Overtourism: opportunità o minaccia?
Alessandro Scotti
Alessandro Scotti
Secondo il report del Ministero del Turismo relativo alla stagione 2023-2024, in Italia sono state registrate dagli esercizi del terzo settore oltre 450 milioni di presenze, ovvero 134 milioni di turisti che hanno scelto di trascorrere il tempo libero nel nostro paese. Se qualche anno fa, con ancora lo spettro della pandemia ad annebbiarci gli occhi, avremmo esultato gridando al miracolo economico, oggi non è più così. Infatti, nonostante un bilancio della Banca d’Italia metta in evidenza che il turismo è responsabile della produzione del 5% del PIL e del 6% dell’occupazione nazionale, questa situazione di apparente crescita e benessere economico sta prendendo una piega negativa, assumendo sempre di più le sembianze di quello che nel 2018 la Oxford University ha definito “Overtourism”. Questo è un fenomeno spaventoso che coinvolge in egual misura tutti noi e per il quale si intende un “flusso di turisti talmente cospicuo da mettere in difficoltà la località verso il quale si è diretto, causando disagi alla popolazione e all’ambiente”.
L’overtourism è una realtà presente ormai da anni nei principali luoghi d’attrazione di tutto il mondo e coinvolge in primo piano il nostro Paese, quinto nella classifica globale degli stati più visitati. Il sovraffollamento delle zone interessate, la derivante inefficienza di infrastrutture e l’innalzamento vertiginoso dei prezzi di case e affitti hanno fatto nascere in diverse mete turistiche europee e non un sentimento di astio nei confronti dei turisti, culminato talvolta in proteste in piazza da parte dei locals, come ad esempio la serie di manifestazioni organizzate a Barcellona nell’estate 2024, in cui gli abitanti del luogo hanno sparato ai turisti con delle pistole ad acqua. Tuttavia la mentalità imprenditoriale e la fede capitalistica nel profitto hanno fatto sì che alcuni cittadini delle ‘popolazioni occupate’ dal turismo di massa abbiano saputo sfruttare a proprio vantaggio questa situazione, contribuendo in realtà ad incrementare la rovinosità del fenomeno. È il caso della ‘deurbanizzazione’ che sta avvenendo nelle principali città europee, secondo la quale gli abitanti dei centri storici, un po’ per la loro invivibilità e un po’ pensando al guadagno, scelgono di convertire la loro casa in una pratica residenza per turisti e di trasferirsi in periferia. Questo triste fenomeno, che tra le altre cose contribuisce a vanificare lo spirito caratteristico dei centri storici che gli stessi turisti inseguono con i loro assalti, riguarda nel dettaglio le nostre città d’arte: Firenze, Napoli, Roma e Venezia si stanno spopolando per fare spazio ad Airbnb e friggitorie. In particolar modo nel capoluogo veneto, stando alle stime di Rai News, nel 2025 gli abitanti della città vecchia scenderanno a 48mila mentre i posti letto per i turisti saliranno oltre i 50mila. Tutto questo senza contare gli enormi impatti ambientali che l’overtourism sta avendo sul territorio: specialmente nei confronti di attrazioni di tipo naturalistico come la costiera amalfitana o le Cinque Terre, queste ondate di turisti non contribuiscono di certo a migliorare la già dura situazione ambientale, aggravata in questo caso dall’aumento della produzione dei rifiuti, dal sovrasfruttamento del suolo e soprattutto dalla mancanza di regolamentazioni e campagne di sensibilizzazione rivolte al gregge del terzo settore.
Ma quali sono le reali cause dell’overtourism? Sebbene degli studi antropologici non troppo desueti abbiano identificato la necessità di visitare posti diversi da quello proprio di appartenenza come “l’espressione di un bisogno di autenticità altrimenti inappagabile”; i flussi turistici odierni vengono prevalentemente orchestrati dai mezzi di comunicazione di massa e dai loro esponenti. Non è raro infatti che un luogo venga preso d’assalto dai turisti perché improvvisamente consigliato su Tik Tok dai maggiori influencer o perché fa da ambientazione al film campione d’incassi dell’anno; come avvenuto nei primi anni 2000 a Maya Bay in Thailandia, scenario del film “The Beach” con Leonardo diCaprio, tanto che il governo thailandese dell’epoca ha dovuto obbligatoriamente chiudere al pubblico per preservarne l’ecosistema. Ma non è tutto: l’illusione dei viaggi low-cost data da voli “salva euro” e crociere a prezzi troppo bassi per essere veri, hanno chiaramente ampliato l’orizzonte dei viaggi di piacere praticamente a tutti, a differenza di quando il turismo rappresentava l’espressione del benessere di determinate classi sociali, e hanno inoltre sdoganato e incentivato il modus operandi delle toccate e fuga, con soggiorni brevi che prendono luogo generalmente durante il fine settimana e che mettono a dura prova la sostenibilità e l’equilibrio talvolta fragile delle mete turistiche.
Ovviamente, una soluzione universale all’overtourism al momento non esiste, ma l’Organizzazione Mondiale del Turismo (UNWTO), riconoscendo la potenziale fatalità del fenomeno, ha individuato e proposto agli stati interessati in prima persona 11 strategie per combattere il fenomeno. Tra queste una di quelle che sembrano più efficaci e facilmente applicabili, almeno nel breve periodo, è senza dubbio la stretta sulla regolamentazione riguardo gli arrivi e le visite presso le attrazioni più gettonate, in modo da evitare che i turisti si concentrino tutti negli stessi posti durante gli stessi periodi. Ridistribuire i turisti in visite da più giorni e in luoghi generalmente meno considerati, disincentivando ad esempio i soggiorni brevi e valorizzando aree poco turistiche costruendo nuovi poli d’interesse, sarebbe cruciale per diminuire la pressione che attanaglia da anni gli stessi spazi e i loro abitanti. Altrettanto importante risulta essere la sensibilizzazione rivolta ai turisti, che devono essere necessariamente educati sulle normative, le culture e le tradizioni locali così da non violarle. Infine, secondo l’UNWTO, una misura che potrebbe essere immediatamente utile a moderare i flussi turistici specialmente nelle alte stagioni, riguarderebbe la modernizzazione dei sistemi di monitoraggio attraverso nuove tecnologie come i big data, in modo da prevenire crisi di affluenza e analizzare in tempo reale l’impatto dei turisti e gestire così più agevolmente picchi inattesi di visite.
Non spetta a noi, e probabilmente a nessuno, stabilire quale sia il confine tra l’esercizio della libertà di visitare luoghi e culture diverse dalla propria e il ‘turismo nocivo’ di cui si è parlato in precedenza; ciò che però appare scontato è che esistono delle zone calde in tutto il mondo che risentono di questo fenomeno globale e che vanno sicuramente salvaguardate, non solo perché fanno parte del patrimonio artistico e culturale dell’umanità, ma anche e soprattutto perchè sono la casa di milioni di persone. Bisogna per una volta mettere da parte il profitto ed è quindi necessario che le istituzioni interessate agiscano per prevenire il definitivo snaturamento e la rovina delle bellezze, soprattutto se si parla del nostro paese e del nostro continente, in modo da permettere anche alle generazioni future di poterne ammirare il fascino e rimanerne ammaliati.
Andrea Galli
Immaginate una società in cui i ricchi sguazzano nell’oro, l’opinione altrui diventa il criterio fondamentale, la tecnologia, l’industria e il commercio raggiungono livelli mai raggiunti prima, il benessere di alcuni comporta il disagio di tanti e le apparenze contano molto più della sostanza; tutto ciò in una condizione di relativa pace e prosperità. Vi ricorda qualcosa?
Queste sono le caratteristiche generali della società occidentale tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, definita dagli storici “Belle Époque” per sottolineare la calma, il progresso, la stabilità e la spensieratezza che contraddistinguono questo periodo, e che rievoca spaventosamente la nostra società.
Ciò che però preoccupa maggiormente è come la Belle Époque sia terminata, ovvero con lo scoppio della Prima guerra mondiale nel 1914, le cui conseguenze portarono ad una Seconda guerra mondiale nel 1939. Due tragedie che rasero al suolo l’Europa, stroncarono generazioni, rovinarono intere vite e divennero prova della crudeltà umana.
Vedendo i numerosi casi in cui la storia si è ripetuta -in forme diverse, ma che comunque si è ripetuta- e analizzando quanto oggi si parli di guerra, l’allarme che potremmo ritrovarci in una situazione simile a quella del secolo scorso non è da ignorare del tutto.
Ma più precisamente, quali aspetti della nostra società ricordano maggiormente la Belle Époque?
In primo luogo, la Belle Époque è caratterizzata da un lungo periodo di pace che non vide scontri diretti tra grandi potenze ma solo piccoli conflitti limitati, che però non provocarono mai un’escalation. Allo stesso modo, la società odierna viene da circa 80 anni di pace, ma anch’essa è stata caratterizzata da scontri ridotti e concentrati come la Guerra del Vietnam (1955-1975), la Guerra del Kosovo (1998-1999) o il bombardamento della Libia (2011). Il susseguirsi di conflitti frammentati portò, nel caso della Belle Époque, ad inasprire sempre di più le rivalità, i conflitti di interesse e le tensioni tra potenze, gettando le basi per una guerra totale. E se stesse succedendo lo stesso oggi?
Oltre alla presa in considerazione di mandare al macello intere generazioni per motivi puramente economici, un altro aspetto che accomuna la Belle Époque al mondo odierno è la contrapposizione tra una classe sociale agiata e privilegiata ad una classe sociale oppressa e in miseria. Durante l’Ottocento, la società borghese raggiunse il suo culmine, distinguendosi per una spropositata ricchezza e una vita oziosa, a discapito del proletariato (infatti, in difesa dei diritti dei lavoratori, in questi anni nacque l’ideologia comunista).
Per quanto riguarda il secolo attuale, è sempre più evidente come l’evoluzione del capitalismo sia per certi aspetti ancora più degradante del capitalismo nella sua forma iniziale, con una concentrazione delle ricchezze sempre di più nelle mani di pochi e uno sfruttamento in continuo aumento. Basti pensare ad aziende come Amazon, Shein o Temu, e a figure come Musk.
Inoltre, la società borghese della Belle Époque teneva molto conto delle apparenze, del vanto e del consenso altrui, aspirando ad una vita perfetta ma con un sottofondo di pettegolezzi e scandali. È proprio in questi anni che nasce il concetto di tempo libero con la creazione delle prime località turistiche, la nascita dell’attività sportiva come la conosciamo oggi, ma anche del cinema e della radio.
Ai tempi dei social, questi fenomeni sono più che mai accentuati, dove tutti mostrano solo alcuni specifici lati della propria esistenza, filtrando tutto ciò che potrebbe risultare inadeguato o che potrebbe non aderire al personaggio che si vuole impersonare, costruendo una vita fittizia e apparentemente perfetta, intensificando l’ossessione per “l’apparire”. Oggi si è sempre tutti in vacanza, felici e spensierati, non mostrando mai quei momenti legittimi di sconforto, sofferenza o abbattimento. Inoltre, veniamo continuamente martellati da nuovi tipi di media, che mirano a farci consumare più contenuti possibili.
Infine, la Belle Époque coincideva con la Seconda rivoluzione industriale, dunque le nuove scoperte, l’innovazione scientifica e le nuove tecnologie contribuirono ad un profondo mutamento della società. In
particolare in questi anni furono inventate la dinamite, l’elettricità e la lampadina, i vaccini, le scale mobili, l’aeroplano, l’aspirina e il frigorifero.
Ma le invenzioni di allora, nonostante fossero rivoluzionarie, non hanno portato al cambiamento antropologico che viviamo oggi. Il progresso e le nuove scoperte odierne raggiungono un livello di sofisticatezza che ci porta ad un cambiamento radicale dei nostri atteggiamenti, per i quali noi come esseri umani non siamo stati “programmati”. Numerosi comportamenti che sin dall’antichità sono stati centrali nella vita dell’uomo, oggi vengono fatti da macchine, da internet o da servizi creati appositamente, e questa è una caratteristica unica del nostro tempo. Un esempio può essere come prima fossero le singole persone a cercare le notizie su giornali, riviste o libri, imbattendosi in più opinioni e scegliendo quella più adatta a sé, mentre oggi la scelta spetta ad un sistema che, tramite un algoritmo, distribuisce informazioni già confezionate e orchestrate ad hoc per un determinato utente, che potrebbero essere fuorvianti.
Quindi, i parallelismi tra Belle Époque e i giorni nostri sono molti, e studiando quali siano state le ripercussioni, cioè la guerra e la morte, dovremmo renderci conto della vera funzione della storia, ovvero quella di non farci ripetere gli stessi errori, e agire di conseguenza.
