggi, ma esplora anche lo spazio circostante: gli interni, le skyline di New York e la natura.
Nella pellicola, Martha riacquista il controllo di sé tramite la sua scelta, raggiungendo finalmente la pace con la sua versione presente e passata. Contemporaneamente, Ingrid cresce insieme a lei, affrontando la solitudine grazie alla vicinanza dell’amica, mentre la neve cade su tutti, vivi e morti, lasciando traccia del suo passaggio.
Il cinema ha avuto molti registi bravi, ma solo pochi possono essere considerati veri Maestri: Welles, Fellini, Hitchcock, Bergman. E poi c'è Akira Kurosawa, colui che ha portato l'Asia sul grande schermo.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale, Germania e Giappone erano stati quasi del tutto tagliati fuori dal mercato cinematografico internazionale, vittime dell'odio e della rabbia accumulati negli anni del conflitto. Fu proprio in questo contesto che Akira Kurosawa fece risorgere il cinema giapponese. Nel 1950 presentò al Festival di Venezia il film Rashomon, che vinse il Leone d'Oro e, successivamente, l'Oscar per il miglior film straniero. Questo successo internazionale spalancò le porte a Kurosawa, un regista inizialmente poco apprezzato in patria.
Negli anni successivi, Kurosawa continuò a realizzare capolavori, guadagnandosi il titolo di "Maestro del movimento" grazie a diverse caratteristiche distintive del suo stile:
1. L’uso della natura Nei film di Kurosawa, gli elementi naturali giocano un ruolo fondamentale in ogni scena, sia in esterni sia attraverso l’uso di finestre negli interni. Ad esempio, in Yojimbo il vento aumenta la tensione prima dello scontro finale, mentre in Ran (probabilmente la miglior rappresentazione cinematografica di un’opera shakespeariana) le frecce infuocate simboleggiano la rabbia repressa di un uomo. Ne I sette samurai, il regista fa piovere a dirotto durante la scena finale, trasformando il combattimento tra samurai e contadini nel fango in un evento epico, drammatizzato all’ennesima potenza.
2. Il movimento di gruppo Kurosawa fu uno dei primi a comprendere quanto una reazione collettiva potesse amplificare l'impatto emotivo di un evento. In Sanjuro, durante lo scontro finale tra due samurai, la telecamera si concentra sulle reazioni di un gruppo di giovani spettatori: sono le loro emozioni a rendere lo scontro memorabile. Allo stesso modo, in Anatomia di un rapimento, riesce a tenere incollato allo schermo lo spettatore durante una riunione di polizia solo attraverso le dinamiche di gruppo.
3. Il blocking Derivata dal teatro, questa tecnica coordina i movimenti degli attori con quelli della macchina da presa, ottimizzando tempo e risorse sul set. Kurosawa padroneggiava il blocking per guidare lo sguardo dello spettatore nei punti chiave della scena. Nella sequenza iniziale di Rashomon, ad esempio, un uomo cammina attraverso un bosco per circa cinque minuti, ma ogni inquadratura è unica: a volte la macchina da presa segue l’attore, altre lo incrocia in direzione opposta. Questa dinamicità narrativa consente allo spettatore di comprendere la personalità del protagonista e la geografia della storia in pochi minuti.
4. L'editing Kurosawa faceva parte di quella ristretta cerchia di registi capaci di montare le proprie opere. Era in grado di accelerare o rallentare il ritmo di una scena e sperimentava con la struttura narrativa, seguendo l'esempio di Citizen Kane. In Rashomon la stessa vicenda viene raccontata da prospettive diverse, una tecnica che ha ispirato molti film gialli successivi, fino a opere recenti come Knives Out. Anche in Ikiru, Kurosawa adotta una struttura inusuale, spostando il punto di vista della storia a metà film (come Hitchcock in Psycho).
Akira Kurosawa è un punto di riferimento per ogni regista, specialmente per quanto riguarda la composizione dell’immagine. In Anatomia di un rapimento, lo staging raggiunge il massimo livello: ogni frame è costruito in modo tale da comunicare ruoli e dinamiche tra i personaggi, anche senza dialoghi. Ad esempio, il protagonista, il capo della polizia e il padre del bambino rapito sono sempre posizionati in modo da indicare le loro relazioni e conflitti. Kurosawa sapeva cosa posizionare al centro dell’inquadratura per enfatizzarne l'importanza o ai lati per suggerire un piano d'ascolto.
Oggi, i registi moderni studiano la composizione di Kubrick, il blocking di Spielberg e i movimenti di macchina di Paul Thomas Anderson. Ma è fondamentale ricordare che questi, a loro volta, hanno imparato da Kurosawa. Grazie a lui, il cinema asiatico è diventato una delle migliori industrie al mondo, dando vita a talenti come Park Chan-wook, Bong Joon-ho e Wong Kar-wai.
La settima arte, quindi, è nata con Georges Méliès e cresciuta con Orson Welles; ma ha trovato la sua forza e la sua voce grazie al samurai Akira Kurosawa.
Tre film imprescindibili di un maestro assoluto; che ancora oggi con le loro atmosfere tormentano il cinema.
REPULSION (1965)
Repulsion, o Repulsione, è il secondo lungometraggio di Roman Polanski, e quello che prende più alla lettera gli studi sulla sessualità̀ femminile di Freud.
Con “l’occhio che uccide” di Catherine Deneuve, ricordando i grandi registi che lo hanno preceduto, Polanski apre il film ma non solo: pianta il seme per l’intera trilogia.
Nella Swinging London del free cinema inglese - dove un anno dopo Michelangelo Antonioni girerà il suo Blow Up - Carole è una ragazza affetta da androfobia, paura irrazionale degli uomini: fobia che la perseguita in ogni istante della giornata, fino a portarla definitivamente alla pazzia.
La regia visionaria, i volti tagliati a metà dalla luce, l’appartamento che prende vita durante le crisi della protagonista sono uniti alla fragilità dell’animo umano messa in scena con una maestria degna del miglior Bergman. La pellicola rappresenta un viaggio nei luoghi più oscuri della mente umana risultando claustrofobica e angosciante anche nelle scene all’esterno. In una Londra che non dà tregua alla povera Carole la quale è impossibilitata a vivere serenamente a differenza delle colleghe del centro estetico in cui lavora, che ogni giorno ascolta parlare delle loro relazioni senza poter comprendere.
Gli sguardi maschili - come sarà in Rosemary’s Baby e Le Locataire con i vicini - perseguitano Carole, che finisce per rinchiudersi all’interno della sua abitazione. Da qui un turbinio di allucinazioni ad occhi aperti: abusi che si susseguono ogni notte, mani che escono dalle pareti; la casa diviene metafora della psiche malata della protagonista. Polanski stesso definì il film come “la descrizione del paesaggio del cervello di Carole”; traumi reconditi che prendono vita, ricordi repressi che diventano ossessioni.
Il regista, precedentemente citato, Michelangelo Antonioni, un anno prima, realizza Deserto Rosso, anche questo ritratto femminile di una donna, in cui Monica Vitti impersona Giuliana, un personaggio alienato ed esanime nel panorama industriale italiano.
Luis Buñuel, due anni dopo, con Belle de Jour, racconterà la storia di Séverine, donna annoiata e frustrata che durante le giornate si rifugia in una casa di appuntamenti per sentirsi sessualmente desiderata.
Con Repulsion compongono un puzzle: tre film che portano sullo schermo il disagio femminile della donna moderna.
Il film di Polanski, a differenza degli altri due, sfrutta i topoi del genere, creando uno dei migliori horror psicologici della storia del cinema - e il primo di una trilogia capolavoro.
ROSEMARY’S BABY (1968)
Rosemary’s Baby, insieme a Night of the Living Dead di Romero e Hour of the Wolf di Bergman, rappresenta uno degli horror che nel 1968 rivoluzionano il genere. La pellicola si apre con una contrapposizione tra sfera visiva e sonora: con una panoramica dall’alto, Polanski inquadra lo spazio urbano con le grandi costruzioni in cemento - simbolo
di soffocamento - su cui successivamente si inscrivono i titoli di testa, in un per niente disturbante - cosa che invece l’immagine degli edifici rimanda - font in corsivo color rosa; il tutto con l’inquietante colonna sonora di Krzysztof Komeda.
Il sonno della ragione genera mostri, non mostrati esplicitamente ma che esistono negli sguardi, nelle atmosfere dell’appartamento. Polanski porta il terrore nella quotidianità, il soprannaturale e il satanismo nella vita dei borghesi americani.
Arrivare a vendere la propria anima al diavolo fu l’azione alla base del Faust di Goethe, che ritorna in Rosemary’s Baby come critica alla società dello spettacolo e all’industria hollywoodiana; in questo caso il marito non vende la propria anima ma il corpo di sua moglie, che consentirà a Satana di concepire suo figlio. Quel che più risalta nella pellicola è come il tutto avvenga sotto trama, di nascosto, mai alla luce; e soprattutto i metodi utilizzati dagli artefici di tale percorso verso il formalismo religioso - ampiamente evidente nella scena della cena dai Castevet - che nasconde il vero obiettivo dell’operazione: il consumo.
La nascita del figlio dell’anticristo diventa rappresentazione simbolica di una classe legata al culto di un potere consumistico ed edonistico - che si nascondeva dietro la maschera del buonismo e del finto perbenismo - scoprendo così le carte dietro il tanto agognato sogno americano.
Vittima di tale processo non è altro che l’americano medio, Mia Farrow, che nel finale si lascia cadere tra le braccia del demonio; perché il sentimento che una madre prova nei confronti del figlio è talmente grande da far sperare nel cambiamento di un’umanità in rovina - quindi in un miracolo.
Portando il discorso verso la regia polanskiana, essa ricalca quanto di buono fatto in Repulsion: carrelli lentissimi, macchina da presa che segue i personaggi, la claustrofobia dei primi piani; è l’incertezza la chiave, come il dubbio e la paranoia, che vanno a formare l’inquadratura, rimandando sempre ad un senso di angoscia e terrore. Fino all’ultimo respiro il regista manda fuori strada lo spettatore, prima con la pazzia di una donna in evidente crisi psicologica, poi sembra di intravedere qualcosa negli sguardi di John Cassavetes e nel comportamento dei vicini; poi ancora la situazione sembra migliorare, per crollare definitivamente nel finale. Il tutto con un crescendo costante di suspense di hitchcockiana memoria, che fa del non detto e del non fatto il fulcro della pellicola. È il sublime fascino del consueto e dell’ordinario, quella malsana voglia della perfezione che il film incarna perfettamente; ma è anche la paura dell’ignoto e di ciò che non riusciamo a comprendere, che si cristallizza intorno all’apparente calma del comune.
L’introspezione psicologica di Rosemary si fonde perfettamente con i colori delle scenografie, portandoci a discutere dell’estetica, altamente simbolica e di matrice surrealista. Il continuo cambio di vestiti della protagonista scandisce la trasformazione del personaggio, ma anche i passaggi narrativi. Il rosso nella prima parte del film esprime la morte e il terrore che da lì a poco arriverà, il blu nella seconda come innocenza e purezza, il giallo l’alterazione e il rosa come femminilità: i colori sottolineano le correnti emotive che attraversano Rosemary.
Polanski è attentissimo a porre gli elementi nell’inquadratura sempre in contrasto tra loro. Azzeccata quindi la scelta di optare come attrice protagonista delle vicende una giovanissima Mia Farrow, che risulta sempre un’estranea tra le pareti dell'appartamento, pur tentando invano di cambiarne l’aspetto.
La copertina del Times, che Rosemary legge in una delle ultime scene del film, palesa la deriva che il mondo si appresta ad abbracciare, con il titolo: “Dio è morto?” Probabilmente sì,
ma satana vive e questo è l’anno zero. L’uomo smarrito cerca una guida nel peccato, la cui incarnazione è senza ombra di dubbio il capitale.
LE LOCATAIRE (1976)
Uscito in Italia con il nome “L’inquilino del terzo piano” - e in America come “The Tenant” - il film chiude la trilogia dell’appartamento nel migliore dei modi: grazie ad una consapevolezza artistica e ad una maturazione tecnica, che porta Polanski a trattare tematiche affini a quelle dei due film precedenti, spingendo ancora più prepotentemente il piede sull’acceleratore, per quello che diverrà il manifesto della sua prima parte di carriera.
Grazie alla fluidità data dalla Louma (Roman Polanski fu uno dei primi ad utilizzarla, consiste in una gru snodata alla cui cima è attaccata la macchina da presa, che può essere telecomandata lontana dal suolo, e permette appunto di effettuare panoramiche di grande durata, senza dover fare aggiustamenti) Polanski apre i titoli di testa con un movimento di macchina, che coincide con un’unità narrativa, al cui interno presenta tutto il dramma del protagonista - e del racconto - in un’unica inquadratura. Il piano-sequenza introduce il microcosmo in cui il protagonista, Trelkovsky (interpretato dallo stesso Polanski), andrà ad abitare, e anticipa i temi principali della pellicola: il doppio, l’ambiguità sessuale, l’essere sospeso tra il reale e l’immaginario, la claustrofobia data da uno spazio chiuso - l’appartamento - ma soprattutto la fine della tranquillità e l’inizio di quello che si trasformerà in un vero e proprio incubo.