Churchill nel 1921 definì il periodo della Belle Époque così:
«Nazioni e Imperi, coronati di principi e di potentati, sorgevano maestosamente da ogni parte, avvolti nei tesori accumulati nei lunghi anni di pace. Tutti si inserivano e si saldavano, senza pericoli apparenti, in un immenso architrave. I due potenti sistemi europei stavano l’uno di fronte all’altro, scintillanti e rimbombanti nelle loro panoplie, ma con sguardo tranquillo… Il vecchio mondo, nell’ora del suo tramonto era bello a vedersi…»
Intanto, oggi il Nuovo Mondo nell’ora del suo tramonto non sembra bello nemmeno a vedersi.
Nicole Della Santina
Mentre i liceali organizzano il viaggio dei 100 giorni, le scuole i campi scuola, le ragazze i girlstrip a Ibiza e tra noi amici ci sbrighiamo a comprare i biglietti per il Marocco; mentre pensiamo a quale cammino di Santiago fare e prenotiamo gli ostelli stiamo tutti, inconsapevolmente forse, partecipando all’evoluzione del viaggio. Non è una cosa nuova, lo sappiamo, esiste da sempre, fin da quando gli stessi uomini erano dei nomadi e il viaggio era uno stile di vita più che una scelta. Ma da che punto la nostra storia si intreccia con quella dei nostri spostamenti?
A partire dall’antichità l’idea del viaggio si fonde con la nostra necessità di commerciare via mare e via terra, di trovare i punti più strategici per insediarci e sopravvivere. E poi poco distante nel tempo si aggiunge un altro sinonimo di viaggio: il pellegrinaggio religioso. In Grecia, in particolare, era popolarissimo il pellegrinaggio verso Delphi, città sede dell’oracolo del dio Apollo. Vi ci si recava per conferire con la Pizia, la sacerdotessa che recitava i responsi del dio Apollo. La Pizia veniva scelta tra le donne vergini e di buona famiglia del paese. Originariamente, prima che il numero di pellegrini aumentasse esponenzialmente, c’era una sola Pizia (arriveranno a diventare tre secondo Plutarco) e ci si poteva conferire una sola volta all’anno, nel periodo di febbraio, che era l’unico momento in cui si potevano chiedere responsi all’oracolo. Ma come si sarebbe svolto il nostro pellegrinaggio? Una volta arrivati a Delfi noi, gli interroganti, già presentata la richiesta, avremmo assistito alla Pizia che, lavatasi con l'acqua della fonte Castalia e indossata della veste rituale, si sarebbe seduta su di un seggio posto al di sopra di una voragine da cui sarebbero salite delle esalazioni in grado di esaltarla. Dalle parole sconnesse che avrebbe detto poi i sacerdoti avrebbero dovuto trarre le premonizioni.
In quale misura queste “letture” si potevano dire veritiere? Sono stati scoperti dei casi di corruzione in seguito ai quali la Pizia in carica venne deposta (per esempio quello denunciato da Erodoto riguardante Cleomene, il re di Sparta, e il suo collega Demarato). Comunque negli anni, grazie alla ricerca, siamo giunti a conclusioni più scientifiche, convenendo che a renderla una pratica “onesta” fosse il mix di gas comunemente rilasciato da fratture sismiche come quella sotto al tempio che avevano la capacità di indurre effetti di esaltazione nell’uomo. Ma ad ogni modo l'oracolo di Delfi, veritiero o no, nel corso della storia greca antica segnò fortemente le scelte politiche e belliche, e fu molto popolare fino a quando la pratica venne proibita dall'imperatore romano Teodosio I.
Un altro tipo di viaggio che perpetuiamo dall’antichità è quello di tipo esplorativo. Adesso esploriamo la luna e i pianeti, ma nel 1271 Marco Polo, giovanissimo veneziano, partiva da Laiazzo e si avventurava in un lungo percorso attraverso l'Asia anteriore, inoltrandosi nell'Asia centrale (in regioni ancora ignote come le valli del Pamir), arrivando dopo tre anni ai confini della Cina e poi a Pechino. Non sarebbe più tornato a Venezia per venticinque anni. È risaputo che tutto quello che sappiamo dei suoi viaggi curiosi nell’Estremo Oriente ci viene riportato dalla sua opera Il Milione, che ha ispirato esploratori come Cristoforo Colombo e che a suo tempo fornì importanti contributi alla cartografia occidentale. Quando il padre e lo zio di Marco Polo giunsero per la prima volta in Cina divennero collaboratori dell’imperatore Kublai, nipote del condottiero mongolo Gengis Khan, che avrebbe poi accettato consentire ai due un salvacondotto per tutte le terre sotto il suo dominio in cambio di un contatto con il papa. I fratelli Polo quindi si affrettano a tornare per poi ripartire, e al loro ritorno portarono con sé un diciassettenne di nome Marco. Nonostante il padre e lo zio fossero perlopiù interessati agli aspetti commerciali di quella ambigua alleanza e vedessero solo le possibilità di profitto, Marco seppe scoprire l’Oriente come un vero esploratore e studioso più che come un commerciante. Fino alla fine del 13esimo secolo le informazioni forniteci dall’esploratore furono le uniche essenziali conoscenze sull’est diffuse in occidente.
E infine, da esplorare ci rimane il viaggio d’istruzione, già diffusissimo nell’antica Roma con meta Grecia e dintorni e poi di nuovo in voga nell’800 con il Grand Tour europeo. Goethe scrisse tra il 1813 e il 1817 Viaggio in Italia, un diario dettagliato del suo tanto agognato viaggio, per l’appunto, in Italia. Partì sotto falso nome per viaggiare in tranquillità quando era già ministro a Weimar; prosciugato dal ruolo era in cerca della sua perduta creatività lasciò che persino i suoi familiari perdessero le sue tracce per quasi due anni. Ma Goethe era talmente entusiasta del suo viaggio, grande ammiratore quale era della Magna Grecia, che non avrebbe voluto farselo rovinare da nulla al mondo. Non cercava la Roma barocca, né quella rinascimentale, non cercava Leonardo e Michelangelo, bensì le tracce dell’eleganza antica, l’influenza greca e le antiche glorie dell’impero. Percorse l'Italia dalla Toscana (dove rimase entusiasta di Siena e Firenze) fino alla Sicilia, trovando nella vita mediterranea il piacere della quotidianità, della sensualità (addirittura un amore forse) e catturò tutto quello che i suoi occhi vedevano con quella sua penna schizzante (portò infatti a casa più di mille disegni). Cercò anche di replicare l’incanto di quel suo primo viaggio con un secondo, ma questa volta rimase profondamente deluso.
Conosci il paese dove fioriscono i limoni?
Nel verde fogliame splendono arance d'oro
Un vento lieve spira dal cielo azzurro
Tranquillo è il mirto, sereno l'alloro
Lo conosci tu?
Laggiù, laggiù
Vorrei con te, o mio amato, andare!
Carla Lucia Stendardo
Diventare adulti e acquisire quella maturità che caratterizza lo stato psicologico dell’adulto sembra oggi quantomai difficile. A renderlo tale è quella “sindrome di Peter Pan” che sembra aver colpito gli adulti, ora adultescenti, digitali. La questione centrale è la progressiva e sempre maggiore identificazione degli adulti con gli adolescenti, rinunciando quindi a quel processo naturale di crescita, soprattutto emotiva. Dove può dunque trovare maturità e responsabilità, stabilità e sicurezza, un ragazzo, ancora indefinito nella sua forma opaca, circondato da tanti “genitori-bonsai”, tanti adolescenti nel corpo di adulti che scappano alla vista di responsabilità e doveri che, in teoria, dovrebbero accogliere e gestire come parte della loro natura di adulti e genitori «formati»? L’acquisizione di una forma, un’identità unica e stabile che possa fare da pilastro portante nella vita del ragazzo è continuamente rimandata, la si cerca di scansare per evitare di esserne toccati e condannati ad una vita distante dalla spensieratezza infantile e adolescenziale. L’adultescenza si concretizza quindi in un’identità opaca, sempre incoerente con se stessa e inconsistente, mai definita e mai realizzabile, sempre libera ma schiava della sua incertezza, priva di legami con la realtà, quasi alla deriva, ormai lontana dalla forma che la vita severamente richiede. Ora, nonostante questo fenomeno di eterna giovinezza e di fuga dal mondo adulto sia inequivocabilmente cresciuto nell’era moderna, quella digitale, e sia amplificato da numerosi fattori nuovi e moderni che ne complicano la natura, lo ritroviamo, talvolta, negli animi di chi ha abitato il passato. Basta saperne leggere qualche parola per scoprirlo.
Arthur Rimbaud, per esempio, è uno dei nostri Peter Pan del passato. La sua stessa esistenza, così come ovviamente le sue opere, riflettono quella tensione costante tra una ribellione giovanile mai stanca e mai appagata e una mancata transizione verso la maturità adulta. La sua vita e le sue opere mostrano un sistematico rifiuto delle responsabilità e delle aspettative della società adulta. Questo rifiuto è evidente nella sua decisione di vivere da vagabondo, posizionandosi nel polo opposto rispetto alla tipica, ferma e rispettabile vita adulta. Altro filo che lo tiene fin troppo vicino all’età adolescenziale, e quindi ad una particolare incapacità di mantenere rapporti affettivi stabili e duraturi, è lo stesso filo che lo tiene legato a Paul Verlaine, con cui intrattiene una relazione tumultuosa e disturbata da passioni distruttive tipiche di chi non possiede la capacità del controllo. Un controllo che manca totalmente nel mondo emozionale dell’adultescente (e adolescente), ieri come oggi: un’oscillazione perpetua, stremante, tra orgoglio, angoscia, poi ottimismo, delusione. Un vortice emotivo che non si riesce ad ammaestrare, che avvolge, sconvolgendo, la propria identità, rendendola passiva e inadatta alla sua stessa attuazione.
there’s a bluebird in my heart that
wants to get out
but I’m too tough for him,
I say, stay in there, I’m not going
to let anybody see
you.
(Estratto della poesia “Un uccello azzurro”, Charles Bukowski, 1992)
Così Charles Bukowski si confessa al mondo, e alla parte più profonda di se stesso, l’«uccellino azzurro», ammettendo esplicitamente la sua inadeguatezza nel guardare chiaramente le sue emozioni, conoscerle e ri-conoscerle e, soprattutto, accettarle, apprezzarle. E come Bukowski, gli adolescenti e adultescenti di oggi sono completamente estranei al loro mondo emozionale, non riescono a capire cosa provano, non sanno nominare le loro stesse emozioni. L’estraneità delle nostre emozioni, delle nostre sensazioni, ci caratterizza pienamente: ci troviamo in una situazione di estrema e angosciante lontananza dal mondo e dagli altri, che ora sembrano parlarci in altre lingue o non parlarci affatto. Sembra essersi avverata quell’incomunicabilità pirandelliana che siamo stati abituati a studiare e leggere, e che ora viviamo. «Crediamo d’intenderci; non c’intendiamo mai!» : così ci viene presentato l’urlo rivelatore di uno dei protagonisti di “Sei personaggi in cerca d’autore”, e così sembra gridarci nell’orecchio la nostra attuale condizione umana, a-sociale.
La solitudine che inevitabilmente ne scaturisce, che ci rende nuclei isolati nel nostro bisogno di comunicazione, solitudine illuminata dalla luce acciecante degli schermi, ci pervade senza possibilità di fuga. In ambito artistico, oltre che letterario, si è cercato di dare un volto a quest’ombra che l’uomo si è sempre portato dietro, forse per averla più chiara davanti agli occhi, per darle forma ed esorcizzarla. Emblematiche le opere di Edward Hopper, che sembra usare come modella proprio la solitudine. Una solitudine definita “silenziosa”, che è nascosta dalla presenza di altri soggetti (nelle tele come nella vita), e proprio da questa amplificata. Quel “sentirsi soli tra la gente” pugnalante che è, necessariamente, accompagnato e determinato da un’impossibilità comunicativa. È il caso di “Room in New York”, sotto riportata, che sembra descrivere visualmente in modo perfetto e immediato l’analfabetismo affettivo che dobbiamo giornalmente sopportare, insieme a quel sentirsi spesso inadeguati e mai compresi che troviamo spesso nell’età adolescenziale.
(Room In New York, Edward Hopper, 1932, Sheldon Museum Of Art)
Ma perché la sfera emotiva ha così tanta rilevanza nella costruzione della nostra forma? Ebbene il mondo su cui la nostra identità poggia, cresce e si costruisce, è umana, e in quanto umana è affettiva, emotiva, passionale. Antonio Damasio scriveva, ne “L’errore di Cartesio”, che non siamo macchine pensanti che si emozionano, al contrario siamo macchine emotive
che pensano, mettendo quindi al vertice della piramide gerarchica delle nostre diverse parti costitutive proprio l’emotività. L’essere umano si emoziona, è egli stesso emozione, passione, struggimento, angoscia. L’umano oggi ha smesso di essere tale, siamo analfabeti d’amore.
Si rende necessaria, dunque, un’«educazione affettiva» che possa insegnare ai nostri Peter Pan a crescere e acquisire maturità, anche e soprattutto dal punto di vista affettivo.
«Abbiamo fame di tenerezza, / in questo mondo dove tutto abbonda […]» (Alda Merini)
Un’ulteriore questione si incontra a questo punto: come è possibile un’educazione alle emozioni e ai sentimenti in un mondo, quello digitale, che ha completamente disconosciuto queste parole? La cultura digitale ha infatti completamente disintegrato il nostro pensiero critico, presentandoci un sapere ormai disordinato e frammentato, che inevitabilmente ci confonde. Divulgatore e destinatario del sapere si dissolvono ormai l’uno nell’altro, si contaminano a vicenda fino a creare un non-sapere che caratterizza la crisi delle conoscenze che stiamo in questo momento vivendo. Si ha a disposizione una quantità di informazioni tale da sopraffarci, troppo vasta per rientrare nei nostri concetti di spazio e tempo: tutto è diventato vicino e immediato. Questa riduzione dello spazio e del tempo, regalatoci da Internet, ci debilita abituandoci ad una dimensione di immediatezza che non ci appartiene. L’attività, nel mondo digitale, si riduce in passività. L’attesa e il silenzio hanno ormai smesso di abitare dentro di noi. Quello che ci circonda è il caos, inseguiamo degli istanti che immediatamente ci sfuggono, ed è questo che non permette di crescere e raggiungere una propria stabilità. Questo velo digitale, questo schermo che ci illumina il viso rendendo palese la nostra lontananza dal mondo sociale, ci chiude gli occhi, siamo ciechi di fronte al viso degli altri. Anzi proprio la componente più “corporea” dell’emozionalità qui viene meno: il volto. Una parte fondamentale della comunicazione emotiva tra esseri umani è il linguaggio non verbale, che sfugge alla nostra volontà e alle nostre distorsioni, l’unico ad essere completamente veritiero: è questa parte della nostra umanità che il mondo digitale ci ha precluso. Manca lo scambio sano di emozioni tra gli individui, rinchiusi nella loro gabbia luminosa. Eravamo, per Aristotele, animali politici, sociali, nati ed evoluti per vivere con gli altri, anche Hegel nella sua Fenomenologia ce lo insegna. Ora abbiamo perso la nostra socialità, ed insieme ad essa la nostra umanità, per chiuderci nella nostra distanza e diventare animali digitali. Vivevamo di emozioni, ora viviamo di apatia. Il nostro mondo emozionale e quello dell’altro diventano vicendevolmente incomprensibili, estranei ed esterni, siamo schiavi di questa ignoranza. Mancano le relazioni interpersonali, ormai solo virtuali, e mancano le relazioni, le conversazioni intrapersonali: siamo inadeguati a capire chi ci sta di fronte, anche se si tratta del nostro riflesso. Siamo «uomini soli, ma connessi; poveri di sentimenti, ma confortati dai prodotti; appartenenti a mondi esclusivi, ma tagliati fuori da un orizzonte comune»
Aurora Sirtori
Babygirl, l’ultimo film di Halina Reijn, sembra avere una trama molto semplice, banale, quasi da storiella wattpad. Ma sarebbe scorretto liquidarlo in questa maniera.
La verità è che quella che pare una storia come tante altre in realtà tratta temi rilevanti e lo fa in chiave del tutto nuova.
Babygirl è portatore di una visione specifica sul potere, sulla sessualità e sul desiderio. Ma procediamo per gradi e concentriamoci su ciascun punto.
Romy, la protagonista, è amministratrice delegata di un’influente azienda, è una donna di successo ed è estremamente rispettata sul posto di lavoro. Alla sua figura si contrappone quella di Samuel, stagista in cerca di un mentore all’interno dell’azienda.
Dal punto di vista lavorativo è evidente la posizione di potere della prima nei confronti del ragazzo.
La vicenda si complica nel momento in cui questi ruoli vengono invertiti. Infatti, Samuel comprende presto la mancata soddisfazione dei desideri sessuali di Romy e ne approfitta, mostrandosi disposto a realizzare tutte le sue fantasie.
Ed ecco che a letto, Samuel ha il potere, ha Romy alla sua mercé e la capacità di farle fare tutto ciò che desidera.
In poco tempo una donna, matura, di grande successo viene piegata da un giovane ragazzo, che dovrebbe invidiarle tutto, a partire dalla posizione che ricopre.
Romy vive terribilmente la sfera sessuale fino all’entrata in scena di Samuel.
Dopo anni di matrimonio e due figlie, ammette di non aver mai avuto un orgasmo con suo marito. Tanto è vero che nella seconda scena, a pochi secondi dall’inizio, la vediamo darsi piacere da sola subito dopo un rapporto con il compagno.
A darle tormento sono anche le sue fantasie sessuali, che non le danno pace, diverse volte le si presentano e via via si sente sempre più sbagliata, malata.
Infine, possiamo aprire una riflessione più generale sulle voglie che spesso ci attanagliano. Come mostrato in Babygirl respingerle è controproducente.
Talvolta è meglio assecondare i nostri desideri per evitare che si presentino più forti e insistenti in futuro, senza la possibilità di controllarli, con effetti distruttivi all’interno della nostra vita.
Per quanto questi possano essere imbarazzanti, gli autori del film vogliono spingerci ad esternali, a comunicare.
Tirando le somme, Babygirl vuole lasciare il segno sui suoi spettatori e ci riesce a pieno, toccando la loro sensibilità. Guardandolo vi capiterà di provare vergogna, di sentirvi in ridicolo o addirittura di provare pena per la protagonista. Vi sentirete i diretti interessati degli eventi.
Babygirl è un film complesso, che spazia con le sue tematiche, che sconvolge, stranisce; insomma è un po’ fuori dalle righe. O lo si ama o lo si odia.
Giacomo Cristanelli
In un’epoca dominata dal rumore, dalle frasi spiegate e dai finali chiusi a chiave, il cinema di Terrence Malick somiglia a un sussurro. Uno di quelli che ti costringe a tendere l’orecchio, a fermarti, a respirare più lentamente. Ogni suo film è un atto di fede nella bellezza, nella natura, nel silenzio. Ma anche nel tormento dell’essere umano, nella colpa, nella grazia, nella perdita.
Malick non è un regista prolifico. Dal suo debutto con “Badlands” nel 1973 fino a oggi, ha realizzato una manciata di film, spesso a distanza di molti anni l’uno dall’altro. Ma ogni sua opera è un’esperienza sensoriale, visiva, spirituale. Guardare un suo film non è semplicemente “seguire una trama”, ma lasciarsi trasportare da un flusso di immagini, suoni, pensieri. È cinema che si vive con la pelle.
Un uomo invisibile
La figura di Terrence Malick è avvolta nel mistero tanto quanto i suoi film. Estremamente riservato, non rilascia interviste da decenni, non partecipa alle conferenze stampa e non si fa quasi mai fotografare. Non è mai salito a ritirare un premio, nemmeno quando “The Tree of Life” vinse la Palma d’Oro a Cannes nel 2011. Niente social, niente apparizioni pubbliche, nessuna dichiarazione sul proprio lavoro. In un’industria dove l’autopromozione è spesso più rumorosa delle opere stesse, Malick è un’eccezione quasi ascetica.
Questo atteggiamento non è snobismo, ma coerenza. La sua arte parla per lui. Malick sembra appartenere a un’altra epoca, o forse a un’altra dimensione: quella in cui il cinema è ancora un mezzo per toccare il mistero dell’esistenza, non solo per intrattenere.
L’estetica del sublime
Terrence Malick è prima di tutto un poeta dell’immagine. Collaborando con direttori della fotografia come Néstor Almendros, Emmanuel Lubezki e Rodrigo Prieto, ha costruito un linguaggio visivo unico: movimenti di macchina morbidi, luce naturale, inquadrature che sembrano rubate al mondo mentre si distrae. Il sole tra le foglie, un bambino che rincorre le lucciole, una madre che accarezza un lenzuolo: nulla è troppo piccolo per diventare sacro.
Il montaggio frammentato, ellittico, è spesso accompagnato da voci fuori campo che non spiegano, ma meditano. I personaggi non parlano per informare, ma per rivelarsi interiormente. E così, anche i momenti più semplici – una camminata nei campi, un sorriso tra due innamorati – assumono un valore quasi cosmico. In Malick, ogni gesto è eterno, ogni sguardo può contenere l’infinito.
Il tema del sacro e della grazia
La filmografia di Malick è attraversata da una tensione costante tra natura e spiritualità. In The Tree of Life (2011), forse il suo capolavoro più amato e discusso, questa tensione diventa esplicita: “Ci sono due vie nella vita – la via della natura e la via della grazia”, recita Jessica Chastain nel prologo. Il film, una sorta di sinfonia visiva sull’infanzia, la perdita e il senso dell’universo, intreccia il racconto intimo di una famiglia texana con visioni cosmiche sulla nascita della vita.
Ma anche nei suoi altri lavori, questa dualità torna con forza: in “The thin red line”(1998), il conflitto tra la brutalità della guerra e la bellezza della natura è il vero cuore del film; in “The New World” (2005), l’incontro tra Pocahontas e gli inglesi è un racconto epico di innocenza perduta; in “A Hidden Life” (2019), la resistenza silenziosa di un contadino austriaco alla follia del nazismo diventa una preghiera sussurrata al cielo.
Un cinema contro il tempo
Malick non ha mai avuto paura di andare controcorrente. I suoi film sono spesso privi di una struttura narrativa classica, faticano a incasellarsi nei generi, rifiutano le scorciatoie emotive. Questo lo rende un regista polarizzante: per alcuni è un genio, per altri un formalista sopravvalutato. Ma forse è proprio in questo scarto tra attese e realtà che risiede la sua forza.
Nel suo cinema il tempo non scorre, fluttua. I ricordi si sovrappongono al presente, il futuro è un’eco, e il passato un respiro. Malick filma l’essere umano nella sua fragilità, come parte di un tutto più grande, immerso in un mistero che non può essere spiegato, solo contemplato.
Perché iniziare a guardare Malick
Se non hai mai visto un film di Terrence Malick, potresti chiederti da dove cominciare. La risposta dipende da cosa cerchi. Se vuoi un’introduzione più narrativa, Badlands (1973) è un’opera di sorprendente freschezza e immediatezza, influenzata dal cinema della New Hollywood. Se invece vuoi immergerti completamente nel suo stile poetico, The Tree of Life è il cuore pulsante del suo cinema. Un’esperienza che non si dimentica, anche quando non si capisce tutto. E se ami le riflessioni sul bene, il male e il coraggio dell’anima, A Hidden Life potrebbe toccarti nel profondo.
Il cinema di Malick non è per chi cerca risposte, ma per chi ha il coraggio di farsi domande. È un viaggio dentro e fuori di sé, in un mondo dove la luce filtra tra gli alberi e la voce dell’anima trova finalmente uno spazio per parlare.
Sandro Lezziroli
Dunque niente più pane, pasta, pizza, dunque carboidrati in generale, niente più cioccolato, dolci, torte, dunque zuccheri in generale.
Dunque regole.
Niente ironia, nudità, porno, sesso, alcolici, oppiacei.
RE-GO-LE.
Niente manifestazioni, niente opposizione, nessun pensiero.
Da oggi l’unica parola è:
SISSIGNORE!
SISSIGNORE!
REGOLE! REGOLE! REGOLE!
Le nostre…ovviamente.
Niente più sport, teatro, cinema, dopamina, divertimento in generale.
Niente più amore, tristezza, odio, rabbia, da oggi…moderazione.
Oppure la parola all'ordine del giorno sarà “Riccardo”.
…Scherzo.
REPRESSIONE!
Vabbè, non è una cosa brutta. Noi adesso diciamo repressione, ma diciamo che non è proprio repressione repressione, vedetela più come una corsia delimitata dove non potete correre, saltare, stare fermi, salutare mamma, QUI POTETE SOLO CAMMINARE, non troppo veloce però, mi raccomando.
E poi diciamocelo, la repressione nel 2025 non esiste più.
È una moda passata.
Forse quest’anno abbiamo esagerato.