Le prime sequenze sono attraversate da un’aria di mistero, portando lo spettatore a porsi domande sulla natura degli strani avvenimenti che Trelkovsky osserva imperterrito dalla finestra della sua camera da letto. Presenze fantasmatiche sembrano controllare il povero protagonista, che si ritrova in poco tempo vittima delle lamentele dei vicini. Fuoriesce l'intollerabilità di una borghesia repressiva, chiusa, che rifiuta il diverso, e che con i suoi comportamenti obbliga all’omologazione come unica soluzione. Da questa “vigilanza” spasmodica parte la discesa nella follia di Trelkovsky. L’appartamento, che assume i connotati di un’entità a sé stante, inizia ad inghiottire il suo inquilino, portandolo ad una frammentazione dell’Io e ad identificarsi con la precedente affittuaria, Simone Choule, morta suicida. Il cambiamento che la comunità del quartiere esige, lo conduce ad una progressiva caduta nell’oblio, e ad una trasformazione sia psicologica che estetica, simbolo dell’enigmaticità dell’uomo moderno. Il film anticipa anche le discussioni e le analisi che seguiranno negli anni a venire sulla sessualità: in un’atmosfera sempre più grottesca, grazie ad una straordinaria fotografia di Sven Nykvist (celebre cinematographer di quasi tutti i film di Ingmar Bergman) che fonde il gotico e il surreale, Trelkovsky in più occasioni risulta statico e imbranato di fronte alle avances di Stella (amica di Simone); una sottrazione, segno di un sentimento latente che diviene repulsione nei confronti del corpo femminile.
Ancora una volta reminiscenze hitchcockiane: come in “Rebecca” (film del 1940) la donna si trova a rivivere situazioni e traumi della defunta moglie di cui ha preso il posto, lo stesso succede a Trelkovsky con i vicini, che rivedono in lui Simone; e sempre come nel capolavoro di Hitchcock, anche Trelkovsky tenterà il suicidio. Entrambi non riescono ad accettare il ruolo che hanno e sono ossessionati dalla figura che li ha preceduti.
Evidenti anche le analogie (o citazioni, rimandi) con “Rear Window” (1954): l’atteggiamento da peeping tom dei residenti, e la risposta con tanto di binocolo del protagonista. Inoltre la dissociazione del corpo di Trelkovsky ,che raggiunge il completamento con l’acquisto di una parrucca, ricorda quella di Madeleine in “Vertigo” (1958).
Le questioni che Polanski pone in “Le Locataire” vanno oltre la semplice ricerca esistenziale.
Il regista mette in scena la sfuggevolezza dell’Io decostruendo, con domande che arrivano dallo stesso protagonista per lo spettatore: “Quand’è, insomma che un uomo smette di essere se stesso?” L’inquilino cade vittima della paranoia e delle allucinazioni, la risposta quindi tocca allo spettatore.
“Gregor Samsa, svegliandosi una mattina da sogni agitati, si trovò trasformato nel suo letto in un immenso insetto immondo.”
Le parole di Frank Kafka nelle “Le Metamorfosi” del 1915 sembrano echeggiare all’interno dell’ultima pellicola targata Mubi: The Substance, il body horror scritto e diretto dalla regista francese Coralie Fargeat, in cui una splendida Demi Moore lotta sanguinosamente contro il declino del suo corpo cercando disperatamente nello specchio la sua versione migliore incarnata da un’ipnotica Margaret Qualley.
La protagonista Elizabeth Sparkle (Demi Moore) è una ex diva di Hollywood divorata e rigurgitata da uno star system maschilista che vuole liberarsi di lei una volta che ha compiuto i cinquant’anni di età, per sostituire la conduzione del suo programma con una donna più giovane e più attraente.
A seguito del licenziamento resta coinvolta in un incidente stradale e il medico che l’assiste le propone quella che sembra essere la cura a questo declino, “the substance”, un siero misterioso che permette di creare uno sdoppiamento della sua persona: si genera così Sue (Margaret Qualley), una ventenne dalla bellezza eterea. La protagonista deve, senza eccezioni, rispettare l’equilibrio vivendo sette giorni nel corpo di Sue e sette giorni nel suo corpo originale senza scordarsi di “essere solo una”, come viene ripetuto più volte nel corso del film.
Questo liquido sperimentale una volta iniettato nelle vene della “cavia” permette di cerare una dinamica simbiotica e inquietante tra le sue due identità. Sue, la versione giovane, assume ben presto il controllo della vita che Elisabeth ha perso, diventando una star di successo e vivendo una vita edonistica, mentre la vera Elizabeth sprofonda in una spirale di insicurezze, autocommiserazione e degrado fisico.
Questo sdoppiamento non si limita solo alla carne, ma deteriora rapidamente la psiche delle due versioni fino a portare la protagonista all’autodistruzione.
“The Substance” è un film che prende di petto il tema dell’ossessione per la giovinezza, mettendo in scena una critica feroce al culto della bellezza eterna e del successo nel mondo dello spettacolo.
È la fotografia di una società che punta alla perfezione, che pretende una donna tanto sorridente e impeccabile quanto umiliata e depensante.
Una società dominata da uomini grotteschi, ossessionati da corpi tonici e perfetti; la camera, saggiamente posizionata dalla regista, inquadra i corpi nel loro dettaglio anatomico, spogliandoli di qualsiasi sensualità fino a nauseare lo spettatore. Il film riflette brillantemente sulle tematiche dell’identità, dell’autostima e della pressione sociale a conformarsi a standard di bellezza impossibili.
La tensione tra Elisabeth/Sue è spietata e il crescente disprezzo reciproco tra le due personalità esplora le conseguenze psicologiche di questa divisione interna, arrivando a un crescendo di violenza e disperazione.
La pellicola risulta impattante, riflessiva e sconvolgente allo stesso tempo. Il body horror viene riportato in auge in maniera credibile e senza censure da una regista che si dimostra capace di raccogliere il lavoro dei grandi registi del passato: a partire da Stanley Kubrick con l’utilizzo della sua geometria e con minuziosi movimenti di camera che svelano corridoi claustrofobici e solitari, fino ad arrivare al capostipite del genere: David Cronenberg con chiari omaggi a uno dei suoi capolavori “Videodrome” (1983).
Quando Sue pronuncia il suo nome in un close-up delle sue labbra, il suono delle sue parole si diffonde su diversi schermi televisivi, richiamando l’ambiguo magnetismo dei media esplorato appunto in “Videodrome”.
Nel classico di Cronenberg, le labbra di Nikki seducono il protagonista, trascinandolo in un universo sempre più oscuro e complesso. Analogamente, in The Substance, le labbra di Sue diventano un simbolo della commistione tra identità e immagine televisiva, offrendo una critica incisiva sul potere deformante della televisione e sull’ossessione per l’apparenza.
The Substance non lascia indifferente lo spettatore e viene naturale domandarsi: quanto siamo disposti a rinunciare, per riavere la versione migliore di noi stessi? E quanto siamo disposti a comprometterci per ottenerlo?
Un modo di vivere? Una canzone di Fedez? Il modo in cui tutti speriamo di rivedere i nostri ricordi nei nostri ultimi momenti? Partiamo dall’inizio: La dolce vita (1960) è un film di Federico Fellini che racconta le vicende di Marcello, giornalista di successo che vive in una Roma divistica in cui i rotocalchi formano e influenzano la cultura dello spettacolo. I paparazzi fotografano e inseguono le celebrità a lavoro e in villeggiatura; gossip, scandali, inseguimenti e le lampadine dei flash delle macchine fotografiche lasciate per terra come a segnare un percorso attorno ai soggetti dei loro obiettivi - Via Veneto era il centro del mondo e probabilmente Alighieri non l’avrebbe varcata. Feste, cocktail party con grandi personalità erano la regola, e tutto pareva pervaso da una sorta di euforia generale che contagiava chiunque si avvicinasse ai confini romani.
Un episodio in particolare è rappresentativo di questo fervore, da cui Fellini stesso prese ispirazione, cioè lo spogliarello del Rugantino del 1958 ad opera della danzatrice turca Aiché Nanà che rimase in mutande davanti a tutti gli spettatori. Il numero portò all’irruzione della polizia nel locale portando molti dei presenti in questura; la spogliarellista con il fidanzato, due principi, un marchese, vari musicisti e il proprietario del locale vennero rinviati a giudizio per atti osceni in luogo pubblico.
Ma cos’era successo? Forse il Papa era diventato Bacco o forse ci fu un particolare contesto politico-culturale. Nel 1960 la Democrazia Cristiana era al governo rappresentando la forte componente religiosa cattolica di cui era composta la penisola in quel momento, eppure questa voglia di divertimento e spettacolo sembrava trasgredire lo status quo. La generazione dell’epoca visse anni più che duri con il secondo conflitto mondiale e il conseguente dopoguerra, tanto che una volta calmate le acque fuoriuscì, molto comprensibilmente, una relativa voglia di leggerezza e divertimento.
Se aggiungiamo che tra fine anni ’50 e inizio ’60 il paese stava attraversando il cosiddetto boom economico, troviamo una combinazione che serve su un piatto d’argento l’offerta alla domanda. Osserviamo dunque come i valori cattolici assoluti si incrociarono con la ripresa economica che favorì lo sfogo di un certo sentimento nazionale condiviso dai più dei sopravvissuti, quali altri fattori servono per inaugurare una stagione di trasgressione?
Ecco, aggiungerei un breve approfondimento per cercare di descrivere meglio il fenomeno, cioè Roma città eterna, come sfondo, scenografia e campo di attrito. Vale a dire che l’ethos sociale che andava cambiando, inflazionato dalla cultura di massa del ‘900, che nella sua versione più estrema portò alla globalizzazione, generava nuovi valori e visioni. Queste novità collidono con il classico, con i valori storici e cristiani di cui Roma è pregna, diventando così una scena in cui vecchio e nuovo convivono in una frizione e creano quell’estetica e tipo di società.
Tuttavia non tutti si sentirono inglobati in questa febbre ‘dolcevitistica’, probabilmente perché Fellini rappresentò un sentimento, l’emozione della festa che caratterizzava la società dello spettacolo. Allora verrebbe da pensare a La dolce vita come un falso, una riproduzione dei vaneggiamenti del regista e delle sue cerchie. Quel che è certo è che se anche nel film tutto è una riproduzione (come Via Veneto), l’episodio del Rugantino come molti altri, le celebrità e il cinema in fermento, erano realtà. E se non a tutti sembrarono anni di festa, probabilmente non tutti furono invitati.
‘’Un viaggio tra sogni, amore e arte – Perché il capolavoro di Damien Chazelle è già una colonna portante del cinema del XXI secolo.”
Quando l’uomo disegnava nelle caverne, l’attenzione era rivolta solo al messaggio: "Attenti ai lupi!", "Il fiume è qui". Solo in seguito l’umanità ha imparato a riconoscere e apprezzare l’arte per le sue qualità tecniche. Questo è ciò che ha permesso ad artisti come Da Vinci, Caravaggio e Van Gogh di emergere dal mare di altri talenti. Il gusto dell’uomo, quindi, oscilla costantemente tra oggettività e soggettività, in una continua tensione tra critica e pubblico.
Nel cinema, solo pochi film riescono a conquistare entrambi questi mondi, entrando a far parte della ristretta cerchia dei classici. Casablanca (1942), La Dolce Vita (1960) e Pulp Fiction (1994) sono capisaldi del cinema, punti di riferimento che condividono elementi comuni: l’ammirazione della critica, la capacità di resistere al passare del tempo, e soprattutto il fatto di restare indelebili nella mente degli spettatori.
Per capire se un film recente come La La Land possa aspirare a entrare in questo prestigioso gruppo, possiamo partire dal suo titolo: un gioco di parole che unisce la nota musicale "LA" e la città dei sogni, Los Angeles. Infatti i protagonisti, Sebastian (Ryan Gosling) e Mia (Emma Stone), sono due aspiranti artisti nel mondo della musica e del cinema. Sarà proprio questo desiderio di realizzazione personale a mettere alla prova la loro storia d'amore.
Il film, diretto da Damien Chazelle e uscito nel 2016, ha raccolto numerosi riconoscimenti: sei Oscar, sette Golden Globe e cinque British Academy Film Awards. La critica ha elogiato La La Land come un tributo ai sogni del passato, una celebrazione dell’arte in tutta la sua bellezza. Un importante critico ha scritto: “La La Land vuole ricordarci quanto siano belli i sogni semi-dimenticati dei tempi andati, quei sogni fatti solo di facce, musica e movimento. Ha la testa tra le nuvole, e per poco più di due ore, porta il pubblico lassù con lui”. Inutile dire che la sua dichiarazione fu lungimirante: il film incassò 446 milioni di dollari a fronte di un budget di soli 30 milioni.