Ma io dico, CHI È CHE NON HA MAI SBAGLIATO?!
Siamo umani.
Errare è umano, perseverare è malvagio, lo sanno anche le macchine.
Abbiamo anche detto troppo.
PRODUZIONE, ecco la parola del 2025.
Nuovo anno, nuovo incentivi, nuovi progetti, nuove somme, nuovi obiettivi.
Tu, si… tu, riesci a vedere l’occasione che hai davanti?
Tu per noi sei unico, sei stupendo, noi senza di te non andremo da nessuna parte.
Tu sei fantastico e noi, non solo ti apprezziamo, no, noi…TI AMIAMO.
Tu sei la cosa più pura che c’è, la cosa più bella che c’è:
Tu sei una macchina, tu sei una puleggia, tu sei un bullone, tu sei una vite, tu sei una cinta di trasmissione, tu sei una pompa, tu sei tutto per noi, e noi siamo tutto per te.
Tu puoi fidarti di noi.
Oggi, come è stato ieri, come sarà domani, è una giornata da ricordare, una giornata da raccontare a mamma, una giornata da portare dentro il nostro cuore, cuore che però, essendo estremamente altruisti e di buonanima, diamo a tutti, tutti i giorni.
Il nostro cuore a voi.
Adesso in coro.
Ricordati e ripeti insieme a me:
“IO SONO UNA MACCHINA E LE MACCHINE LAVORANO, IO SONO FONDAMENTALE, MA RIMPIAZZABILE, IO SONO LIBERO, LIBERO DI LAVORARE”
Bravissimo!
Bravo come pochi direi.
E dato che sei così bravo, ti sei guadagnato il diritto di scioperare e di avere dei giorni di malattia, ma, c’è un ma, purtroppo per delle policy lavorative, in questi giorni non verrai retribuito, ma d’altronde perché dovresti sentirti male o ribellarti se ti trovi così bene, no?
Opsss è finito il tempo, imbocca al lupo!
ADESSO TORNA A LAVORARE LA PAUSA PRANZO È FINITA!
Viviamo sotto il segno dell’io. Un io ipertrofico, sovraesposto, permanentemente online. Eppure, mai come oggi, quell’io è fragile, ansioso, in cerca di conferme. La promessa di libertà e autoaffermazione che il neoliberismo ci ha consegnato si è rovesciata nel suo contrario: una vita intessuta di performance, branding personale e panico da irrilevanza.
“Sii te stesso” è diventato un imperativo morale, ma soprattutto un ordine di mercato.
Lo avevano previsto in tanti. Nietzsche aveva già visto nella morte di Dio la nascita di un vuoto – un abisso che avrebbe chiamato nihilismo. Ma al posto del vuoto, noi ci abbiamo messo l’identità. L’“essere speciali” è la nuova forma di salvezza, l’unica ancora possibile in un mondo che non promette più nulla. Non si cerca più Dio, né verità, né senso. Si cerca visibilità.
Il personal branding è la teologia del XXI secolo: non ci dice solo come presentarci, ma come vivere. Scegliere cosa postare, come definirsi, quali tratti enfatizzare – è una liturgia quotidiana. Un culto in cui l’oggetto sacro siamo noi stessi, o meglio: la nostra rappresentazione.
Byung-Chul Han lo chiama “società della prestazione”, in cui non siamo più sorvegliati da un potere repressivo, ma sedotti dalla libertà di scegliere noi stessi. Una libertà apparente, che ci fa diventare imprenditori di noi stessi, capitalisti affettivi, sempre pronti a vendere un pezzo della nostra anima in cambio di attenzione.
L’identità non è più una domanda filosofica (“chi sono io?”), ma un problema di storytelling
In questo paesaggio, l’io non è più qualcosa da scoprire, ma da costruire. E più lo si costruisce, più si perde. Kierkegaard parlava di “disperazione dell’io”, una condizione in cui il soggetto non riesce ad essere se stesso, perché è separato dal proprio nucleo autentico.
Oggi quella disperazione è algoritmica: la proviamo quando il nostro contenuto “non funziona”, quando nessuno guarda, quando il mondo sembra dire: non sei interessante.
E allora rincorriamo engagement, reach, coerenza del feed. Ma chi siamo, davvero, quando nessuno ci guarda?
Nel tentativo disperato di “distinguersi”, finiamo per somigliarci tutti. Ogni feed diventa uno specchio deformante dove i tratti unici vengono impacchettati in format replicabili.
Il paradosso è evidente: l’individuo, nel tentativo di diventare irripetibile, si serializza. La soggettività si piega ai codici del marketing, e il narcisismo diventa una forma di alienazione.
Forse, allora, la questione non è come emergere, ma come non perdersi. Non in senso romantico, ma radicale: come restare capaci di abitare il dubbio, l’opacità, il silenzio.
Come restare esseri umani, non brand.
In un sistema che premia l’esposizione costante, scegliere di scomparire sembra una forma di resistenza. Il digital detox, il silenzio volontario, il rifiuto di mostrarsi possono apparire come gesti autentici, controcorrente.
Ma anche queste scelte sono rapidamente state assorbite dalla logica del branding personale. La disconnessione è diventata uno stile di vita, un contenuto da raccontare al ritorno, un modo per distinguersi in un mercato saturo.
Ma se anche scomparire fosse il nuovo trend?
Marco Cacciatore
"Ciao Bambino" è un esordio, e si sente. Eppure è un esordio bello, fatto bene, con un'idea alla base e con delle intenzioni ben chiare. In un certo senso, la storia non è poi così nuova: un bravo ragazzo in un mondo cattivo. Detto così non sembra niente di entusiasmante o originale, eppure ha una sua forza espressiva, in parte anche legata alla scelta degli attori, anche loro per lo più emergenti: certo, c'è sicuramente dietro anche una questione economica, ma in ogni caso la presenza di attori alla loro prima esperienza cinematografica ha avuto un influsso positivo sul film, conferendogli un grande senso di sincerità che rende la pellicola genuina e spontanea.
Da un punto di vista tecnico non ho molto da dire, né, in realtà, ho le conoscenze necessarie per fare una critica approfondita. Quello che so è che mi è piaciuto quasi tutto quello che ho visto. C'è stato forse qualche momento di dialogo che avrebbe potuto essere scritto meglio, qualche battuta si sarebbe potuta tagliare, ma, in fin dei conti, la maggior parte delle interazioni tra i personaggi funziona bene e non risulta banale. Mi è piaciuto molto il personaggio del padre e anche Vittorio, entrambi interpretati molto bene. Anche le musiche funzionano... l'unico piccolo rimpianto forse é nel finale, il quale sarebbe stato più incisivo senza la lettura da parte della ragazza della lettera, chiudendosi invece su quell'ultima inquadratura.
Edgardo Pistone ci regala un'opera prima che lascia ben sperare per i suoi prossimi progetti. È evidente la volontà di costruire una narrazione in cui Napoli non è la solita caricatura fatta di stereotipi. In un'intervista fatta da Artesettima, Pistone dichiara: "Ciao Bambino in una Napoli contemporanea si posiziona in una posizione abbastanza inedita, perché prova a raccontare Napoli attraverso un territorio inesplorato, provando ad avere una visione della stessa città senza calcio, senza cibo, senza troppo sole e senza Vesuvio."
"Ciao Bambino", come si capisce proprio dal titolo, è un film che parla del dover diventare adulti. Attilio, il protagonista, ha 17 anni e possiede ancora una sua innocenza, una sua ingenuità, ma vive in una realtà in cui queste non sono altro che debolezze. Attilio è ingenuo perché pensa di potersi innamorare di una prostituta e di poterla salvare, è ingenuo perché pensa di poter saldare i debiti del padre e di poter salvare quest'ultimo e, infine, è un bambino, perché pensa di poterlo fare senza conseguenze.
Questo film ci mostra quegli spazi urbani che sono considerati "spazi vuoti", ovvero quegli spazi che, per la maggior parte delle persone, me compreso, sembrano non esistere, come se al loro posto non ci fosse altro che il vuoto, degli spazi fatti di sola assenza. Pistone riesce a catturarli e a renderli reali, solidi e pieni: si tratta di spazi in cui il concetto di eredità è ancora importante (mentre altrove è stato dimenticato), spazi in cui contano ancora valori come la famiglia e il rapporto con il quartiere. Ambienti, insomma, in cui esistono ancora delle dinamiche sociali ben definite, da cui non si può e non si deve evadere (come invece prova a fare Attilio).
Insomma, sono felice perché questo film, assieme a Vermiglio di Delpero, mi dà speranza per il futuro del cinema italiano.
Federico Scotti
È possibile desiderare la sofferenza a tal punto da posizionarla come ambizione maggiore della propria esistenza? Condurre una vita irragionevole e straziante sembra essere l’unico motivo per avere una vita dignitosa, secondo il protagonista delle “Memorie dal sottosuolo” di Fëdor Dostoevskij, pubblicato per la prima volta nel 1864.
L’individuo presentato dall’autore russo avrebbe un profondo ardore di dolore e di umiliazione, accusati da una società che corre dinamicamente tentando di diffondere ideali ottimistici e schivando il vero affanno che contraddistingue la vita di ognuno di noi. L’uomo del sottosuolo, il quale rimarrà anonimo per l’intero romanzo, è malato e maligno e cerca di integrarsi in una società che scarta, disprezzandoli, gli umani sensibili ed eccessivamente riflessivi, che non riescono ad agire e ad imporsi delle mete che possano coronare il cammino della loro vita. Il personaggio, pertanto, tenta in svariati modi di entrare in contatto con il variabile spettro della comunità, trascinato da un estremo all’altro e umiliato su ogni pigmento della sua stessa pelle, a partire da uno scontro con un ufficiale fino alla frequentazione con una prostituita. È qui che il reietto comprende l’inquietudine della vita e che la sofferenza che nasce con la stessa ci abbraccia con artigli che lasciano vivide ferite sul nostro corpo, segnando indelebilmente l’orizzonte tragico di ognuno di noi.
La preferenza dell’uomo nel confrontarsi con la sofferenza permette all’individuo che abita il sottosuolo di captare l’irrazionalità della vita, poiché la stessa è resa peculiare dal sentimento, in particolare da quello negativo, e per poterselo procurare e vivere nel desiderato tormento occorre abbandonarsi alla mancanza del razionale, esaltando la volontà individuale. Per promuovere quest’ultima l’autore propone un prodotto banale, secondo il quale moltiplicando il due per se stesso otteniamo quattro, e ritenendo di cambiare il risultato finale con un cinque crede di poter far trionfare la suddetta volontà; risultando la stessa una conquista vana, all’uomo non rimane che rifugiarsi e strisciare sul terreno delle interiora della terra: il sottosuolo.
Ma è vero che la vita è solo afflizione? È possibile, nell’uragano del rodimento, trovare uno scorcio che possa farci vedere e percepire il tiepido sole oltre la parete ventosa dell’uragano stesso? Secondo Dostoevskij ciò non è contemplabile, e l’uomo tende spesso a rincorrere una superficiale, momentanea gioia mentre il nostro protagonista continua a porsi una domanda oziosa: “che cos’è meglio, una felicità da quattro soldi o delle sublimi sofferenze?” Ed è quello che possiamo chiederci anche noi, abitanti di una realtà che maschera la tristezza e l’indolenzimento, nascondendoli sotto un’apparente felicità e una momentanea gioia pur di non sentire i sentimenti negativi, abbracciarli e far si che possano aiutarci, perché perfino il dolore può farci bene, talvolta.
Nella realtà in cui stiamo crescendo è diventato comune raccogliere il razionale in ogni cosa che facciamo, e lasciare per terra tutto ciò che concerne la sfera sentimentale, per sotterrare con piacere, cosicché non ferisca, il tormento che fa sanguinare. In tal modo
finiamo non solo nel perdere l’occasione di vivere un’emozione, ma buttiamo via pure noi stessi, rifiutando di sorridere a una parte di noi che cerca di emergere e che tuttavia riceve le nostre stesse spalle, volte a non voler vedere ciò che dentro si agita. Così, gettando noi stessi da una parte e privandoci pure di riconoscere la totalità del nostro essere, giungiamo nell’universo del nullo, e nell’oblio non riusciamo più ad essere nessuno, “nemmeno un insetto”.