Un aspetto particolarmente interessante del film è stato oggetto di studio: la cosiddetta "teoria del colore". Il regista Chazelle e il direttore della fotografia Linus Sandgren utilizzano in modo dominante il blu, il rosso e il viola, ciascuno con un significato preciso. Il blu richiama la vecchia Hollywood e simboleggia i sogni e la creatività degli artisti. Il rosso, solitamente legato alla passione, diventa qui un elemento antagonista, emergendo nei momenti in cui Sebastian e Mia si scontrano con le dicoltà della vita. Il viola, la fusione dei due colori, rappresenta l’amore e si manifesta nei momenti chiave della loro relazione: dall’incontro e il primo bacio, passando per il loro litigio, fino alla riconciliazione finale.
Nello scenario australiano di inizio '900, esattamente il giorno di San Valentino, le ragazze del collegio Appleyard si preparano per una gita ad Hanging Rock, località che si sviluppa attorno ad una grande formazione rocciosa di origine magmatica. C'è chi si deterge il viso con acqua fiorita, chi si pettina i capelli con preziose spazzole argentate, e chi è costretto a rimanere al collegio guarda con occhi sognanti questo rito propiziatorio in onore del dio Amore. Il pomeriggio sembra non finire più, e il tedio spinge quattro ragazze ad allontanarsi per esplorare più a fondo questa roccia che sembra essere avvolta in una patina di mistero. Due di loro non faranno mai più ritorno alla realtà rigida e austera del collegio, ma resteranno per sempre incastonate tra le fessure di Hanging Rock.
Il film di Peter Weir è un'ode al mistero, come lo è d'altronde il libro da cui è tratto: "Picnic a Hanging Rock", romanzo di Joan Lindsay. Attraverso la suggestiva
fotografia di Russel Boyd, le fanciulle diventano ninfe appartenenti a dipinti rinascimentali, i paesaggi dai colori dell'oro brillano al sole di una luce surreale, che allude all'onirico. Le scelte stilistiche non vogliono solamente descrivere un paesaggio, ma vogliono indurre lo spettatore ad immedesimarsi in quella realtà così impregnata di arcano. Alimentano l'immersione panica nella natura le musiche presenti all'interno del film, che con i suoi flauti rimandano agli aborigeni, un tempo abitanti dell'Australia.
La bellezza di Miranda, collegiale dai tratti angelici e ammirata dalle altre ragazze, è spesso paragonata alla Venere di Botticelli, tant'è che come la dea anche Miranda appare agli altri come un essere divino, dai confini non definiti e al di fuori del tempo e dello spazio; un essere etereo consapevole di appartenere ad una
dimensione diversa dalla nostra. Dimensione a cui il film allude spesso:
"C'è un tempo e un luogo giusto perché qualsiasi cosa abbia principio e fine... Lassù..."
Queste sono le parole profetiche di Miranda, riferendosi ad Hanging Rock. Ed è proprio nel momento più caldo della giornata, quando il sole raggiunge il suo zenit, che le ragazze svaniscono nel nulla.
Ma non tutte le ragazze scompaiono. Edith è la prima a pentirsi di aver intrapreso questa salita, o meglio ascesa, verso la grande roccia. Le altre ragazze (Miranda, Marion e Irma) iniziano a togliersi le calze e i corpetti sotto una specie di trance e, ignorando i lamenti continui di Edith, salgono ancora. È a questo punto che Edith, scioccata, si precipita giù dalla montagna per chiedere aiuto. Ed è proprio in questo istante che il gruppo restato ai piedi di Hanging Rock si accorge della scomparsa dell'insegnante di matematica Miss McCraw, anch'essa ascesa verso la roccia. Passano i giorni fra le grida disperate delle ragazze scosse da questa improvvisa sparizione e fra le continue ricerche nelle insidie più profonde di Hanging Rock. Una delle ragazze, Irma, viene finalmente ritrovata. Delle altre due non si avrà più traccia.
Non è un caso che Edith e Irma abbiano fatto ritorno alla civiltà, in un modo o nell'altro. Hanging Rock rappresenta la sospensione dal mondo terreno e la fusione panica con l'universo, al di sopra delle leggi mondane. Miranda e Marion sono le sacerdotesse di un rito primordiale, scelte per la raffinatezza della loro anima da questa forza sconosciuta che le ha volute sottrarre al mondo degli uomini. Ciò significa che le altre due ragazze non avevano ancora le chiavi in mano per effettuare il passaggio all'altra dimensione, perché troppo legate al mondo terreno, vincolate all'arsura di quei prati gialli che incorniciano le pareti del collegio.
Irma è un personaggio chiave in quanto apre le porte ad un'altra tematica: quella della scoperta della sessualità. Al suo ritorno, Irma viene vista indossare un abito rosso fuoco, e non più il vestito bianco impreziosito di merletti e pizzi che sprigionava purezza e candore. Sembra che la ragazza abbia appreso un segreto, e che dietro lo sguardo pacato si nasconda la realizzazione di una conoscenza inaccessibile e occulta. Non sorprende la reazione delle altre collegiali alla vista di Irma dopo la sua scomparsa. Esse aggrediscono la ragazza con una forza quasi violenta, una smania di sapere che cosa le fosse successo in cima a quella montagna.
Ma il film spegne ogni speranza che si possa risolvere, chiarire o mettere luce sul mistero, si rifiuta addirittura di spiegare ciò che deve essere colto non per mezzo della logica, ma per mezzo di quella facoltà appollaiata sul ramo più nascosto nella foresta della nostra mente, la civetta dell'intuizione.
Come in altri film di Weir, la natura è spesso vista come portatrice di un caos primordiale, una forza che sovrasta la transitoria civiltà umana. Sono frequenti inquadrature su lucertole o serpenti, ma colpisce soprattutto una scena in cui delle formiche prendono d'assalto la torta preparata per festeggiare San Valentino, come a simboleggiare l'inutilità degli usi e costumi umani, a confronto con la forza imperitura della natura.
Picnic ad Hanging Rock ci insegna che esistono delle realtà ben nascoste dietro le lenti color pastello della vita di tutti i giorni, che c'è sempre qualcosa che striscia sotto di noi, che osserva, incurante o meno, le nostre azioni insignificanti. Cosparge indizi qua e là, senza mai palesare alcuna verità assoluta, ma fungendo da spinta verso
l'ascolto dei moti interiori che si agitano dentro ognuno di noi, e che non si è abituati a sentire. Il film è un inno al mistero che pervade la realtà, e un manifesto verso l'accettazione incondizionata di questa dimensione segreta, svincolata dall'asfissiante piano razionale.
Un volo aereo: l’Oceanic 815.
Lo schianto, i sopravvissuti, una misteriosa isola apparentemente deserta: si presenta così agli spettatori il famoso sceneggiato creato da J.J. Adams. Lost intreccia numerosi argomenti catalogabili all’interno di filoni riconoscibili ai più: le eterne lotte tra Bene e Male, tra Fede e Scienza e, in particolar modo, tra Fato e Libero Arbitrio.
Il tema del Libero Arbitrio è stato affrontato dal filosofo tedesco Immanuel Kant nella “Critica della Ragion Pratica” del 1788, nonostante l’argomento fosse stato già accennato nella “Critica della Ragion Pura” (1781). Nel primo libro il filosofo parla di come i fenomeni siano strettamente legati ad alcuni meccanismi causa-effetto, ma fa notare anche come le cose di per sé (e di conseguenza anche gli uomini come soggetti) siano libere di svincolarsi da legami di questo genere. Nella seconda opera Kant approfondisce l’argomento; è ragionevole credere di essere liberi, nonostante non sia scientificamente possibile provare una cosa del genere. Il discorso è molto semplice: dovendo agire, le nostre azioni implicano una possibilità di scelta. Quest’ultima dipende dal fine a cui vogliamo arrivare.
L’essere umano è un individuo razionale autocosciente con una scelta di libertà “impura”; nella “Metafisica delle Morali” Kant dice: “(…) la base determinante della facoltà del desiderio si trova all’interno della ragione del soggetto ed è chiamata volere , considerato non tanto in relazione all’azione, ma piuttosto in relazione alla base che determina la scelta dell’azione (…)”. Per poter considerare una volontà “libera”, dobbiamo intenderla capace di agire senza alcuna struttura
causale. Dunque, un libero arbitrio dovrebbe agire sotto leggi proprie, che esso dà a sé stesso. Quanto è facile parlare di libera scelta? E quanto, nell’effettivo, le scelte che spesso tendiamo a giudicare sono libere in tal senso? La dicotomia Fato/Libero Arbitrio innesca inevitabilmente scontri morali tra vari personaggi. John Locke, un uomo anziano con un passato travagliato alle spalle, crede che sia stato il destino ad
averlo portato sull’isola e che ci sia un disegno dietro tutte le vicende che gli sono capitate e che gli capiteranno. Non a caso la frase principale che viene attribuita al suo personaggio, se non la frase più famosa dell’intera serie, è “Non ditemi che non lo posso fare ”; Locke, condizionato da una grave invalidità per un certo periodo di tempo, ricevette spesso rimproveri da parte di altre persone che continuavano ad impedirgli di fare ciò che lui credeva di essere destinato a fare, si percorrere strade che lui riteneva giusto dover percorrere, in modo da assecondare il corretto andamento del suo destino. Considerare un personaggio come John Locke un semplice uomo di fede è estremamente riduttivo, ma necessario per cogliere le differenze con un altro personaggio: Daniel Faraday (omonimo del famoso fisico), il quale crede che l’uomo, pur non potendo cambiare il passato, possa dominare sulla natura e agire su ciò che lo circonda, in quanto libero. Il pensiero filosofico di Kant indaga anche, nello specifico, la predisposizione che ha l’uomo nello scegliere di compiere sia azioni buone che azioni cattive. Presupponiamo che un uomo, a causa
della sua debolezza, abbia scelto di cadere in una condizione di cattiveria morale. Tutto ciò non implica che egli debba rimanere in quella determinata condizione per sempre; sarà infatti in grado di tornare al bene con fermezza e sacrificio. Compiere il male, secondo Kant, significa scegliere di allontanarsi dalla legge morale più importante, quella del dovere. Ciò accade a causa di tre debolezze umane: la fragilità, l’impurità e la corruttibilità. Queste tre debolezze chiarificano tutto il pensiero di Kant: l’essere umano, oltre che essere dotato della ragione, è dotato anche dei sensi che lo spingono ad allontanarsi dal dovere.
Lost non manca di riferimenti a questa tematica, importante per via di due personaggi che rimarranno avvolti nel mistero fin quasi al termine dell’ultima stagione: Jacob e MIB (Man in Black), la personificazione del bene e del male; il primo crede fermamente nel progresso morale dell’umanità e, pur essendo onnipotente, non convince né con i miracoli né con la forza. Non ha secondi fini e proprio per questo non premia nessuno all’istante, pensando che il bene debba essere compiuto per una semplice predisposizione morale. Il secondo, al contrario, disprezza l’umanità; ritiene che gli umani siano condannati ad essere avidi, aggressivi, corrotti e distruttori. Ama il potere ed il controllo perché gli consentono di ottenere qualsiasi cosa lui voglia. Jacob e MIB, fratelli di sangue, pur avendo vissuto insieme da ragazzi, hanno compiuto delle scelte che li hanno condotti, una volta cresciuti, su strade diametralmente opposte. Le teorie sui destini degli uomini sono affascinanti. Che esista un invisibile filo di colore rosso o meno, talvolta è bene credere di essere padroni di sé stessi e poter plasmare con la sola volontà l’intero corso della propria vita. Vorrei a tal proposito, per concludere, riportare queste parole che Daniel Faraday pronuncia sul finire della serie: “Noi possiamo cambiare le cose. Ho studiato fisica relativistica per tutta la vita; l’unica costante certa e assoluta è che non si può cambiare il passato. Quel che è successo è successo. E poi, finalmente, ho avuto un’intuizione. Avevo passato così tanto tempo a concentrarmi sulle costanti da essermi dimenticato delle variabili. E sapete quali sono le variabili di quest’equazione? Siamo noi, noi siamo le variabili! Noi pensiamo ragioniamo, facciamo delle scelte, abbiamo il libero arbitrio. Noi possiamo cambiare il nostro destino ”.
Arcane (Riot Games, Fortiche Production, Netflix, 2021-2024) si propone come adattamento character-story driven ispirato ai personaggi e al mondo di League of Legends, e pone al centro della linea narrativa principale le due sorelle Violet, detta Vi, e Powder/Jinx, all’interno di una costruzione narrativa basata su dualismo e dualità.