Eleonora Noto
Giunge dalla penna del francese Christophe Honoré uno dei protagonisti più surreali della passata
stagione cinematografica. Si tratta della commedia esistenziale Marcello mio, a cui oltre che in fase
di scrittura Honoré ha lavorato per quanto riguarda la regia. L’intenzione è quella di impostare una
riflessione su un pesante retaggio genitoriale, e quale figura più consona ad incarnarlo se non quella
di Chiara Mastroianni, peraltro frequente collaboratrice del regista. L’attrice, figlia dell’icona tutta
italiana di cui porta il cognome (e, non secondariamente, di Catherine Deneuve) per una durata di
121 minuti abita una vicenda ricamata sulla sua figura, dall’andamento curioso e marcatamente
metalinguistico. Il progetto, presentato lo scorso maggio al sempreverde Festival di Cannes, giunge
nelle sale internazionali pochi giorni dopo.
Chiara Mastroianni è ormai adulta, i giorni dell’infanzia sono passati ma le silhouette delle figure
dei genitori sono nel suo presente ugualmente mastodontiche. Ovunque e comunque si muova, sia
nella vita privata che soprattutto in quella professionale, la presenza genitoriale è iper-presente.
L’attrice è stanca di sentirne il peso, di subire le interferenze di una madre (Catherine Deneuve) che
dispensa consigli non richiesti e di un padre, Marcello Mastroianni, che pur non essendoci più
sembra far sempre capolino. È esausta di sentirsi dire di recitare “meno à la Deneuve”, o di porsi
“più à la Mastroianni”. Il debito nei confronti della figura paterna è pressante e onnipresente.
Estenuata, Chiara giunge ad un elementare conclusione: mi volete come lui? Dunque diventerò lui.
Ed è così che, con l’aiuto di una parrucca, un completo, un cappello e dei baffi finti, Chiara smette
di essere se stessa per rendersi suo padre. Abbandona il suo francese di nascita in favore della lingua
italiana, ripropone le sue pose, pretende che la gente si rivolga a lei (a lui?) con l’appellativo di
Marcello. Assume la fisionomia dell’icona e assorbe le abitudini del padre, frequentando gli stessi
ambienti e facendo propri i vizi e le usanze. Di fronte ad uno stravolgimento tanto convinto e
repentino, i suoi cari non possono esimersi dal manifestare preoccupazione: in pochi la
assecondano, molti altri sollevano dubbi e perplessità. Ma, per quanto paradossale, il volo pindarico
della trasformazione può essere per Chiara ciò che le consente di imparare a nuotare da sola, a
destreggiarsi nella vita con le proprie forze.
Cristophe Honoré, per il quale Marcello mio costituisce il tredicesimo lungometraggio, con la
maestria dell’esperienza guadagnata nel tempo compone il surreale inno dei nepo baby, a cui un
fortunato albero genealogico può aver permesso di incontrare porte aperte, ma a costo di un ritorno costante a chi ha dato loro le chiavi d’accesso alla fama. Chi dunque meglio di Chiara Mastroianni,
doppia figlia d’arte, per dare corpo a questa condizione di vantaggio ambivalente. Attraverso un
percorso quasi psicoanalitico nel presente della protagonista, la sceneggiatura esplora il concetto di
eredità (chiaramente in senso lato, non di accezione monetaria), sempre in bilico tra propulsione e
fardello. Un retaggio di cui beneficiare, soprattutto agli esordi di una carriera “facilitata”, ma di cui
dover rispondere sistematicamente nel lungo termine. In questa commedia umana - l’etichetta è per
Marcello mio più che mai calzante - la concettualità poggia su una base di realtà concreta per
approdare a derive narrative. Il metalinguismo si fa così non solo proiettato sul corpo filmico, ma
anche sul personaggio. Ad andare incontro ad una lettura complessa e stratificata non è unicamente
il film, ma anche la protagonista che lo abita, di cui l’esperienza di vita tanto investe la trama.
Chiara è ovviamente Chiara, ma è anche Marcello, e questa dicotomia colloca il prodotto in un
limbo incerto fra vissuto reale e diegesi fictional. Certo, un andamento del genere comporta rischi
non indifferenti, e non a caso di tanto in tanto la trama vacilla. I passaggi dall’assurdo debordante
alla narrazione eccessivamente placida sono in effetti talvolta repentini, ma permettono comunque il
delinearsi di un piacevole anomalo racconto di formazione che ha per riferimento il mito.
Gli spunti d’ispirazione dell’approccio alla scrittura di Marcello mio sono plurimi, se si focalizza
sullo spunto serioso calato in una dinamica dai toni comici. Fra i tanti, è impossibile non pensare,
ad esempio, a Victor Victoria (Blake Edwards, 1982), storia di un trasformismo che ha segnato
un’epoca. Ma, giocando con l’elemento aggiuntivo di una metamorfosi rivolta ad una figura paterna
leggendaria, il meccanismo si eleva ad un piano indubbiamente più complesso. Data questa matrice,
il percorso è ancor più viscerale e incisivo. E quando infine Chiara, alla ricerca dell’eco del padre,
finisce per trovare se stessa, la nostra reazione più probabile è quella di un sospiro di sollievo di
fronte al sopraggiunto equilibrio. In questo sviluppo, la performance della protagonista si fa
inevitabilmente sentita. Chiara Mastroianni proietta il proprio vissuto su una scrittura che le è amica
mettendola però contemporaneamente alla prova. Ma a stupire forse ancor di più è l’autoironia e la
disponibilità con cui si avvicina al progetto l’altra sua componente genitoriale altrettanto
leggendaria, quella costituita da Catherine Deneuve. La diva affronta questa operazione scegliendo
un approccio giocoso, complice, non scontato (e dunque rispettabilissimo) dall’alto del suo statuto.
In definitiva, Marcello mio è un progetto che si ripiega su se stesso giocando instancabilmente con
le impalcature testuali dettate dai suoi personaggi. Nel farlo si diverte, e dunque non può fare a
meno di divertire a sua volta l’osservatore.
Pietro Emanuele Abondazio
Il 6 giugno del 1944 è la data che riporta alla mente il leggendario sbarco in Normandia, operato dalle forze alleate per sconfiggere la potenza tedesca. Non tutti sanno che, oltre alle numerose vittime alleate sacrificate sulle spiagge francesi, è stata di fondamentale importanza la preparazione dello sbarco, composta da un attento studio fatto di strategia e di inganni. Questi ultimi furono fondamentali per depistare le forze naziste, e il più importante riguarda la cosiddetta “operazione Fortitude”. L’obiettivo era di far credere al nemico di dover affrontare gli sbarchi in una zona completamente differente rispetto alla Normandia.
Ciò fu possibile grazie all’intuizione del tutto originale del colonnello inglese John Bevan. Si domandava infatti come avrebbe potuto far credere a Hitler che un esercito imponente fosse effettivamente presente in Inghilterra. La sua idea fu sia geniale che folle, perché decise di creare un vero e proprio esercito fatto di veicoli fittizi, tende vuote e casse di munizioni svuotate. Diede persino un nome all’esercito fantasma, in modo da non destare alcun sospetto nei confronti delle spie tedesche. Si chiamava FUSAG, First United States Army Group, aveva anche un quartier generale di stanza a Wentworth, vicino ad Ascot, e il suo generale era George Patton, il più famoso stratega americano della seconda guerra mondiale
Ovviamente l’idea non fu subito digerita dagli altri protagonisti dello sbarco, come il maggiore Ralph Ingersoll che dovette aiutare Bevan nell’operazione Fortitude. Era convinto che il piano fosse: «Un’idiozia bella e buona». Secondo lui a quella follia: «I tedeschi non ci crederanno mai». Eppure è stato grazie ad un suo lampo di genio se l’operazione andò a buon fine. Incaricò infatti numerosi carpentieri di provare a costruire dei carri armati non in acciaio, bensì in legno. L’unico problema riguardava le tempistiche. La costruzione di uno Shermann in legno necessitava delle stesse tempistiche di un carro armato reale. Così chiese se fosse fattibile l’utilizzo della gomma per la creazione dei veicoli, lo stesso materiale usato per creare i modelli di Mickey Mouse nelle parate americane. In questo modo, in meno di due mesi, grazie all’aiuto di alcune fabbriche di pneumatici degli Usa, arrivarono in Inghilterra delle ottime imitazioni di Shermann contenute in varie valigie. Ingersoll esclamò così l’avvenimento: «Degli Shermann in una valigia!». Per completare la creazione dei carri bastava agganciare ognuno di essi ad un compressore in modo che si gonfiassero. In una sola notte circa cento carri furono stanziati nelle campagne del sud-est dell’Inghilterra. In verità fu necessaria la presenza anche di un solo carro vero, utilizzato per creare solchi e orme per far credere ai ricognitori aerei nemici che fossero passati effettivamente i cingolati.
Il passo successivo fu quello di dare vita all’accampamento fantasma. Per dare l’impressione che fosse effettivamente brulicante di soldati, vennero composti dei messaggi radio ad hoc che ricreavano fedelmente quelli che potevano essere usati in un normalissimo campo. Per fare ciò fu dispiegato un distaccamento dell’U.S. Army Signal Corps, incaricato di inviare messaggi radio in codice e in chiaro. Alcuni di essi erano messaggi vocali e furono impiegati persino alcuni ex attori di Hollywood per imitare i vari accenti americani. Per completare la farsa si doveva attendere solo che le spie tedesche ricevessero tutti i segnali inviati dall’esercito fantasma. Due spie tedesche, nomi in codice Armand e Arabal, furono effettivamente tratte in inganno e scrissero numerosi rapporti sulla situazione in Inghilterra. Il fascicolo NR2796/44, sopravvissuto alla guerra, dichiarava che dall’Inghilterra sarebbe partita un’invasione dal Sudest del paese e che sarebbe arrivata al passo di Calais. In realtà, come poi ha dimostrato il vero sbarco, tutte le divisioni alleate sarebbero sbarcate in Normandia dalla zona Sudovest.
Beatrice Cino
Seguendo il sentiero arrivo davanti ad uno spettacolo terrificante: le rocce coperte da muschio sono state travolte dal peso di un tronco d’albero dalla chioma arancione che, per via del passare del tempo, sta lasciando libere, in una dolce danza, le sue foglie secche e vecchie. Dietro di esso, un dirupo roccioso. La roccia è spaventosa. La cima guarda dritto dentro l’anima e mi stordisce, mi fa cadere all’indietro. Il mio cuore non riesce a tenere dentro di sé tale spettacolo mostruoso, così potente da rendermi vincibile, piccolo, il nulla. La nebbia diffonde il colore della luce che proviene dalla sfera celeste, mi mostra i suoi raggi sfuggenti e mi prende in giro per la mia condizione mortale. Se urlo, il mio stesso eco mangia le mie parole, mi disintegra, mi abbandona. Sento le campane in lontananza, chiudo gli occhi e mi teletrasporto.
La tomba di Hutten è dipinta su un tramonto aranciato, le rovine e le piante lo incorniciano in un ricordo passato. La Natura mi spaventa, mi rapisce, mi ricorda che lei ha il potere sulla mia inutile esistenza, che anche le mie più grandi imprese verranno dimenticate, disseminate dalle erbacce del futuro. Un albero mi osserva da sopra il monumento mentre mi sdraio ad accarezzare il marmo di un uomo che è andato contro altri uomini. La roccia è fredda, fa male a toccarla. Sento un buco sulla superficie, provo a sbirciare dentro e mi ritrovo catapultato in un altro incubo.
La terra è assediata da tombe di miei simili, grandi eroi e piccoli uomini, mia sorella e mio figlio, una sola scritta su un frammento di pietra porta il loro nome, come se questo bastasse per onorare una vita intera. L'abbazia mi sussurra qualcosa in una lingua arcaica, incomprensibile, mi cinge alla gola e allo stomaco, mi blocca la parola. Gli alberi entrano nelle mie palpebre e si impossessano del mio corpo, dell’unica cosa che mi incatena a questa terra umida.
Mi sveglio davanti alla mia tela. Sublime.
Emma Consonni
Wes Anderson non smette mai di sorprendere. Dalle simmetrie fotografiche ai personaggi bizzarri, fino alle atmosfere sospese, il regista regala allo spettatore un’esperienza surreale, irripetibile, immersa in una plasticità che però non perde mai vitalità.
Una caratteristica che incontrerete spesso se deciderete di entrare nel microcosmo di sfondi disegnati e profondi personaggi di questo artista è la vicinanza alle tecniche narrative del teatro e della letteratura. Nello specifico i suoi ultimi prodotti cinematografici sembrano quasi richiamare da vicino un caposaldo della nostra letteratura novecentesca: Italo Calvino. Un altro autore che spesso lascia spiazzati con i suoi personaggi fuori dal comune, ma soprattutto con i paesaggi che disegna nelle pagine delle sue opere, luoghi surreali e fantastici. Questo autore, elemento di punta della letteratura italiana si inserisce in un contesto culturale nel quale risulta più preponderante che mai; la realtà è un mare non più analizzabile nei singoli elementi. Ma Calvino si inserisce in questo contesto attraverso la consapevolezza che non ci si può più inoltrare in quel mare, ma lo si può solo solcare sulla superficie. E da qui l’abbandono di una rappresentazione realistica, per dirigersi verso mondi immaginari, quasi plastici, che abbracciano il molteplice. La letteratura, in questo senso, rappresenta la possibilità di costruire un ordine. Con lo strutturalismo, ora la narrazione prosegue attraverso un mazzo di tarocchi, ora attraverso i multipli dei numeri di una scacchiera (Il castello dei destini incrociati e Le città invisibili). Da qui non si può non ravvisare un filo conduttore tra questi due estrosi artisti.