Proprio la necessità di narrare una storia, piuttosto che raccontare dei paradigmi sociali, aiuta ad assumere un approccio di analisi diverso dal solito. La serie sceglie di combattere alcuni stereotipi tramite l’indifferenza: considerando infatti la rappresentazione della figura femminile, vengono descritte diverse tipologie di donne, alcune assumono ruoli comunemente associati
agli uomini, ma la particolarità di questa storia è proprio la possibilità di invertire i ruoli e avere lo stesso risultato narrativo. Cambiando genere e sesso di tutti i personaggi la storia rimarrebbe fondamentalmente sé stessa, e grazie a questa “indifferenza” può ugualmente far riflettere sulla rappresentazione dei generi.
Vi e Caitlin, come sottolinea Amanda Overton, sceneggiatrice del quinto episodio della prima stagione, sono due ragazze che vengono da mondi e vissuti completamente opposti: il passato di Vi le rende difficile fidarsi di quello che Caitlyn stessa rappresenta. Dalla scena conclusiva del quinto episodio, Caitlyn che salva la dolorante e ferita Vi, nasce un legame che si consolida nel nono e ultimo episodio in cui è Vi ad aiutare e portare in salvo Caitlyn. Lo scambio di battute tra le due mette in risalto Vi che dice “You’re hot, Cupcake”, una metafora presente anche nel gioco dove ci sono altre voicelines come “High five, Cupcake!” o “Nice shot, Cupcake”, e la cui presenza nella serie è spiegata dalla sceneggiatrice come un esplicito riferimento alle emozioni di Vi, nonostante nel contesto della scena possa assumere anche un significato sessuale. Perché lasciare libera all’interpretazione qualcosa di così importante come i sentimenti? Meglio essere diretti, e rompere l’abitudine di rappresentare i sentimenti omosessuali come sottointesi in un discorso più ampio.
Pur volendo essere un modo per evitare il sottotesto analizziamo i significati di questa frase, tra linguaggio e micro-linguaggio. Un primo significato lo ritroviamo nella metafora della donna come dessert, chiaro riferimento alla donna come oggetto sessuale: la frase assume una funzione precisa di quel micro-linguaggio pieno di allusioni e interpretazioni di carattere psicolinguistico. Nella stessa scena in cui viene pronunciata questa battuta, Caitlyn diventa oggetto dello sguardo di Vi, che le gira attorno osservandone il corpo, si avvicina e la fa indietreggiare contro il muro. La metafora dell’essere dolce, sweet, può rappresentare la donna nella sua riduzione a oggetto, ma anche essere simbolo del parallelismo tra donna come dolce e donna come prostituta (che è comunque un riferimento al contesto dell’episodio). Quando Caitlyn salva Vi, questa si complimenta con lei per essere un’ottima tiratrice e la chiama ancora una volta Cupcake. Caitlyn si presenta per la prima volta dal loro incontro e Vi motiva la scelta di continuare a usare il soprannome datole, sostenendo che lei “è dolce come un cupcake”.
Nel nono episodio, quando Jinx rivela a Vi di aver fatto visita a Caitlyn e di averle preparato uno “snack”, mostrando un cupcake, questo dolce assume altri significati, diventa sinonimo di “persona moralmente troppo buona”: Vi ha sostituito la problematica e aggressiva Jinx con la perfetta e dolce Caitlyn. Tramite le azioni di Jinx ritroviamo anche l’idea di dessert come qualcosa di opzionale, non importante e non necessario, una “perdita di tempo” contrapposta alla prima interpretazione sessuale-emotiva, legata al punto di vista di Vi. Il cupcake diventa perciò metafora non solo delle emozioni di Vi, ma anche di quelle di Jinx, personificate
entrambe nel personaggio di Caitlyn.
Col tempo si sta lasciando spazio a rappresentazioni che non si limitano alla donna manipolativa o seducente, o alla donna “personaggio forte”, ma mostrano scene d’azione ricche di “forza femminile” piuttosto che “bellezza femminile”.
Nella scena della doccia dell’ottavo episodio Caitlyn potrebbe essere resa oggetto, ma non accade: l’inquadratura dall’alto sul corpo della donna, poi sull’acqua e sul sangue, accompagnata dal suono del violino che anticipa l’arrivo di Jinx, nascosta tra il vapore, porta la scena a concentrarsi sui pensieri del personaggio che vengono effettivamente spettacolarizzati, non sul corpo.
Nell’ambigua rappresentazione delle relazioni tra personaggi, Arcane rappresenta quelle che erroneamente vengono indicate come “donne forti”, e sono invece esseri umani indipendenti e donne sicure di loro stesse, pur mostrando il personaggio più “forte” tra tutte, Jinx, completamente dipendente dalla sua relazione con Silco, il padre adottivo. Questo non costruisce solo un rapporto con Jinx, ma compie un consapevole cambiamento di ruolo, allontanandosi dallo stereotipo non solo maschile e paterno, ma anche a livello narrativo di antagonista: è un padre in post-trasformazione, riprendendo le tipologie di Elisabetta Ruspini e un antagonista vittima della società. Caitlyn è invece l’opposto di Jinx: ha scelto la sua posizione nella lotta per la giustizia e rappresenta valori etici e morali nel suo non essere mai resa oggetto, anche quando inquadratura e dialogo ne avrebbero l’occasione.
La sceneggiatrice ha specificato l’inutilità del termine “gay” in un mondo inventato come quello della città di Piltover. Se in un gioco ci si identifica in un personaggio, in Arcane e nel rapporto tra Vi e Caitlyn non ci sono rappresentazioni predefinite della relazione omosessuale (ci sono altri stereotipi).
Confrontando le Vi e Caitlyn del gioco e le Vi e Caitlyn della serie, si evidenzia proprio una rappresentazione narrativa dell’esperienza videoludica: l’esplorazione di sé, tra juissance e crescita laterale. Arcane è stata capace di trasportare nella serialità televisiva la caratteristica videoludica della scelta dell’avatar in un modo non interattivo: con una “anonima” rappresentazione dei generi, si ritrova quella caratteristica e possibilità del videogioco di rappresentare e rappresentarsi. Sono tutti tentativi di colmare e costruire la propria identità, quale modo migliore per farlo se non raccontando delle storie.
Meglio parlare o morire?
Una frase che in qualche maniera è rimasta stretta nella mia gola dalla prima volta in cui vidi Chiamami Col Tuo Nome (2017), ormai più di sei anni fa.
Una pellicola che ha glorificato Guadagnino, rendendo la sua opera già un cult.
Un film decisamente noto nella nostra generazione, che vanta, oltre, per l’appunto, la regia di quest’ultimo, l’adattamento per lo schermo di un maestro come James Ivory e la penna del libro originale di André Aciman.
La trama, bene o male, è nota: estate del 1984, da qualche parte nel Nord Italia, l’adolescente Elio nella villa di famiglia è costretto ad accogliere l’americano Oliver, studente invitato dal padre, professore di archeologia.
Quella di Elio è quasi un’educazione sentimentale: i dialoghi nel film sono pochi, ma le sensazioni che ne emergono sono così palpabili che per lo spettatore è quasi impossibile non sentirsi travolto a sua volta nel primo amore del protagonista.
Timothée Chalamet dimostra una capacità incredibile nel non detto: i suoi movimenti, i suoi sospiri, i suoi sguardi comunicano tutto quello che serve per capire quanto sta nascendo nell’animo del suo personaggio. Entrambi gli attori, anche Armie Hammer, sembrano essere un parallelismo delle statue greche studiate dal padre di Elio. I loro corpi tesi sotto il sole estivo, esprimono il desiderio che cresce in noi che osserviamo, ma che sentiamo anche in loro, ancora una volta in un non detto, che rimane sospeso nell’aria: Elio ed Oliver vogliono toccarsi, baciarsi, ma sono trattenuti da emozioni, dubbi, non capaci di farli cedere.
Elio, in quanto protagonista, rimane al centro della pellicola, con le sue emozioni e con i suoi tormenti. Il desiderio tanto temuto, che cresce nei confronti di Oliver, viene impiegato nelle sue solite attività: leggere, suonare, trascrivere musica, fare il bagno, trascorrere il tempo con la sua famiglia, in quella villa e quei dintorni di Crema che ancora di più rendono così delicato e cinematograficamente immenso il soggetto.
Dunque si ritorna a <<Is it better to speak or to die?>>, la frase che contiene il fulcro dei tormenti del protagonista. Parlare o morire? Rivelare quel desiderio che lo attrae sempre di più verso Oliver o rimanere soffocato dalle proprie emozioni?
È la questione che sorge anche in noi spettatori che, inevitabilmente, ci ritroviamo a domandarci se sia meglio parlare o morire e quante volte siamo morti piuttosto che esprimere i nostri sentimenti per paura; eppure parlare: Elio lo fa, delicatamente, ancora una volta.
I dialoghi della pellicola sono misurati, le parole pesate e ognuna di esse rimane viva.
La colonna sonora di Sufjan Stevens, integrata da pezzi di musica classica e vecchie canzoni italiane, non è un sottofondo musicale, è personaggio, è fondamentale per il ruolo che ha assunto il film nell’immaginario collettivo. La delicatezza delle melodie, dei testi, sono complementari alla trama, sono come uno specchio interiore dell’anima di Elio, fino ad arrivare, con Mistery of Love, ad essere un carezza per provare a farci immaginare l’amore tra lui ed Oliver. Guadagnino è stato capace di ricreare il primo amore con una maestria incredibile, sia che lo spettatore lo abbia già vissuto, sia che lo debba ancora vivere, è impossibile che non venga trascinato nel vortice di emozioni e sensazioni del protagonista, che non senta quel desiderio di toccare l’altro, senza sapere come fare; se fare.
Parlare è meglio che morire quindi, anche il dolore va vissuto per non strappare via l’essenza di sé stessi: Chiamami col tuo nome è un’educazione sentimentale che serve ad ogni età e che ogni volta che si rivede lascia una nuova sensazione, una nuova emozione, un nuovo insegnamento.
10/07/2024
“La tua carne è la sua fantasia”.
— The Human Centipede.
L’horror è il genere corporeo per eccellenza: un linguaggio senza eguali per la rappresentazione dei terrori del corpo, dei sentimenti più contorti e radicati, tendente a sottolineare e a sradicare valori e tradizioni becere a cui siamo troppo fusi per poterne riconoscere le sfumature — in momenti come questi l’arte oltre a essere un mezzo espressivo diviene anche un mezzo di riconoscimento e di consapevolezza, tanto da riuscire a ricoprire un ruolo fondamentale non solo per l’intrattenimento, ma anche per la scoperta di sé e del mondo circostante.
Tale rappresentazione, nei giorni odierni, rientra nei sottogeneri dell’horror e prende il nome di “body horror” o “horror biologico”. Erede del gotico, il body horror è intrinsecamente grottesco, richiamando le atmosfere più tenebrose e al contempo alimentando l’analisi psicologica del decadimento (horror psicologico) dei personaggi attraverso mutilazioni o trasformazioni, rendendo così il corpo del soggetto in questione “mostruoso”. È importante notare, a questo punto, che per la creazione di un mondo gotico si necessita un’alterità mostruosa e il modo più facile per individuarla è attraverso la corporeità. I film appartenenti alla sfera del body horror si propongono di esplorare le paure radicate dell’uomo nei confronti del corpo, soprattutto dopo l’evoluzione scientifica e tecnologica, che hanno determinato rilevanti scoperte riguardo le capacità e i limiti dell’essere umano. Gli aspetti spettrali e inquietanti dell’horror ottengono sempre una grande considerazione, a differenza degli aspetti somatici e corporei, i quali, basandosi sulla consapevolezza dello spettatore del proprio corpo, giocano con la possibilità dell’esistenza di qualcos’altro, qualcosa che non possiamo vedere e che, di conseguenza, temiamo. La paura dell’ignoto è un movente perfetto, sempre attuale, con una storia culturale e sociale (in)espressa nelle arti: in quest’articolo, prendendo in esame la settima - ovvero l’arte del cinema -, mi prospetto di analizzare i messaggi inviateci dai film «body horror», con l’aspettativa di trovare corrispettivi con la società odierna.
Un punto saldo del cinema horror è sicuramente occupato da Rosemary’s Baby (1968), film diretto da Roman Polanski. Questa pellicola è una delle prime ad avere caratteristiche body horror, trattate con un surrealismo e un realismo incredibile, tantoché influenzerà opere successive come l’Esorcista (1973) di William Friedkin, altro classico indimenticabile.
La storia verte su due giovani, Rosemary e Guy Woodhouse, che vanno ad alloggiare a New York nell’American Gothic Dakota Building, esperienza che col passare del tempo si trasforma sempre più in un incubo. Infatti è qui, nel Dakota, che risiede una setta decisa a generare il figlio di Satana. Ergo, i temi centrali del film saranno la procreazione e la maternità, argomenti che vengono inquadrati proprio dalla protagonista Rosemary, seppure in modo semi soggettivo. L’horror s’intreccia dunque al quotidiano e poi al sacro, toccando la generazione che è divina, ma al contempo malvagia. La paura femminile di procreare si plasma nella constatazione che generare non è altro che l’ennesimo meccanismo conformista per controllare la donna e il suo potere riproduttivo ingestibile. Ed è infatti il marito di Rosemary, Guy, a vendere il figlio al Demonio, testimoniando quanto sia integrato in quel meccanismo; mentre la protagonista lotta, portando lo spettatore a vagare fra paranoia e realtà fino alla fine del film, che si conclude con l’accettazione da parte di Rosemary del figlio, ossia un “mostro”. Una volta presa coscienza della mostruosità del corpo, non si teme più soltanto il pericolo dell’essere misterioso, ma anche delle caratteristiche umane di quest’ultimo, poiché la presenza di queste prevede anche una dose di mostruosità riservata agli umani. La maternità di Rosemary, non controllata e scelta da lei, rappresenta la repressione della femminilità, di una società che regolarizza la famiglia e la sessualità delle donne, così da non far crollare il patriarcato. Il corpo della protagonista muta nel film, appare inizialmente come lucente e adolescenziale, fino a diventare
smagrito e incavato; questa metamorfosi è il passaggio da figlia a madre, da un soggetto controllato dalla società ad un altro, forse più spaventoso. «La gravidanza è una trasformazione del corpo così estrema che ha come risultato un’altra persona. In questo non somiglia a nulla, eccetto, forse, al cambio di sesso» dice la teorica Andrea Long Chu.
Uno dei maggiori esponenti del body horror è David Cronenberg, regista inimitabile e indimenticabile: caratteristiche che ci vengono dimostrate fin dall’inizio della sua carriera, ma che ricevono il giusto riconoscimento solo dopo molto tempo. Ricordiamo, pertanto, Videodrome (1983), pellicola in cui Cronenberg più che mai disegna la sua poesia della carne, creando una dimensione mai vista prima, nella quale entra a far parte anche la tecnologia. Ma come ci riesce? Codificando e plasmando le fantasie più desuete dell’essere umano, giocando con le loro menti e con i loro corpi. La storia riguarda Max Renn, presidente di un programma televisivo che imbattendosi in “Videodrome”, show incentrato sulle torture carnali, si ritrova in un vortice di allucinazioni e deliri. Il protagonista è talmente affascinato dal canale che il virtuale e il reale inizieranno a fondersi, riuscendo a rappresentare meravigliosamente il rapporto tra uomo e immagine multimediale. Ma prima di questo ci viene presentata un’ideologia innocua, dove l’obiettivo è solo soddisfare le pulsioni incontrollabili e calmare le frustrazioni. Eppure è proprio l’innocenza di questi stimoli a portare all’eccesso. Con il mondo della tecnologia, e soprattutto attraverso il mondo della tecnologia, si scopre che c’è sempre qualcosa in più che si può sopportare. Il film è proprio questo, una valanga d’informazioni, che portano a quello stato confusionale, non permettendo più di riconoscere, per esempio, la violenza finta, dalla violenza vera. Cronenberg mediante il corpo parla della mente, del suo decadimento al seguito di uno stimolo come la tecnologia, che si propone di sostituire la realtà stessa, riuscendoci. La trasformazione di Max in un organico videoregistratore, pronto ad accogliere nel suo ventre una fetale videocassetta, è una manipolazione, un modo per trasformare il corpo e portarlo a nuovi stimoli sensoriali. Una pellicola dove l’annullamento dell’umanità e della libertà di pensiero avviene sadicamente e in cui l’unica salvezza è la morte (rinascita), un’ennesima alterazione della realtà. Ed è quindi un “lunga vita alla nuova carne”.
Tutte rappresentazioni che riflettono ancora la società, dalla donna-madre, all’uomo tecnologico. Tuttavia, ce n’è ancora una di cui vale la pena parlare: questa tratta un aspetto che ha sempre, in un modo o nell’altro, caratterizzato l’umanità, ed è quello dell’incomunicabilità, che potrebbe in ogni caso essere analizzata come conseguenza della tecnologia. Il film in questione è The Human Centipede: First Sequence (2009) di Tom Six, primo di una trilogia. Storia alquanto classica, che si apre con il Dr. Josef Heiter, chirurgo specializzato nella separazione di gemelli siamesi, che rapisce tre turisti e li rinchiude nella sua casa con l’intento di trasformarli in un millepiedi umano, cucendo la bocca di uno sull’ano dell’altro. Col suo sadismo disgustoso, la pellicola fin dall’inizio, tramite pianti soffocati e violenze lasciate all’immaginazione, ci fa comprendere che la disperazione è l’elemento portante, enfatizzando la vulnerabilità della carne e della sua complessità. È evidente che il film faccia riferimento alla Seconda Guerra Mondiale: il dottore, tedesco, col nome richiama a Mengele e col cognome a Hitler, mentre le vittime (due ragazze americane e un ragazzo giapponese) completano il quadro, che è chiaramente ben radicato in un contesto altrettanto specifico. Non è un riferimento approfondito, ma sicuramente non banale, poiché ci porta direttamente al tema principale: l’incapacità di comunicare; infatti le vittime parlano lingue diverse e due di loro hanno la bocca cucita. Nel finale del film, Katsuro (il ragazzo giapponese), inizia un monologo affermando d’essere un insetto e che il dottore invece, è Dio, andato a punirlo per aver lasciato la sua famiglia. Egoisticamente, Katsuro infine, decide di tagliarsi la gola; assieme a lui muore anche la ragazza che conclude il Millepiedi, a causa di un’infezione, lasciando così sola l’amica, intrappolata fra i due corpi e destinata a perire — la sua condizione potrebbe riferirsi alla solitudine e, di conseguenza, riportare al centro del discorso l’assenza di comunicazione.
Queste opere, seppure molto diverse, hanno in comune il mezzo col quale comunicano i propri messaggi e disturbano lo spettatore. Questo mezzo è il nostro corpo, dove tutto nasce e tutto muore, artefice di miracoli, ma al contempo carnefice di peccati.
Il sottogenere del body horror si contraddistingue perché non distrugge, bensì trasforma.
10/07/2024
Storie di donne che hanno portato sul grande schermo il proprio dolore
Riferendosi a Frances McDormand, Michela Murgia, nel suo podcast Morgana, disse: “Frances è perfettamente consapevole che ci sono poche storie cinematografiche adatte alle donne; scherzando, in un'intervista, un giorno ha detto che dipende dal fatto che 90 minuti non sono il tempo ideale per raccontare la storia di una donna”.
Quello che hanno detto le due non è per niente falso, ci sono anche dei dati che lo dimostrano: lo studio condotto dal Center for the Study of Women in Television and Film dell’Università di San Diego rileva come il numero dei personaggi femminili protagonisti sia sceso ancora di più quest’anno (da un 33% nel 2022 a un 28% nel 2023).
Tutto ciò dipende notevolmente dal basso numero di registe donne, le quali, sempre secondo lo studio, scelgono altre donne come protagonista quasi la metà delle volte, mentre spesso, i registi uomini tendono a preferire protagonisti maschi.
Con questo non si sta dicendo che facciano male, anzi, così come si dice che nessuno può raccontare una donna meglio di un’altra donna, allo stesso modo potrebbe valere per l’altro sesso. A questo punto quindi il problema sembra essere una bassa percentuale di rappresentazione nei leading role, dal momento che di donne nel cinema ce ne sono all’infinito, ma solo un numero percentualmente ridottissimo ricopre ruoli determinanti (un po’ come accade nel mondo del lavoro). La frase della McDormand, analizzata un po’ più a fondo, ci porta a domandarci come mai ci vuole così tanto tempo e lavoro per raccontare al meglio la figura di una donna; e a questo interrogativo ha risposto la stessa Michela Murgia, sempre nel suo podcast: ciò che differenzia le storie degli uomini da quelle delle donne è che l’epica maschile è un’epica dei fatti (un uomo fa una cosa, quella cosa si evolve, poi viene risolta), mentre l’epica delle donne è un’epica delle relazioni.
Il concetto sembra complicato ma non lo è: in tutti gli esempi che porterò oggi per raccontare le mie protagoniste femminili preferite, si capisce che la trama non si basa su una successione di eventi fini a loro stessi, ma è ogni volta una trama intricata di emozioni, relazioni, sentimenti di odio, di amore, di rancore, di solitudine e di perdizione.
Pochissimi di questi film durano appena 90 minuti, forse perchè la battuta iniziale così tanto ironica non era.
Tutti però nascono con l’intento di raccontare qualcosa di profondo, qualcosa che porti negli spettatori un briciolo di quella femminilità logorata che stanno osservando.
Vi faccio infatti un piccolo spoiler: nessuna delle protagoniste è felice.
Alcune iniziano con l’esserlo, altre finiscono col divertarlo, ma nessuna di loro sarà esente dall’oblio del sentirsi sole al mondo, schiacciate dalla vita di tutti i giorni, anche se ognuna a modo suo.
Tre manifesti a Ebbing, Missouri (di Martin McDonagh, 2017)
Il primo titolo è lo splendido racconto di una madre che perde la figlia per omicidio in una cittadina americana in cui nessuno sembra avere l’intenzione di aiutarla a trovare i colpevoli. La reazione di Mildred (non lasciatevi intenerire dal nome, il suo carattere vi farà cambiare idea) è più che comprensibile: dopo sette mesi di silenzio, la cosa più banale da fare è scatenare l’inferno. E’ con la pubblicazione di tre cartelloni autostradali alle porte del paese, con una chiara provocazione agli agenti di polizia indisturbati dall’avvenimento, che ha inizio la fine di tutto.
“Tutta questa rabbia genera solo ancora più rabbia”, le viene detto da un suo compaesano dopo tutti gli scompigli che la donna ha creato in città; la sua risposta? ancora più rabbia, ancora più scompiglio. Siamo stati abituati a vedere episodi di female rage in vari film horror, da Carrie a Pearl, ma mai ci era capitato di vedere una donna di mezza età, in possesso di tutte le sue facoltà mentali, calma fino all’ultimo, incazzarsi come il diavolo quando ne ha abbastanza di essere invisibile. Il ritratto di una delle classiche donne-poco-femminili, che insulta, si infuria, spacca tutto e non le manda a dire quando c’è la memoria della sua bambina in ballo.
Nomadland (di Chloé Zhao, 2021)
Qualcuno lo ha definito un film del tipo “What you give to it, it gives to you”.
E’ proprio così: potresti guardarlo con gli occhi di chi si aspetta qualcosa di nuovo e rivelatore, ma rimarresti deluso; oppure potresti guardarlo con gli occhi di chi non si aspetta nulla e viene colpito dalla naturalezza e dalla semplicità della vita da nomadi.
Fern è una donna che ha perso il marito e il lavoro, non sa più dove stia casa sua o dove dovrebbe stare lei, così sceglie di non avere una casa e vivere ovunque.
Il fallimento del sogno americano ci viene rappresentato attraverso il ritratto di una piccola comunità di uomini e donne che cercano un nuovo senso per la loro vita, andando ogni giorno alla ricerca di un nuovo motivo per essere felici (non sempre riuscendoci).
Il messaggio, comunque, è solo uno: quando intorno a te sembra non essere rimasto più niente, forse è proprio in mezzo a quel vuoto che devi trovare la libertà.
Sick of Myself (di Kristoffer Borgli, 2023)
Se avete visto e amato The worst person in the world, probabilmente questo farà al caso vostro (anche se non credo superi il primo).
Siamo in Norvegia, Signe è una normalissima ragazza sulla ventina che, terrorizzata dal fatto di perdere il fidanzato e insoddisfatta della sua vita da “persona qualunque", decide di avere bisogno di qualcosa che la renda speciale per gli altri (e forse anche per sé stessa).
L’escamotage che adotta è quello di assumere, più che consapevolmente, delle droghe che le sfiguereranno il viso in maniera irreversibile e degenerativa, così da attirare l’attenzione che ha sempre desiderato.
Da barista fidanzata con un artista di medio successo, Signe diventa il caso medico per eccellenza del paese. Nessuno si sta spiegare quale sia la sua malattia, da dove sia arrivata e dove la potrà portare, eppure a tutti, meno che a Signe stessa, sembra importare.
Il grottesco qui padroneggia lo schermo, dal fidanzato che rimane per pietà agli amici che non riescono a trattenere il disgusto, persino il business della moda marcia sulla “pornografia del dolore”. Insomma, un concentrato di tristezza che insegue una felicità malata e fasulla, spinta dall’insoddisfazione nell’era dei social media.
Documenteur (di Agnès Varda, 1981)
Tornando un po’ indietro nella storia, troviamo uno di quelli che reputo il capolavoro della regista francese Agnès Varda.
Già dal titolo si può capire l’originalità della pellicola: la traduzione letteraria del gioco di parole sarebbe “Documentitore”, perché quello in questione potrebbe sembrare un documentario filmato nelle strade dei sobborghi di Los Angeles, eppure il magnifico gioco tra fantasia e realtà mescola delle riprese reali con la narrazione di una donna separatasi da poco che vive cercando di arrancare ogni giorno fino a sera insieme al figlio.