I film di Wes Anderson spesso abbandonano l’idea di una narrazione continua, ma sembrano seguire una suddivisione in “capitoli” o, per avvicinarci alla figura di Calvino, una serie di racconti. Le vicende, alle volte, sembrano separate l’una dall’altra e The French Dispatch è l’esempio più evidente, oltre a essere una delle rappresentazioni che più si avvicinano a una forma letteraria, quella della rivista. Il film sviluppa visivamente una serie di articoli di vari autori legati a una rivista culturale. Nonostante il genere letterario di riferimento sia quello che più aderisce alla realtà, quello giornalistico, le vicende sfuggono comunque dalle maglie del verosimile, rappresentando quadretti surreali e vicende comicamente al limite del possibile.
Calvino ha sempre preferito la forma del racconto a quella del romanzo, forma letteraria a cui difficilmente si avvicina, soprattutto nella maturità. Similmente, Wes Anderson sembra più raccontare una serie di episodi legati da un medesimo paesaggio e tempo, che per altro risultano dei “non luoghi” fuori dal tempo, piuttosto che una narrazione unica e continua (sensazione nota a chi si addentra nel mondo letterario di Calvino).
Tra gli ultimi prodotti di Wes Anderson, inoltre, si annoverano una serie di cortometraggi, dalle tinte quasi novellistiche, sempre accompagnate dalla voce narrante dello scrittore, che
ha un posto anche sulla scena. In questo caso, però, il riferimento è esplicito: Roald Dahl. A questo autore Wes Anderson è sicuramente debitore. Lo scrittore britannico è spesso ricordato per aver stravolto la letteratura d’infanzia, sostituendo le raffigurazioni esemplari con piccoli mondi che, seppur immaginari, non mancano di presentarsi più veri e reali sotto la loro superficie bizzarra rispetto alle fiabe edificanti. Qui assumiamo il punto di vista dei bambini, personaggi a sé stanti con le loro emozioni e caratteri, che arrivano spesso a superare gli adulti. Ma non sono solo gli ultimi quattro cortometraggi di Wes Anderson a richiamare esplicitamente le raccolte di racconti di Roald Dahl, ma anche uno dei più celebri film di Wes Anderson in stop-motion: Fantastic Mr. Fox. Il film, con la sua palette tenue, ricostruisce visivamente ciò che Dahl raccontava nell’omonimo racconto attraverso personaggi animali estremamente umanizzati.
Risuonano gli echi del celebre ideatore della fantastica fabbrica di cioccolato anche in altre opere, tra cui The Royal Tenenbaums, in cui il regista statunitense segue la crescita di tre fratelli prodigio, e certamente non stonerebbe in questa famiglia un piccolo genio come la Matilda di Dahl.
Dalle note decisamente più teatrali, invece, è Asteroid City, che si incentra proprio su una rappresentazione teatrale messa in scena in un programma televisivo. Ma, oltre a svelarci fin da subito il set televisivo e poi il palco teatrale in cui si chiudono a matriosca le vicende che noi poi viviamo in terza istanza, la vicenda si intreccia a tratti con le vicende degli attori, varcando il confine tra realtà e finzione. La riflessione stessa che i personaggi e attori fanno sul teatro porta gli echi del teatro nel teatro di Pirandello, come in Questa sera si recita a soggetto. Nell’ultimo surreale film di Wes Anderson, i personaggi sembrano alle volte sovrapporsi agli attori che li interpretano: il personaggio Augie, in lutto per la moglie insieme alle figlie, condivide il sentimento del lutto “reale” dell’attore Hall per Earp, lo sceneggiatore dell’opera. Ma non si esaurisce qui il criptico legame tra attori, teatro e personaggi: Hall si trova spesso confuso dallo spettacolo, ma anche dal suo stesso personaggio, del quale l’attore fatica a trovare le ragioni profonde.
Wes Anderson risulta un regista incredibilmente straordinario nella sua fotografia e nelle sue inquadrature, surreale nei paesaggi e nelle atmosfere, e criptico nelle vicende narrate. Quest’ultimo elemento lascia spiazzati i fruitori delle sue opere, che spesso tendono a concentrarsi sulle immagini piuttosto che sull’elemento narrativo. Ma a un occhio più attento non potranno, e non devono, sfuggire non solo le vicende e i loro significati sottesi, ma anche l’universo paratestuale che il regista tratteggia con la sua tenue tavolozza.
Silvia Balestrieri
“La cultura è resistenza, nessuno può togliercela”.
Queste parole sono state pronunciate dalla protagonista del film “Leggere Lolita a Teheran”, l’attrice Golshifteh Farahani, basato sull'omonimo libro autobiografico di Azar Nafisi, presentato alla Festa del Cinema di Roma 2024. Parole forti, che hanno racchiuso la situazione politica e femminile degli anni ‘80 in Medio Oriente, attuale ancora oggi. L’autrice insegnava letteratura inglese all’Università di Teheran, ma a seguito della Rivoluzione Islamica del 1979 scelse di smettere di insegnare a causa delle continue repressioni e censure, che colpivano più in generale sulla vita della donna, costrette a portare il velo e a seguire altre restrizioni. È stato senza dubbio un evento che ha cambiato la geopolitica dell’Iran e del Medio Oriente: nel gennaio del 1979 Khomeini salì al potere, a seguito della fine della monarchia iraniana, il quale criticò fortemente il regime allora regnante, accusando l’Iran di essere un “burattino” degli Stati Uniti e di farsi influenzare in modo negativo dall’Occidente. A marzo dello stesso anno, dichiarò che il paese sarebbe diventato una Repubblica Islamica e impose la legge islamica, basata sulla teocrazia. Tuttavia, comportò delle limitazioni per quanto riguarda la vita femminile, obbligandole a portare il velo (l’hijab, che copre tutto il corpo) come già detto in precedenza, escludendole dalla partecipazione politica e sociale e addirittura anche dalla formazione e dalle espressioni artistiche.
Mentre il paese attraversava questo cambiamento politico, Nafisi per non interrompere del tutto il suo insegnamento universitario, decise di organizzare un seminario privato una volta a settimana, invitando un gruppo di studentesse a casa sua per poter discutere di letteratura; nel corso della narrazione si può notare come i dibattiti vertano su grandi romanzi, come “Lolita”, “Il grande Gatsby”, “Orgoglio e Pregiudizio”, “Cime tempestose” e le studentesse cercano di collegare le tematiche dei libri alla situazione politica che stavano vivendo, stimolando in questo modo un colloquio intellettuale, come in una reale lezione accademica.
In questo modo la letteratura viene percepita come una forma di resistenza, in cui i lettori possano immedesimarsi e trovare degli spunti di riflessione, utili per prendere atto dei regimi che soffocano l’umanità e limitano la libertà di espressione. “Leggere Lolita a Teheran” è l’opera emblematica per questo problema, nella natura propria di come è strutturata: un’opera letteraria, che si occupa di romanzi e grandi idee, dalla quale si arriva a dipingere il riquadro iraniano per mettere in discussione ciò che risulta obsoleto e ingiusto per i diritti delle donne, non solo nella regione mediorientale. Proprio per questo è stato scelto “Lolita” come libro da usare per il titolo: Dolores, il vero nome della protagonista, è imprigionata nella figura di Humbert, un personaggio che usa la sua posizione maschile per esercitare potere, favorito dalla debolezza dovuta alla giovane età di Lolita. Un titolo non casuale, che riflette la condizione che le donne dell’epoca subivano e che purtroppo continuano ancora a vivere: una condizione di oppressione maschile e Nafisi riporta il parallelismo che vede le donne come la piccola Lolita e il regime islamico come Humbert. L’ossessione di Humbert per la bambina non è solo un fattore estetico, ma più precisamente esprime una presa di posizione da parte sua per un controllo della personalità di Lolita, mettendola all’oscuro ed eliminando la sua figura di futura donna, sottomettendola alle sue decisioni, così come sta accadendo in Iran, Afghanistan e altre zone del mondo.
Nonostante Nafisi abbia già utilizzato la sua scrittura come pretesto per denunciare le oppressioni della Repubblica Islamica, la situazione attualmente non è cambiata molto. L’11 dicembre 2024 Amnesty International ha pubblicato un articolo in cui si parla della proposta di reintroduzione del velo obbligatorio in Iran, a tutte le donne, musulmane e non, anche le turiste. Anche se è stata rinviata a seguito delle proteste, segna un’ulteriore negazione dei diritti delle donne; la proposta di legge, composta da 74 articoli, “prevede anche pene come frustate, multe esorbitanti, dure condanne detentive, divieti di viaggio e restrizioni all’istruzione e all’occupazione per le donne e le ragazze che si oppongono al velo obbligatorio”.
La morte di Mahsa Amini nel 2022, arrestata dalla polizia morale a Teheran per non aver indossato correttamente il velo e morta poco dopo in detenzione, ha scatenato un’ondata di proteste e dando origine al movimento “Donna, Vita, Libertà”. Purtroppo decine di attivisti continuano ad essere arrestati, tra cui la giornalista italiana Cecilia Sala, arrivata in Iran il 12 dicembre scorso per il suo lavoro giornalistico, ma è stata detenuta in isolamento dal 19 dicembre all’8 gennaio; come riporta il Sole 24Ore, l’Iran solo nel 2024 ha arrestato 644 donne per uso improprio del velo. La lettura di “Leggere Lolita a Teheran” non serve solo a comprendere il contesto storico degli anni ‘80 iraniano, ma è fondamentale reinterpretarlo in una chiave di lettura attuale: la scrittura, ancora e soprattutto oggi, risulta uno strumento politico potentissimo che aiuta a creare un dibattito e a stimolare una riflessione sull’attualità. Nafisi e le sue studentesse hanno dimostrato come la letteratura possa essere resistenza, di lotta per le classi sociali e i diritti umani; la cultura aiuta a sviluppare il pensiero critico e se c’è cultura alla base di un governo, allora esiste la libertà per il popolo.
CINEMA ESPOSTO E POST-MEDIALITÀ
Secondo la FIAF (International Federation of Film Archives) è film:“ Ogni registrazione di immagini in movimento, con o senza accompagnamento sonoro, quale che sia il supporto”. Attenendosi a codesta definizione - non per limitare la multiformità del cinema, ma per far sì che possa fungere da bussola nel vasto territorio della film theory odierna - proviamo ad orientarci all’interno dell’articolato e poliforme panorama cinematografico-artistico contemporaneo.
Tenendo conto dell’ormai noto concetto di post-medialità - fenomeno individuato nel passaggio dei media alla tecnologia digitale, con tutto ciò che ne concerne: dalla “naturalizzazione” dei dispositivi al loro filtraggio della realtà - la rilocazione delle immagini in movimento è un aspetto da cui sembrerebbe facile partire. Questo perché siamo sempre più abituati al consumo di prodotti audiovisivi su apparecchi non propriamente destinati alla fruizione di determinate opere. Non più sale cinematografiche, ma monitor, smartphone, tablet, schermi pubblicitari. Ci sono infatti artisti che su questo “reshoring” delle immagini in contesti sempre diversi stanno progressivamente riflettendo all’interno della loro filmografia.
In un’oscillazione costante tra cinema e arte contemporanea, Albert Serra - regista catalano classe 1975 - è sicuramente uno dei più abbienti nell’attuale ecosistema mediale. Serra crede nella necessità di un’auto-riflessione del medium-cinema, solo così lo stesso avrebbe la possibilità di sopravvivere nel tempo della "vaporizzazione" dei dispositivi. In questo modo, l’opera dell’artista catalano è sempre spinta da una profonda sperimentazione, non solo nel linguaggio, ma anche nel supporto per cui è realizzata. Questo per Serra è possibile anzitutto grazie alla svolta digitale, che permette al filmmaker un controllo totale del processo produttivo. Ma è dalla libertà espressiva, data dalle dinamiche interne al circuito artistico contemporaneo, che Serra ha potuto radicalizzare ancora di più il suo linguaggio, oltrepassando il confine dello schermo cinematografico e approdando alla video-installazione.