Il dolore di questa Emilie giace nella sua incapacità di ritrovarsi come donna e come individuo, prima che come madre e scrittrice, e dopo che come moglie.
Felicità (di Micaela Ramazzotti, 2023)
L’opera prima di Micaela Ramazzotti si concentra sul dolore di una sorella e di una figlia troppo innamorata del fratello minore per accettare la sua tossicodipendenza e concepire la noncuranza dei suoi genitori di fronte al rischio di perderlo.
Desirè è una donna fortissima e molto coraggiosa che combatte da quando era piccola per la propria indipendenza, eppure c’è sempre quella catena che la lega al suo passato e alle sue origini: i genitori. Questi sono fortemente invalidanti per la salute mentale dei figli, tanto da non riuscire a vedere la disperazione nel tentativo di suicidio del figlio.
Desirè, dal canto suo, sarà l’unica a capire il fratello e a salvarlo dal loro passato di amori tossici e soffocanti, ma non senza sbattere contro il muro della diffidenza genitoriale.
Non è altrettanto facile riuscire a salvare sé stessa, però.
L’amore che la lega ai suoi affetti, infatti, non sarà in grado di lasciarle prendere quella spinta che invece ha salvato Claudio (o quasi).
Pieces of a Woman (di Kornél Mundruczó, 2020)
Dulcis in fundo, il film che è valso la Coppa Volpi alla straordinaria attrice Vanessa Kirby, il cui stesso regista descrive come “se avesse sempre un segreto dentro di sé che riesce comunque a mostrare” perché “anche il suo silenzio è ricco”.
Nato dal lavoro del regista Kornél Mundruczó e della sceneggiatrice, sua moglie, Kata Wèber, racconta la tragica storia di una gravidanza andata nel peggiore dei modi.
La prima mezz’ora di film si concentra sul parto in casa della donna, un parto fortemente problematico che, tra l’assenza dell’ostetrica prescelta e la superficialità della sostituta, ha causato la morte della neonata.
La storia sembra essere realmente accaduta ai due autori, non è da stupirsi dunque che la sceneggiatura sia magistralmente realistica e cruda, nonostante questo però, l’immensa bravura della Kirby e di colui che interpreta il marito, Shia LaBeouf, rendono la narrazione un concentrato di sofferenza anche per chi non si è mai trovato a fare i conti con una tragedia del genere.
10/07/2024
Yorgos Lanthimos ci trascina nel mondo di Bella, o meglio, un mondo che Bella, in Poor Things, vuole scoprire.
La giovane donna, riportata in vita, dal medico Godwin Baxter, si presenta come tale, ma ha la mente di una bambina.
Lo spettatore spia, prima attraverso le immagini in bianco e nero e con l’uso ricorrente del fish- eye, nell’”infanzia” di Bella, nell’immensa villa della Londra vittoriana, costellata da strani incroci di animali e esperimenti del medico God, fino a poi venire a conoscenza di nuovi ed eccentrici personaggi.
Ma è lo sviluppo sempre più rapido di Bella e la sua fame di vita che vogliono dare il ritmo alla pellicola, ed è così che Godwin Baxter, non può tenere la figlia chiusa nelle sue mura più tanto a lungo.
Nonostante la giovane sia promessa all’aiutante di God, Max McCandles, decide di partire per conoscere il mondo con l’avvocato Duncan Wedderburn, un uomo libertino e pieno di donne, che però sembra poter saziare la fame di vita e di conoscenza di Bella.
Lo spettatore riscopre il mondo attraverso gli occhi di Bella: il bianco e nero viene abbandonato dando spazio a colori pastello, sgargianti, avvolgenti, a scenografie oniriche e costumi eccentrici, che rappresentano lo sviluppo e il carattere della protagonista.
La sua scoperta è prima sessuale: di fatto le sequenze che mostrano amplessi non si dimostrano essere un problema né per il regista né per gli attori; quello di Bella, si può dire sia, un vero e proprio risveglio, seguito da un desiderio implacabile di conoscere il suo corpo e il suo piacere. La protagonista nella prima parte del suo viaggio, specie a Lisbona, si dedica proprio al piacere, senza quell’occhio malizioso che una donna adulta e impostata nell’alta società di quell’epoca dovrebbe avere; conosce quindi, il sesso, i sapori, il cibo, la musica, la danza, senza freni e senza regole, ma la sua fame per la libertà e l’ignoto riesce ad essere saziata da un mondo di soli lussi e privilegi.
L’essenza di Bella, la sua mancanza totale di conformismo alle regole, al costume, priva di interesse per i pregiudizi imposti dalla società, portano il personaggio di Duncan Wedderbun, da donnaiolo e disinteressato, ad essere sempre più geloso e possessivo, tanto da condurre la ragazza su una nave crociera, dove è certo che non possa sfuggire da lui.
Lo sviluppo della protagonista a questo punto è sempre più rapido: Bella abbandona frame dopo frame, gli atteggiamenti da bambina, che rendono la pellicola così ironica a tratti, per acquistare ancora di più la sua libertà, attraverso la cultura.
Da questo momento del viaggio, il mondo di Bella, non è più solo fatto da sesso, pasti prelibati e una fotografia pastello.
La giovane donna si scontra con idee, pensieri, dolore, filosofia, storia, libri fino ad avere completo disinteresse per l’uomo che l’accompagna.
Il viaggio si complica fino a Parigi, dove Bella, lavora come prostituta, riscoprendo il sesso, gli uomini e la società, da come pensava di averli conosciuti, dedicandosi allo stesso tempo, alle lezioni di anatomia e alle riunioni socialiste.
Bella è un’esploratrice, è anche un’eroina, ma essendo così umana sbaglia, è vulnerabile; grazie al suo viaggio, siamo noi spettatori i primi a riscoprirci, a mettere in discussione noi ed una società che ci fa crescere sotto un velo fitto di regole, pregiudizi e costumi.
Attraverso gli occhi puri ed innocenti di Bella, donna, giovane, bambina, tutto è concesso: il mondo che pensiamo di conoscere meglio di lei, ci si presenta come nuovo.
Poor Things mette in discussione la morale, affidata fin dagli albori nelle mani degli uomini, fino a condurci in quello che sembra un folle sogno, ma che poi non si discosta così tanto dalla nostra realtà odierna.
La pellicola compie un’iperbole della realtà, così che lo spettatore possa vivere il viaggio di Bella, sentire le catene di cui ella per prima si vuole così disperatamente liberare e conoscere il mondo. Lo conosciamo davvero quindi, il nostro mondo?
E forse, quindi, siamo noi ad essere le povere creature, schiacciate in una società che ci intrappola nelle sue norme fin dalla nascita, senza possibilità di rinascere come Bella.
22/05/2024
Sofia Coppola si contraddistingue ormai da più di vent'anni per via dei suoi film esteticamente perfetti in cui analizza e disseziona la femminilità. Tra i suoi titoli più conosciuti troviamo “Maria Antonietta” e “Il giardino delle vergini suicide” che , al tempo della loro uscita, divisero la critica in 2 fazioni nette: chi detestava la vuotezza dei dialoghi e vedeva soltanto la cura dell'estetica e chi invece notava quanto quei silenzi fossero in realtà carichi di significato. Questo stesso problema si è riproposto anche con l’uscita del suo ultimo film, “Priscilla” , presentato lo scorso settembre alla Mostra del cinema di Venezia dove Cailee Spaeny ha vinto la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile.
“Priscilla”, tratto dall'autobiografia di Priscilla Presley intitolata "Elvis and Me", narra la storia della moglie del "Re del Rock". La trama comincia in Germania quando Priscilla (Cailee Spaeny), figlia quattordicenne di un generale dell'aviazione, conosce Elvis (Jacob Elordi), un ventitreenne già diventato celebre per la sua musica ed i suoi passi di danza rivoluzionari, e ci accompagna per tutta la loro storia d'amore fino al divorzio. Nel corso del film ci vengono mostrati tutti i lati più problematici della coppia; ci viene offerto un ritratto di Elvis molto diverso (e più credibile) rispetto a quello fatto qualche anno fa da Baz Luhrmann e vengono sottolineati maggiormente i comportamenti tossici nei confronti della moglie. Infatti un elemento fondamentale del film è proprio il potere soffocante che Elvis esercita sulla vita della protagonista. Scegliendo tutto ciò che indossa, costringendola a passare la maggior parte della sua gioventù in solitudine e portandola a drogarsi, la presenza del marito fa diventare Priscilla un personaggio secondario non solo nella vita degli altri, ma anche nella sua. Con questo personaggio la Coppola è riuscita a dipingere un ritratto magistrale di una donna che osserva passivamente la propria vita esser completamente rimodellata in base ai gusti ed alle necessità di un uomo. Tutto ciò viene trasmesso anche grazie ai dialoghi carichi di silenzi (un tratto distintivo della Coppola) che ci costringono a notare la solitudine e l’impotenza di Priscilla. La scrittura è uno dei punti più forti del film non solo per la costruzione dei personaggi, ma anche per la struttura molto particolare formata da vari segmenti che rendono la trama incredibilmente scorrevole. Alla base della narrazione non vi è solo un'eccellente sceneggiatura, ma anche un uso molto intelligente delle scenografie e dei costumi. Come la maggior parte delle opere della Coppola, "Priscilla" è un film esteticamente perfetto. Ogni elemento visivo viene utilizzato meticolosamente rendendolo parte integrante del racconto. Nel corso della storia Priscilla vive una profonda metamorfosi passando dall'essere un'adolescente ad essere una donna e, grazie all'uso pazzesco di trucco e costumi, si potrebbe quasi pensare che Cailee Spaeny sia effettivamente cresciuta durante le riprese. L'evoluzione dei costumi da un contributo enorme al film e la stessa cosa viene eseguita in parallelo con le scenografie. L'intima cameretta della vecchia casa in Germania e la fredda e claustrofobica Graceland sottolineano nuovamente la transizione dall'ingenuità adolescenziale alla maturità intrisa di solitudine vissuta dalla protagonista. Infine, non si può parlare di “Priscilla” senza commentare il casting eccezionale per i due attori protagonisti. Cailee Spaeny ci riporta una performance a dir poco spettacolare dimostrando una variabilità incredibile. Personalmente sono rimasta molto colpita dalla scelta di far interpretare Elvis a Jacob Elordi dato che, nonostante inizialmente non mi convincesse troppo, si è rivelato esser perfetto per il ruolo. Elordi è infatti riuscito a ritrarre Elvis in modo estremamente umano, a differenza di Austin Butler che invece aveva dato un forte tono caricaturale al personaggio.
Ma allora qual'è il vero problema di questo film? Il problema di "Priscilla" è proprio lo stesso che accomuna la maggior parte dei film di Sofia Coppola: la tematica ripetitiva. Il filo rosso che unisce tutta la sua filmografia è il concetto di solitudine e, per quanto lei lo possa affrontare in maniera formidabile, sta rendendo il suo repertorio estremamente monotono. Infatti il problema non è il tema in sé, ma il fatto che lo affronti sempre nello stesso modo; una donna (solo in "Somewhere" e “Lost in translation” si tratta di un uomo) bianca altolocata vive rinchiusa in una bolla che la aliena dal mondo esterno. Quindi che ha da dirci questo film? Cosa ci dice che non abbiamo già sentito in “Maria Antonietta” o negli altri film della medesima regista? Onestamente niente. Se preso singolarmente, può sembrare una pellicola dallo stile molto particolare, ma se si considerano le altre opere della sua filmografia ci si rende conto che è solo un copia e incolla di tutti i suoi altri film. Sofia Coppola sta esaurendo le sue idee? Stiamo assistendo al tramonto di una grande regista? Per fortuna, non possiamo ancora rispondere a queste domande, almeno non fino all'uscita del suo prossimo film…
22/05/2024
E’ il 1940, in piena seconda guerra mondiale, e nelle sale esce il primo film sonoro di un’icona mondiale, tale Sir Charles Spencer Chaplin, per gli amici solo Charlie. “The Great Dictator” (Il Grande Dittatore). Questo film non solo rappresentò un atto di coraggio artistico, ma anche un potente appello per la libertà e la dignità umana.
"Il Grande Dittatore" è una commedia satirica che narra la storia di due personaggi: il dittatore del fittizio paese di Tomania, Adenoid Hynkel, e un semplice ebreo barbiere. Hynkel, un chiaro riferimento a Hitler, è un despota folle ossessionato dalla conquista del mondo. Nel frattempo, il barbiere ebreo, che ha servito come soldato durante la Prima Guerra Mondiale, si ritrova coinvolto in una serie di eventi che lo portano a incrociare il cammino del dittatore. Nonostante la somiglianza fisica con Hynkel, il barbiere è l'antitesi morale del dittatore, rappresentando i valori dell'umanità, della gentilezza e della compassione.
In questa pellicola, Chaplin utilizza l'umorismo per smascherare l'assurdità e la brutalità dei regimi dittatoriali, mettendo in ridicolo i loro leader e le loro ideologie. La scena in cui Hynkel danza con un mappamondo è diventata un'icona della satira politica, rappresentando la megalomania e la follia dei dittatori.
La produzione di “Il Grande Dittatore” non fu priva di difficoltà. Chaplin finanziò il film con i propri fondi, di fronte al timore che il contenuto potesse essere troppo controverso. Inoltre, la pellicola fu realizzata in un momento in cui gli Stati Uniti non erano ancora entrati in guerra e mantennero una posizione di neutralità, il che rendeva il film ancora più audace e rischioso.
Nonostante le sfide, “Il Grande Dittatore” divenne un successo sia di critica che di pubblico, consolidando la fama di Chaplin come uno dei più grandi artisti del suo tempo. Il film ricevette cinque nomination agli Oscar, inclusi miglior film e miglior attore per Chaplin stesso.
Ciò che rende "Il Grande Dittatore" così potente e rilevante è il suo fervido appello alla libertà e alla dignità umana.
Nella toccante sequenza finale del film, il barbiere ebreo prende la parola in un discorso appassionato che risuona ancora oggi:
«Soldati! Non cedete a dei bruti, uomini che vi comandano e che vi disprezzano, che vi limitano, uomini che vi dicono cosa dire, cosa fare, cosa pensare e come vivere! Che vi irregimentano, vi condizionano, vi trattano come bestie! Voi vi consegnate a questa gente senza un'anima! Uomini macchine con macchine al posto del cervello e del cuore.
Ma voi non siete macchine! Voi non siete bestie! Siete uomini! Voi portate l'amore dell'umanità nel cuore. Voi non odiate. Coloro che odiano sono solo quelli che non hanno l'amore altrui. Soldati, non difendete la schiavitù, ma la libertà! Ricordate che nel Vangelo di Luca è scritto: «Il Regno di Dio è nel cuore dell'Uomo».
Non di un solo uomo, ma nel cuore di tutti gli uomini. Voi, il popolo, avete la forza di creare le macchine, il progresso e la felicità. Voi, il popolo, avete la forza di fare si che la vita sia bella e libera.
Voi che potete fare di questa vita una splendida avventura. Soldati, in nome della democrazia, uniamo queste forze. Uniamoci tutti! Combattiamo tutti per un mondo nuovo, che dia a tutti un lavoro, ai giovani la speranza, ai vecchi la serenità ed alle donne la sicurezza. Promettendovi queste cose degli uomini sono andati al potere. Mentivano! Non hanno mantenuto quelle promesse e mai lo faranno. E non ne daranno conto a nessuno. Forse i dittatori sono liberi perché rendono schiavo il popolo.
Combattiamo per mantenere quelle promesse. Per abbattere i confini e le barriere. Combattiamo per eliminare l'avidità e l'odio. Un mondo ragionevole in cui la scienza ed il progresso diano a tutti gli uomini il benessere. Soldati! Nel nome della democrazia siate tutti uniti!»
Anche se sono trascorsi più di ottant'anni dalla sua uscita, "Il Grande Dittatore" continua a essere una pietra miliare del cinema e un monito contro i pericoli del totalitarismo e dell'intolleranza. Il film ci ricorda che la lotta per la libertà e la giustizia è un impegno eterno, che richiede il coraggio di alzarsi e difendere ciò in cui crediamo. In un'epoca segnata dal razzismo, dalla xenofobia e dalla crescente polarizzazione politica, le parole di Chaplin risuonano con una forza e una chiarezza straordinarie.
22/05/2024
Nell’essere madri c’è solitudine, sofferenza, insicurezza. Dall’altra parte, le figlie rispondono con astio, ribellione e prepotenza alla mancanza di un rapporto che dovrebbe essere biologico e inesorabile. Come possiamo guarire la cicatrice lasciata da queste mancate connessioni?
Greta Gerwig ha abbracciato una delle tematiche più palpabili e vibranti agli occhi di una generazione di figlie incomprese quando nel 2017 ha fatto il suo debutto con Lady Bird. Acclamato e discusso dalla critica, il film è in realtà di una semplicità e banalità incredibile, ma in qualche modo ha colto perfettamente il rapporto teso e conflittuale tra Christine “Lady Bird” McPherson, in piena fase adolescenziale, e la rigorosa madre Marion. Tra le due c’è incontenibile attrito che si declina quotidianamente negli scontri tra le due. Ladybird, interpretata dalla talentuosa Saoirse Ronan, è un’adolescente a tratti detestabile ed egoista; si trova in uno stato di totale idealizzazione del futuro e della vita in generale, desidera profondamente una via di fuga da Sacramento. Si ritrova però a soccombere di fronte alla madre aspramente critica e delusa, che non manca mai di riflettere le sue ansie e frustrazioni nella figlia. Mentre Ladybird cerca di ricostruire un’identità tutta sua e del tutto svincolata dalla madre (partendo dal ribattezzarsi con un nuovo nome, colorandosi i capelli…), quest’ultima è del tutto incapace di esprimere affetto nei suoi confronti. Il forte carattere delle due porta a continui scontri passivo-aggressivi.
La Gerwig inquadra un rapporto che è al perfetto limite tra personale e universale; è una storia che ha funzionato bene per la sua autenticità, e perché tante adolescenti sopraffatte si sono facilmente immedesimate in quest’opera, dove madre e figlia sono incapaci di convivere l’una con l’altra. Alla fine, il nodo tra le due inizia a sciogliersi, e non appena le due donne affrontano la loro vulnerabilità, l’amore profondo sotteso tra le due riesce ad emergere.
Se quello di Greta Gerwig è un film in cui i rapporti interpersonali vacillano sui complessi psicologici dei personaggi, l’antecedente pellicola “È arrivata mia figlia!” della brasiliana Anna Muylaert verte invece intorno alle barriere conflittuali tra classi che hanno sconvolto gli equilibri del rapporto tra la madre Val e la figlia Jessica. Val lavora come badante presso una ricca famiglia i cui componenti sono detestabili e arroganti, e cresce il loro figlio con genuino amore materno. Paradossalmente, la figlia Jessica è rimasta invece a vivere in provincia con dei famigliari, e solo a 18 anni si recherà dalla madre; la vicenda segue le due nei giorni di visita della figlia, che si catapulta come un razzo, ingenuamente, in questa magione dove i confini tra status sociali sono chiaramente delineati. Così, la madre Val si ritrova in bilico tra l’ingenua e spensierata figlia, che ribadisce di non sentirsi inferiore rispetto ai padroni, e la consapevolezza di essere solo una badante in una reggia che non le appartiene.
È una pellicola, a mio parere, di un’artisticità incredibile, armoniosa ed equilibrata che rappresenta in modo crudo la polarizzazione del Brasile filtrata attraverso gli occhi di una madre estenuata che fa fatica a non criticare la figlia per i suoi eccessi.
Spesso, i nuclei familiari si ritrovano scissi tra adolescenti esuberanti, ma al tempo spesso incomprese e velleitarie, come Ladybird o Jessica, e madri tanto sofferenti quanto desiderose di comprendere in qualche modo le figlie.
Il dramma di essere una madre e il dramma di essere una figlia sono costantemente sovrapposti e in contraddizione; è un rapporto di due solitudini che si abbracciano e si allontanano continuamente, oscillando tra amore e odio, dolcezza e avversità. Greta Gerwig e Anna Muylaert lo sanno bene, e hanno dato entrambe una chiave di lettura di queste dinamiche personale e apprezzabile, lasciando un'impronta indelebile nella storia della cinematografia.
22/05/2024
Siamo in grado di riconoscere il male anche quando non lo vediamo? La zona d’interesse ci pone questo grande quesito
Il 29 gennaio 2024, al cinema Astra di Parma veniva proiettata in anteprima nazionale La zona d’interesse, il nuovo film di Jonathan Glazer, il quale è stato in grado di regalarci un’esperienza a dir poco terrificante oltre ad un forte mal di stomaco.
La trama della pellicola è di poche pretese.
La storia assume la sua forma in una ridente casa di campagna, posta appena oltre il muro di un campo di sterminio, in cui ci viene mostrata la vita quotidiana di una famiglia tedesca borghese.
si tratta della famiglia Höß, il cui pater familias è il comandante delle SS Rudolf Franz Ferdinand (interpretato da Christian Friedel), passato alla storia per essere stato il primo comandante del campo di concentramento di Auschwitz.
Al suo fianco la moglie Hedwig (interpretata da Sandra Hüller) insieme ai loro figli. Insomma, poche pretese per essere un film sulla Shoah, il che va apprezzato.
Meglio limitarsi a mostrare le crudeltà di quel periodo storico, senza troppi giri di parole. Soprattutto perché, di parole, ne sono state dette in ogni forma.
Che sarebbe stato un film non convenzionale lo avevamo capito e ne abbiamo la conferma nei cinque minuti iniziali, in cui ci ritroviamo a fissare uno schermo nero, contornati da un sonoro al limite del sopportabile e a tratti disturbante, in grado di trasportarci indietro nel tempo.
Glazer, con il sonoro, ha fatto un lavoro magistrale, ed è proprio questo che rende unica la pellicola.
È un film che ci permette di essere accecati dalle immagini o assordati dai suoni, percependo il medesimo ed esecrabile senso d’impotenza.
Disgusto, rabbia e angoscia. I dettagli fanno da padrone, il costante rumore fuori campo degli inceneritori in funzione, gli spari di pistola o, peggio ancora, le urla umane.
Non deve essere stato facile per Glazer aggiungere questi dettagli alla pellicola, ma dopotutto è il rischio che bisogna prendere se si vuole mostrare la verità.
Molti di voi penseranno che il protagonista del film sia Rudolf, in quanto comandante del campo, altri di voi penseranno invece che sia Hedwig, con la sua freddezza; mi dispiace deludervi, ma la vera protagonista è l’indifferenza.
L’indifferenza degli Höß, i quali non si fanno problemi a vivere accanto alla più grande macchina di sterminio mai creata, o a sfruttare delle persone per soddisfare le loro anime viziate, ma soprattutto, non si sentono minimamente in colpa a crescere dei bambini inculcandogli l’idea di come esista una sola razza superiore a tutte. Tutto questo ci pone davanti al grande quesito che Glazer ha voluto proporre: come facciamo a riconoscere il male quando non lo vediamo? Al contrario della domanda, la risposta è molto semplice. Non possiamo. Il male è in ogni dove.
Può essere in ognuno di noi, può essere in qualsiasi parte del mondo o in qualsiasi momento storico, ma ciò che è certo è che non possiamo sapere come si manifesterà.
Ormai, di film sull’olocausto, ne abbiamo visti, alcuni fatti bene e altri meno, ma come questo, penso che sia difficile ricercarlo.
L’unico che è in grado di farci sentire in pericolo dentro una sala cinematografica, facendoci riflettere su chi siede accanto a noi e, allo stesso modo, anche di noi stessi.
Glazer ha deciso un giorno di entrare nella storia con La zona d’interesse, entrandoci a gamba tesa e per questo verrà ricordato. Come verrà per sempre ricordata l’oscurità di quella guerra. Un’atrocità ingiusta, scatenata da un pazzo megalomane con complessi di inferiorità, che ha contribuito a rendere il Novecento uno dei secoli più bui della storia dell’umanità. La zona d’interesse di Glazer deve essere soprattutto il nostro interesse, ora e per sempre, per non dimenticare mai.
06/03/2024
Negli ultimi anni, nella cinematografia e nella serialità più recente, la figura di Lady Diana Spencer ha assunto un ruolo preponderante. La sua tragica scomparsa e il forte amore e affetto che il pubblico prova ancora nei suoi confronti, ha portato nell’arte la necessità di indagare nel profondo una figura chiave per la storia della monarchia britannica. Un’analisi svolta sotto diversi aspetti, da diversi registi, al fine di rappresentare al meglio la vera anima della cosiddetta “Principessa del popolo”.
Tra i risultati più brillanti ed apprezzati, da pubblico e critica, si annoverano le performance di Emma Corrin e di Elizabeth Debicki, rispettivamente nella quarta e nelle stagioni cinque e sei della pluripremiata serie Netflix The Crown, di Peter Morgan. Le due attrici riescono sapientemente ad interpretare i panni della Principessa del Galles in diverse fasi della sua breve vita, prima all’inizio del suo burrascoso matrimonio con il principe Carlo e poi, nel corso degli anni Novanta, quando i due decidono di comune accordo di separarsi, affrontando il caos mediatico che ne conseguì, fino ad arrivare al tragico incidente dell’estate 1997 sul Pont de l'Alma a Parigi. Per le loro performance, sia Corrin che Debicki sono state premiate con il Golden Globe alla miglior attrice in una serie tv.