Un esempio indicativo è The Three Little Pigs (2012), monumentale installazione performativa dalla durata di 101 ore, in cui emergono tutti i topoi dell’opera di Serra: dall’idea di performance, alla temporalità dilatata - con lunghi piani sequenza -, fino alla riflessione sul corpo attoriale. Bisogna assolutamente sottolineare l’influenza di un ulteriore medium: quello letterario. Il regista catalano tende sempre a far presente quanto sia stata importante la sua formazione letteraria, che riecheggia assiduamente nei suoi film. In The Three Little Pigs, Serra traspone in immagini in movimento tre testi su altrettanti personaggi storici. Il risultato supera anche il contesto storico nel quale il “film” è realizzato. Mettendo in discussione la classica narrazione biografica del biopic, e quella del film storico, rompendo le logiche della rappresentazione. Per un’opera impossibile da categorizzare rivolgendosi ai generi cinematografici.
Come era avvenuto in precedenza con Honor de cavalleria (2006) e El cant dels ocells (2008), e come avverrà in seguito con Història de la meva mort (2013), La
Mort de Louis XIV (2016) e Liberté (2019), Serra ricontestualizza e fa suoi determinati momenti storici. In questi trova terreno fertile per ricostruzioni di vizi e virtù umane che ricorrono nel corso della storia. Quindi, non rappresentazioni storiografiche, ma immagini che hanno il valore di quadri, in cui l’artista dipinge un particolare attimo della vita di un personaggio. Sono personaggi, quelli di Serra, che portano il peso di intere classi sociali; il cui corpo stanco, e la cui lenta - ma ormai prossima - decadenza è inquadrata dal regista con fervore e con partecipazione, come fosse la macchina da presa a togliergli la vita. È evidente la natura politica, ma nei suoi film vi è sempre una tangibile ambiguità di fondo: questa è essenziale, poiché lascia spazio all’ultimo anello della catena - lo spettatore - di inserirsi e riflettere su quanto visto.
L’approccio di Albert Serra è orientato verso la definizione di cinema esposto. Questo perché la volontà del regista catalano è quella di muoversi nell’ambito dell’arte, e lasciarsi suggestionare dall'eterogeneità degli elementi che essa mette a disposizione, ma di nutrirsi di un cinema che non debba più appellarsi a meccanismi ormai stantii. Le sue produzioni sono contraddistinte da una frequente improvvisazione, senza regole prescritte; tentano di trasmettere l’intensità e la singolarità della vita. È poi, in fase di post-produzione, con il lavoro al montaggio, che raggiungono il senso ultimo; in cui la manipolazione cinematografica diviene performance, con, anche qui, spontaneità nel combinare le immagini; al di là di una consecutio narrativa.
Alla luce di quanto detto, appaiono chiare le motivazioni che hanno spinto Serra a girare Tardes de soledad (2024) - documentario sulla corrida in cui il regista si muove tra realtà e finzione - anche se lo stesso Serra ha dichiarato più volte di non amare la forma documentaristica, e che Tardes de soledad sarebbe stato il suo primo e ultimo documentario.
Andando oltre, l’autore che più di tutti incarna la cultura post-mediale è Harmony Korine. Il regista americano indie nella sua filmografia si è sempre mosso su due piani: la messa in scena di un nichilismo incessante, con conseguente svuotamento emotivo di cui sono affetti i suoi protagonisti, e una continua sperimentazione formale. Quest’ultima è stata l’oggetto di studio di Aggro Dr1ft (2023) e Baby Invasion (2024), entrambi presentati alla Mostra del Cinema di Venezia. Successivamente, tutti e due non hanno goduto di una regolare distribuzione, ma sono stati proiettati in vari night club di Los Angeles e New York; non più, quindi, esperienza cinematografica unica, ma proiezioni di sostegno ad un altro tipo di evento.
Il caso più rappresentativo è sicuramente Baby Invasion. Un delirio di linguaggi, forme, spazi che si sovrappongono; un film difficile da descrivere, ma che ben sintetizza l’incursione mediale, la bulimia di segni appartenenti a diversi media: dal videogioco all’interfaccia twitch, fino alla riproposizione della trascendentalità tipica del Korine post- Spring Breakers (2012).
“THIS IS NOT A FILM”, compare a schermo durante Baby Invasion: è dunque vero? Il cinema - nella sua definizione più classica, non quella data dalla FIAF - è stato
surclassato, inghiottito dal turbinio post-mediale? Dall’ormai svelato rimpiazzo della realtà a favore dell’iperrealtà?
Il cinema è un’arte estremamente flessibile, che attrae a sé queste ingerenze mediali soprattutto per evolversi, per trasformarsi in qualcosa che non si eroda con il passare del tempo. Un’arte che accoglie, non rifiuta; che ingloba, rimodella, plasma. Francesco Casetti, nel libro La galassia Lumière, scrive:” (...) il cinema è sempre stato una “macchina” assai flessibile, aperta alle innovazioni e insieme attenta ai propri equilibri; se è vero che il cinema oggi si trova di fronte a una sfida decisiva, che lo spinge verso nuovi territori e nuove forme di esistenza, è anche vero che è come se esso vi fosse preparato da tempo”.
D’altronde, anche il regista francese Robert Bresson, le cui parole assumono oggi connotati profetici, sosteneva:” Cinema must evolve, it can’t permanently remain as it is”. E se di fronte a tutto questo, neanche un gigante della New Hollywood come Francis Ford Coppola si è tirato indietro, qualcosa dovrà pur significare.
Megalopolis (2024), lisergica odissea retro-futuristica, è la presa di coscienza di un vecchio maestro a confronto con l’impossibilità del cinema di riprodurre il reale. Uno stretto dialogo, quindi, con le nuove forme del contemporaneo, ma anche con l’essenza delle immagini di oggi. Un contenitore di archetipi del cinema di Coppola, di dati che sembrano essere stati rielaborati e montati insieme da un’intelligenza artificiale.
All'astrattezza del digitale - a questa incapacità di comprendere l’effettiva esistenza di qualcosa che viva oltre le immagini che creiamo, e che sostituiamo al reale - Coppola contrappone la speranza. La speranza che lui riversa sul cinema come strumento di unione. Questa prospettiva è, invece, quasi opposta a quella dell’ultimo film di un altro grande maestro: The Shrouds (2024) di David Cronenberg. Il protagonista, Karsh, nel tentativo di elaborare il lutto della moglie, si circonda di schermi, immagini, volti - la sorella della moglie, interpretata dalla stessa attrice - che la ricordano. Come Cronenberg stesso afferma: “I film non salvano dal dolore”, Karsh - alter-ego del regista canadese - cade rassegnato nella moltitudine di copie, patine, doppi, che lui stesso ha creato. Un punto di vista divergente rispetto alla visione del collega Coppola. Con Megalopolis oltre a metterci a conoscenza delle problematiche che derivano dalla digitalizzazione, Coppola ci propone anche una soluzione, una concezione più ottimista. In The Shrouds si percepisce una castrazione di un’ipotetica risoluzione, che lascia più interrogativi. Due modi di porsi in dialettica con la contemporaneità antitetici tra loro, ma similmente stimolanti.
Per concludere, imporre dei paletti al cinema - o alla propria idea di cinema, a ciò che interessa o meno - denota una scarsa fiducia verso esso; e chiunque pensi che il cinema sia “altro” finirà, in qualche modo, per ricredersi.
Albert Serra, Harmony Korine, Francis Ford Coppola, David Cronenberg, sono solo alcuni dei registi che stanno venendo a patti con l’assodato assorbimento da parte del cinema di altri linguaggi - e con la dissoluzione delle distinzioni tra i media. A questi si aggiungono anche Jonathan Glazer, Bertrand Bonello, Radu Jude, e tanti altri ancora.
È, dunque, impossibile opporre resistenza ad un movimento intrinseco presente fin dalla nascita, e che, di certo, non cesserà proprio adesso.
“Cambia la parola cinema e cambierà tutto, lentamente ma cambierà. Non è facile ma penso che non sia impossibile. [...] Immagine in movimento, schermo, qualunque cosa ma non usare mai la parola cinema.
[...] Non dobbiamo discutere della morte del cinema perché non facciamo più parte del cinema. [...] A loro date cinema, a noi arte”.1
Albert Serra
“Come sarebbe uno Stato unico europeo?”
Il neo-eletto presidente americano Donald Trump minaccia ormai da tempo di imporre nuovi dazi sull’Unione Europea e di uscire dalla NATO, oltre ad interferire politicamente con i singoli paesi europei grazie ai potenti strumenti posseduti da Elon Musk. Questa nuova ostilità americana nei confronti dell’Europa apre le porte a una possibile rottura dell’alleanza atlantica, che fino a poco tempo fa sembrava inestirpabile.
In caso di completo distaccamento dagli USA, per l’Europa ci sono diversi scenari: quello più plausibile vedrebbe l’Unione Europea rimanere esattamente così com’è, cioè un organo di regolamentazione e controllo che lascia la sovranità ai singoli membri pur vincolandoli su alcuni aspetti; uno scenario più drastico potrebbe invece risultare nel disfacimento dell’Unione Europea, con ogni Stato che agisce singolarmente per conto proprio; oppure, in uno scenario più distopico, gli stati membri potrebbero decidere di unirsi in un vero e proprio Stato unico europeo.
Uno Stato unico europeo sembra l’unica soluzione per un’Europa che, a causa della sua burocrazia e frammentazione, è destinata sempre di più a essere irrilevante nel prossimo ordine mondiale, fino a essere schiacciata dallo scontro tra USA e Cina. Perciò c’è la necessità di un cambiamento radicale che possa affermare l’Europa come potenza a sé stante, indipendente dagli USA, e che possa agire secondo i propri interessi.
Ma come sarebbe uno Stato unico europeo?
Entrando nella fantapolitica, uno Stato unico europeo comprenderebbe sicuramente meno membri rispetto all’attuale Unione Europea. Infatti, ad unirsi in un’unica nazione sarebbero solo i paesi più influenti, quindi Francia, Germania, Italia e Spagna, i quali potrebbero aprire le porte anche a paesi come il Belgio, i Paesi Bassi o il Portogallo, tutti paesi che hanno assunto un ruolo centrale nella fondazione dell’UE e che quindi condividono un forte sentimento europeo. Dunque, si passerebbe dai 27 stati membri dell’attuale UE a un massimo di 7 o 8 per il nuovo ipotetico Stato europeo. La riduzione drastica dei membri è necessaria in quanto attualmente l’UE è caratterizzata da paesi molto diversi tra loro e a volte anche in competizione tra loro. In particolare, i paesi dei Balcani e del Mar Baltico, i quali oggi fanno parte dell’Unione Europea, alimenterebbero ulteriormente l’instabilità politica e le differenze culturali già presenti in un’eventuale unione tra Francia, Germania, Italia e Spagna. Infatti, la difficoltà nella realizzazione di uno Stato unico europeo non consiste tanto nell’organizzazione della politica e delle istituzioni quanto nella creazione di un’identità europea, in modo che un tedesco possa accettare che le sue tasse vengano investite in Italia, o che uno spagnolo possa partire a combattere per difendere il territorio francese, e viceversa.
Superate le differenze culturali, l’Europa potrebbe trasformarsi in una sorta di “Stati Uniti d’Europa”, passando da confederazione a federazione, passaggio che consentirebbe comunque alle singole istituzioni locali di mantenere una buona parte del potere. Quindi, prendendo come modello gli Stati Uniti d’America, ci sarebbe un’autorità a livello locale, che agisce nei campi dell’istruzione, della sanità, dell’ordine pubblico e delle infrastrutture; e un’autorità a livello federale che si occuperebbe di difesa, politica estera ed economia. Ma le differenze di lingua, cultura e storia sono ciò che impediscono all’Europa di unirsi in una federazione sul modello statunitense, il quale comprende stati di stessa lingua, stessa cultura e stessa storia, rendendo possibile un’identità americana.
Ma la diversità dei paesi europei potrebbe diventare un fattore positivo se sfruttato adeguatamente. Uno Stato unico europeo, infatti, avrebbe la possibilità di diventare la prima nazione ufficialmente poliglotta, grazie alla realizzazione di un sistema scolastico unico basato sullo studio delle lingue europee, abbattendo la barriera linguistica non con l’istituzione di una singola lingua ufficiale ma bensì istruendo la popolazione a
poter comunicare in più lingue. A questo programma scolastico potrebbe essere aggiunto un servizio di scambio culturale tra paesi, che permetterebbe agli studenti europei di conoscere e approfondire le culture degli altri paesi europei, rafforzando l’unione tra i popoli degli Stati membri.