Per quanto riguarda la cinematografia, invece, il film Spencer, del cineasta cileno Pablo Larraín, appare come l’opera che, più recentemente, ha saputo catturare al meglio l’essenza di Lady D, grazie anche al grande apporto fornito alla pellicola dalla sua protagonista, l’attrice Kristen Stewart (nominata agli Oscar 2022).
Il film, scritto da Steven Knight, è ambientato nella tenuta reale di Sandringham durante le vacanze natalizie del 1991. In questo periodo, Lady Diana inizia a prendere pienamente coscienza della sua completa incompatibilità ed estraneità nei confronti della famiglia reale. I dubbi della donna, riguardanti il suo infelice matrimonio con il principe Carlo, si fanno qui sempre più persistenti, acuiti anche dalle difficoltà legate alla bulimia e alla relazione extraconiugale di quest’ultimo con Camilla Parker Bowles.
In questa pellicola, Larraín riprende la strada già tracciata all’uscita del suo acclamatissimo Jackie, nella sua volontà di raccontare le vicende di alcune donne che hanno avuto un ruolo centrale nel costume, nella storia e nella cultura recente. L’idea di Larraín si fonda sull’esigenza di rappresentare il rapporto tra vita pubblica e personale di personaggi cardine del nostro tempo, attuando parallelismi tra la donna privata, rispetto al proprio ruolo istituzionale.
Tutto ciò, in attesa di scoprire come il regista rappresenterà in Maria (il suo prossimo lungometraggio le cui riprese sono iniziate nell’autunno 2023) un altro personaggio iconico del Novecento: la cantante lirica Maria Callas (interpretata da Angelina Jolie), di cui lo scorso dicembre si è celebrato il centenario dalla nascita. Si tratta, infatti, del film che forse andrà a chiudere questa sua ideale trilogia di biopic al femminile, intervallata da altre due pellicole di grande successo Ema (2019) ed El Conde (2023), entrambi accolti con successo alla Mostra del Cinema di Venezia.
Già nel 2016 (anno di uscita di Jackie), il regista cileno era riuscito brillantemente nell’analisi intima ed autentica di una grande figura femminile del XX secolo, Jacqueline Kennedy (interpretata superbamente da Natalie Portman, nominata all’Oscar), all’indomani degli avvenimenti di Dallas del 1963. Anche in Spencer, Larraín realizza un film che si regge pienamente sulla potente interpretazione fornita dall’attrice protagonista.
I punti di contatto tra le due pellicole appaiono notevoli. In primo luogo, sotto un punto di vista formale e stilistico, in quanto la regia e la gamma cromatica appaiono molto simili, quasi come se i due film volessero essere l’uno la continuazione dell’altro. In secondo luogo, le due donne protagoniste risultano più simili di quanto si possa, inizialmente, pensare. Entrambe incastonate in un universo patinato, nelle stanze del potere, Jackie e Diana mantengono il loro status di donna stando dalla parte dei loro uomini, ma, all’occorrenza, non si tirano indietro nel momento in cui sono chiamate, per motivi diversi, all’azione. Nell’ambiente in cui sono immerse, le due donne riescono quindi a mantenere una sorta di indipendenza, prendendo decisioni autonome e consapevoli, nonostante la diffidenza generale.
Nel corso delle vicende, sia Jackie che Diana, perdono i loro uomini secondo modalità differenti. Jackie vive il trauma della morte violenta, improvvisa, del marito Jack nel celebre attentato del 22 novembre 1963. Invece, Diana acquista la consapevolezza che non sarà mai, davvero, la prima donna nel cuore del suo principe. Ogni Fred ha la sua Gladys e lei non lo è. In poche parole, una battaglia persa. (ndr. Fred e Gladys sono i nomi in codice utilizzati da Carlo e Camilla durante il loro periodo di clandestinità).
La perdita di qualcuno che si ama, è dunque un tema centrale delle due opere. Le due donne, tuttavia, non smarriscono mai la loro identità e la loro libertà. Si può presumere, che questo topos verrà ripreso da Larraín anche in Maria, in relazione all’abbandono della donna da parte dell’amatissimo armatore greco Aristotele Onassis, per il quale La Divina ha enormemente sofferto. Buffo pensare che, Onassis convolerà poi a nozze con Jacqueline Bouvier Kennedy, a cui il regista ha già dedicato un lungometraggio, costituendo un vero e proprio fil rouge tra cinema, arte e finzione.
Nei suoi film, dunque, Larraín pone l’accento sulla femminilità della donna e sulla sua enorme diversità rispetto all’universo in cui è rinchiusa, tanto in Jackie quanto in Spencer. In quest’ultima pellicola, in particolare, attraverso una regia fortemente intima che si concentra sul corpo e sull’umanità della protagonista, viene reso sapientemente l’ambiente angosciante e teso nel quale Diana è costretta a vivere. Ciò, attraverso una serie di elementi simbolici quali, ad esempio, una collana di perle, regalo del Principe di Galles alla moglie. La donna, ormai completamente apatica ed alienata dalla sua condizione, ha addirittura delle allucinazioni riguardanti sé stessa, Camilla Parker Bowles e Anna Bolena, “l’altra donna del re”, in una sorta di parallelismo temporale. In uno di questi sogni, Diana immagina di strapparsi di dosso, con forte veemenza, la collana regalo del marito, che durante una cena regale sembra quasi soffocarla. La Principessa arriva addirittura ad inghiottirne le perle, in un gesto fortemente provocatorio che segna l’inizio del suo percorso di riconciliazione con il suo essere interiore. In questo caso, la distruzione della collana assume il significato di estremo rifiuto del suo ruolo e degli obblighi da esso imposti, per poter finalmente vivere in armonia con la propria esistenza.
06/03/2024
<<Io penso che scandalizzare sia un diritto, essere scandalizzati un piacere e chi rifiuta il piacere di essere scandalizzato è un moralista, il cosiddetto moralista. >> dichiarava Pasolini nel 1975. Un’azione così delicata e potente non è solo un diritto, ma un privilegio, una responsabilità: in quanto tale, non va forse maneggiata con cura, utilizzata con scopo e coscienza? Un susseguirsi di scene disturbanti, una ambientazione gore, delle tematiche scioccanti, bastano per chi le utilizza, a ritenersi maestri di questa arte? Human Centipede (2009) di Tom Six, una pellicola irrilevante a livello registico e attoriale, è diventata nota tuttavia per le scene cruente. I protagonisti del film saranno vittime delle manie fantasiose di un medico folle che sogna da sempre di creare un millepiedi umano. Tom Six decide che un solo film non è abbastanza: crea infatti una trilogia, dove la trama ed il contenuto persistono, con qualche variazione per gli affezionati, ma il fulcro dei film non varia: essi si reggono in piedi solo per chi trova piacere nel vedere il gore. Come lui a cercare il disturbo nell’orrido c’è Spasojevic, che parla del suo A Serbian Film, (2010) come di una metafora per narrare le molestie che il paese riceve dal governo serbo. La pellicola, che è forse una della più censurate dell’ultimo decennio, racconta di una ex porno star che per una grossa cifra di denaro si convince ad accettare un ultimo lavoro, non sapendo però nulla della trama. Il protagonista verrà così trascinato in un turbine di violenze e orrori indicibili. A Serbian Film è una pellicola dura, esplicita, scandalosa e disturbante e sebbene il regista parli di allegoria, quest’ultima scompare dietro alle folli e disumane fantasie che Spasojevic sembra voler soddisfare. Pasolini parlò del diritto di scandalizzare in occasione dell’uscita di Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975). L’ultima opera di Pasolini fu lo Scandalo, di cui ne venne subito percepito l’immenso valore simbolico. L’allegoria è chiarissima: siamo ai tempi della repubblica di Salò e i Quattro Signori, un Duca, un Monsignore, un Vescovo ed un Giudice, saranno i seviziatori, aiutati da 4 ex prostitute, dei ragazzi e delle ragazze rinchiusi nella Villa per 120 giorni. La maestria del regista sta nello scandalizzare con uno scopo: Pasolini mostra il potere, quello fascista, quello borghese, che si impone, in questo caso sulla gioventù indifesa, ai soli fini del piacere. Lo stesso filone di denuncia storica si manifesta in una grandiosa pellicola del 1985 di Klimov. Come and see è un film che non necessita di quelle immagini di una violenza esplicita, brutale, scioccante: sono gli sguardi degli attori, l’ambientazione, il non detto e non visto che disturba lo spettatore. La pellicola è capace di raccontare la brutalità dell’invasione nazista in Russia tramite gli sguardi distrutti dal dolore e dalle violenze dei protagonisti, attraverso la follia prima idilliaca, come ricerca di evasione dal dramma della guerra, poi seguita da pianti disperati e da una maschera dell’attore protagonista sempre più grottesca e inquietante. Klimov disturba perchè racconta la verità nuda e cruda. Ma disturbare è un’azione spesso associata anche Lars von Trier, che non si tira indietro a farlo anche con il suo Antichrist (2009). Una pellicola dal forte valore simbolico, prende delle componenti quasi bibliche, apocalittiche, raccontando la storia di due coniugi che dopo la perdita del figlio, si rifugiano nella loro casa nei boschi, Eden, sperando di sistemare il loro matrimonio e di curare il dolore immenso per il lutto appena subito; la casa è la stessa nella quale la moglie ha scritto la sua tesi di laurea sulla persecuzione delle streghe nel medioevo e presto tutto arriva a prendere una piega sempre più oscura. Sorge spontaneo chiedersi chi sia l’anticristo per il regista e la domanda avrà una risposta entro la fine della pellicola. Lars von Trier non teme l’uso di scene raccapriccianti, ma in questa caso, sono quest’ultime a dare valore allegorico all’opera, ad impregnarla di sensazioni che scandalizzano, disturbano... per un motivo tuttavia: una riflessione, una provocazione. Dopo essere rimasta inutilmente disturbata dalla visione della trilogia di The Human Centipede, mi sono chiesta spesso quale sia il vero valore dello scandalizzare, quello di cui parlava proprio Pasolini. L’azione disturbante non può dunque essere fine a se stessa. Troppo potente, essa diventa una responsabilità del regista che ne fa uso: suo diritto e suo dovere è quello di disturbare con causa. La meraviglia dell’essere disturbati sta nel trarne il valore allegorico o nel comprendere il fine del regista, che ci provoca una ferita, per imparare da essa, fino a coglierne il piacere.
04/01/2024
Il cinema è ancora cinema ?
Profondamente legata all’innovazione tecnologica, esiste una forma d’arte più dinamica, immediata e rappresentante dello scorso secolo? Dai gradini del muto fino al cinema a colori, ripercorriamo insieme ciò che è mutato e che ha mutato la faccia del cinema ai nostri occhi.
Come già accennato, il cinema è la forma d’arte più profondamente interessata e dipendente dall’innovazione tecnologica; non solo in termini di apparecchiature, effetti speciali in post produzione ecc, ma soprattutto dal modo in cui passano i film dalla cabina di produzione al mondo, e come vengono venduti e percepiti dal pubblico. Internet, i social e le piattaforme di streaming hanno cambiato non solo la nostra modalità di visione adesso, ma anche gli occhi con cui guardiamo al passato, agli anni in cui il cinema fioriva e prosperava. Quello che si intendeva come cinema, la visione a pagamento di un film (non fruibile altrimenti) ora è un’esperienza al pari del luna park o di una mostra: esperienze rare, a cui non siamo più avvezzi e di cui abbiamo perso l’abitudine. E ora di questo cinema è rimasto il film e poco altro. Nei teatri, nelle sale, alle presentazioni non si va più, il marketing è cambiato, sono cambiati i significati dietro ai film, la società che rappresentano (e che a volte non rappresentano affatto). È cambiato il modo di fare cinema, sono cambiati i suoi obiettivi: la propagazione di cultura di cui era mezzo si è ora trasformata e il cinema porta più intrattenimento che altro. La visione di qualcosa di bello, di interessante, ma raramente di spessore culturale o di critica se parliamo del cinema e delle piattaforme più comuni. C’è poi il cinema di nicchia, d’autore, che però soffre non solo la mancanza di prestigio fuori dal circolo di cinefili e appassionati, ma anche la difficile fruibilità per un pubblico abituato a qualcosa di immediato e di semplice comprensione. La rivoluzione portata dalle piattaforme di streaming in particolare era già avvenuta con le cassette VHS, poi con i DVD, ora con Netflix, Prime Video e Mubi. Il cinema si riafferma come un’arte in costante trasformazione e reinvenzione, cavalca l’onda sebbene tallonato da serie tv e applicazioni come Tik Tok, che con la sensazione di immediatezza e varietà che ci danno sembrano valere più la pena di essere visti rispetto ad un unico film, da vedere in una saletta che profuma di pop corn con i sedili di velluto rosso scassati e accanto a uno sconosciuto.
Quindi, per rispondere al quesito da cui è partito questo ragionamento: no, il cinema non è più al cinema. E la trasformazione del cinema e della sua industria è un ritratto preciso di ciò che sta accadendo anche ad altre industrie.
01/09/2023