Oltre all’istruzione, una nuova federazione europea dovrebbe puntare a rafforzare i principi dell’UE, cioè la coesione economica, territoriale e sociale tra i paesi, che da sempre sono identificativi dell’Unione Europea. Per di più, ci sarebbe l’occasione di affermare l’Europa come culla della civiltà, promotrice della democrazia, dei diritti civili e della società aperta, utilizzando questi valori come fondamenti per un’identità europea. Già con la realizzazione stessa di uno Stato unico europeo l’Europa sarebbe pioniera in questo, in quanto si assisterebbe al primo caso di una nazione nata in queste condizioni, senza essere passata per rivoluzioni, guerre o eventi traumatici ma solo per diplomazia e accordi tra Stati.
L’idea degli “Stati Uniti d’Europa” circola già dalla seconda metà del 1800, grazie a figure come Victor Hugo (il quale fu il primo a coniarne il termine stesso), Giuseppe Garibaldi e John Stuart Mill. Ma il concetto di un’Europa unita iniziò a prendere seriamente piede dopo le due tragiche guerre mondiali del ‘900, che grazie a promotori come Winston Churchill e Charles de Gaulle si concretizzò prima nel 1957 con la nascita della Comunità Economica Europea (CEE) e poi, a seguito di numerosi trattati e colloqui, nel 1993 con il Trattato di Maastricht che sanciva la nascita dell’Unione Europea (UE).
In questo senso, potremmo considerarci ancora nel mezzo del processo di unificazione dell’Europa, partito nel 1957 e che dovrebbe finire con la creazione degli Stati Uniti d’Europa. Infatti, la nascita dell’attuale Unione Europea fu preceduta da numerosi trattati che sancivano principalmente intese economiche, fino ad arrivare gradualmente a un’unione territoriale con l’Accordo di Schengen, e ancora poi alla creazione di un Parlamento Europeo, di un Consiglio dell’Unione Europea, una Corte di Giustizia Europea e una Banca Centrale Europea. A questo proposito, i primi passi per uno Stato unico europeo potrebbero essere caratterizzati da diversi accordi tra più paesi, proprio come accadde nel secolo scorso, iniziando con singoli trattati fino ad arrivare a decisioni comuni in politica estera. In questo modo si rafforzerebbe in modo graduale un potere europeo, senza necessariamente istituire un nuovo stato, ma creando nell’immediato un’unione che possa agire come singola entità verso un obiettivo comune. E così come fummo i primi a creare un’unione politica ed economica basata sulla pace e sulla democrazia, potremmo essere i primi a creare una federazione multiculturale e multilingue.
Fascismo, fascismo e ancora fascismo. Ne parliamo quotidianamente, ma non tutti ricordiamo il buio periodo in cui è nato: il Biennio Rosso. I socialisti erano portatori di una “buona novella” o anch'essi alimentavano la violenza in Italia? Nelle ultime settimane, gli italiani hanno rivissuto le tensioni del 1919- 1920 con M - Il Figlio del Secolo, una narrazione unilaterale che si è concentrata esclusivamente sulle brutalità squadriste. Tuttavia, come recita il detto "le cose si fanno in due", l'alba del fascismo ha coinciso con un altro capitolo oscuro della nostra storia: il biennio rosso. Di fronte alla miseria dell'Italia post-bellica, moltissimi uomini hanno cercato la soluzione in una rivoluzione armata contro le fabbriche, i borghesi indifesi e un governo fantoccio.
Tutto è iniziato a Bologna nel 1919, durante il congresso socialista, noto per l'adesione all'Internazionale Comunista. Il Partito Socialista è diventato sempre più popolare, in particolare nelle zone industriali del Nord Italia. Era arrivato il momento di agire per costruire una nazione proletaria, ma come? Si sono confrontate tre mozioni, presentate rispettivamente dal capo dei massimalisti Giacinto Menotti Serrati, da Costantino Lazzari e Amedeo Bordiga. Unanimemente, tutti hanno ritenuto che democrazia e socialismo fossero incompatibili, e quasi tutti hanno concordato nel seguire il modello sovietico. I riformisti di Turati, che sostenevano un cambiamento senza rivoluzione, sono stati espulsi dal partito. Turati non credeva nell'azione diretta, nell'assalto al Palazzo d'Inverno all'italiana, ma in una graduale conquista dei poteri pubblici. La risposta di un esponente massimalista a Turati è stata: "Voi siete fuori dai vostri tempi, siete fuori dalla realtà". A seguito di una votazione, è stato deciso che la violenza sarebbe stata il mezzo dei socialisti.
Da quel momento, tutti dovevano ribellarsi al padrone, anche chi non lo voleva. In Emilia-Romagna, la classe operaia, in particolare nel Parmense e nel Ferrarese, ha preso il controllo di alcuni comuni. Il sindaco non aveva più voce in capitolo; a comandare c'erano le leghe rosse. Se qualcuno non era d'accordo, nei migliori dei casi veniva mandato in esilio o veniva privato del diritto di avere rapporti sociali con la comunità, e costretto, quindi, ad abbandonare la propria casa. Le vittime principali sono stati i contadini, che lavoravano ogni giorno per sfamare le proprie famiglie, un "crimine" imperdonabile per la lega locale. Quando i contadini non aderivano a uno sciopero, ovvero si comportavano da "crumiri col padrone", venivano marchiati sulla mano dai socialisti. Nei giorni seguenti, i socialisti tornavano a controllare il marchio per verificare se fosse intatto o meno, così da accertarsi che avessero lavorato e obbedito agli ordini; nel caso contrario, venivano picchiati duramente. Frequenti erano anche le violenze contro i veterani della Grande Guerra. Un esempio è quello di un ex-soldato venticinquenne, zoppo e con il braccio fasciato, che si diresse verso un servizio della Misericordia a Firenze per ricevere aiuto. Alcuni socialisti lo videro e gli gridarono: "Assassino, infame!". Gli saltarono addosso, lo presero a cazzotti, lo riempirono di sputi e gli infilano le mostrine in bocca.
La vittima più conosciuta del biennio rosso è stato Giovanni Berta. Il suo omicidio è stato l'anticamera della guerra civile tra fascisti e comunisti a Firenze. Giovanni, detto "Gianni", stava camminando sull'odierno Ponte alla Vittoria sull'Arno. Un gruppo di socialisti lo accerchiò e gli pose una domanda: "Sei fascista?" Lui confermò senza esitazione, e immediatamente lo travolsero con violente percosse, comprese sprangate. Gli spezzarono le dita con le scarpe e lo colpirono alla testa con un oggetto di ferro. Solo alla fine lo gettarono nell'Arno. Non morì per la sua incapacità a nuotare, poiché era stato in Marina per anni e l'acqua non era profonda, ma per una perdita di sensi. Sono passati centoquattro anni e i colpevoli sono ancora sconosciuti. Un canto dell'epoca recitava: «Hanno ammazzato Giovanni Berta, figlio di pescecani, viva quel comunista che gli pestò le mani!»
In conclusione, è importante domandarsi: tutti quanti hanno fatto i conti con la storia? L'uomo ha sempre il bisogno di identificare una fazione come profondamente vittima e l'altra come profondamente carnefice, quando le guerre si combattono con gli stessi mezzi. L'Italia guarda al Novecento come un’obbligatoria presa
di posizione, "Tu da che parte stai?", e non come un periodo storico. Questa lotta alle ideologie ci ha fatto solo allontanare dalla verità dei fatti e di conseguenza all'ignoranza nei confronti dei più grandi retroscena che hanno portato il nostro paese alle tragedie che conosciamo. Avremo mai uno Scurati che criticherà il Biennio Rosso, le brutalità delle Leghe Rosse e il loro sogno della dittatura del proletariato?
“L’uomo è nato per soffrire, come le scintille per volare verso l’alto”, troviamo scritto nel libro di Giobbe. Nonostante il nostro naturale istinto umano ci porti a fuggire il dolore, la sofferenza esercita un fascino potente, al punto da spingerci persino a celebrarla. Da sempre desideriamo comprenderla, indagarla, rappresentarla: il tragico occupa un ruolo cruciale nella filosofia, nell’arte, nella letteratura – in definitiva, nella nostra esistenza.
Ma cosa rende il fenomeno tragico così potente e calamitante? È possibile che non si limiti a essere un riflesso della sofferenza, ma parli alle dimensioni più profonde del nostro essere, offrendoci una comprensione più ampia dell’esistenza? Attraverso il pensiero di alcuni filosofi, cercheremo di rispondere a questa domanda.
Quando pensiamo alla tragedia, il pensiero corre immediatamente alla Grecia e al teatro: la tragedia nacque come omaggio a Dionisio, celebrato con danze, canti e feste. Furono proprio i Greci i primi a intuire che rappresentare il dolore potesse diventare un mezzo per comprendere la vita stessa. Secondo Aristotele, la tragedia purifica l’anima, suscitando pietà e terrore. La sua funzione catartica permetteva agli spettatori di confrontarsi con le proprie emozioni attraverso la rappresentazione scenica del dolore.
Per gli antichi, tuttavia, il tragico non si limitava a un’esperienza emotiva. Nei personaggi di Eschilo e Sofocle, la sofferenza era sempre legata a un ordine cosmico e mai ingiustificata. Edipo, ad esempio, lotta contro un fato ineluttabile, cercando invano di sfuggire alla profezia. In questo contesto, il dolore umano diventa uno strumento per ristabilire la giustizia universale. La tragedia non si riduce a una punizione, ma diventa una lente per comprendere la grandezza della vita umana e il suo legame profondo con il destino.
Con Nietzsche, il tragico non è più solo un mezzo, ma diventa un inno alla vita stessa. La tragedia greca, che fonde l’apollineo (ordine e razionalità) e il dionisiaco (caos e istintività), rivela la bellezza del vivere anche nel dolore. “Ciò che non mi uccide mi rende più forte”, affermava Nietzsche – e, con ironia, anche Kelly Clarkson nel brano Stronger (What Doesn't Kill You). L’invito è chiaro: non temere il tragico, ma abbracciarlo come parte integrante dell’esistenza. Il dolore non è un nemico; accettarlo significa arricchire la vita.
Dolore come parte della condizione umana o strumento per affrontare l’assurdo? Camus, nel solco dell’esistenzialismo, paragona la condizione umana al mito di Sisifo, condannato a spingere un masso fino alla cima di una montagna, solo per vederlo rotolare di nuovo a valle. Eppure, la ribellione contro l’assurdo diventa il senso della sua esistenza: “Dobbiamo immaginare Sisifo felice”.
Kierkegaard, dal canto suo, vede nel dolore un’opportunità per raggiungere l’autenticità. L’angoscia, scrive, è la “vertigine della libertà” – un campanello d’allarme che ci spinge verso una relazione più profonda e vera con noi stessi e con l’assoluto. Affrontare il dolore diventa così un passaggio necessario per scoprire la nostra vera essenza.
Possiamo spingerci fino a dire che la consapevolezza del dolore e della morte sia un mezzo per vivere in modo autentico? Questa è la prospettiva di Heidegger, che con il concetto di Essere-per-la-morte invita l’uomo a confrontarsi con la propria finitezza, trasformando il limite in una condizione per apprezzare pienamente la vita.
Levinas, infine, riprende un elemento della tragedia greca: il confronto con il dolore altrui. Il volto sofferente dell’altro – o la sua rappresentazione scenica – ci interpella, ci costringe a confrontarci con la nostra responsabilità etica. Il tragico, così, si sposta dalla dimensione individuale a quella collettiva, richiamandoci a una maggiore umanità nell’accogliere la sofferenza altrui.
Torniamo alla domanda iniziale: cosa ci attrae della sofferenza? Probabilmente, ciò che riguarda noi stessi e la vita. La sofferenza ci invita a esplorare il mistero dell’esistenza, senza ridursi a una semplice celebrazione del dolore, ma aprendoci alla totalità della realtà. Anche nei momenti più bui, il fascino del tragico ci ricorda che
c’è spazio per la verità, la bellezza e qualcosa di altro. “Bisogna avere il caos dentro di sé per generare una stella danzante”, scriveva Nietzsche.
L’ombra è un elemento tanto scontato quanto essenziale, analizzando la relazione tra architettura e uomo, risulta ponte tra il tangibile e l’immateriale, connessione tra ciò che percepiamo e ciò che immaginiamo. Questa, relegata spesso ad elemento secondario, riesce invece a cambiare la percezione dello spazio e mutando con il naturale scorrere del tempo, influenza notevolmente chi in primis vive l’esperienza di un luogo.
L’ombra viene qui “chiamata a giudizio”, spogliata dei suoi significati più profondi e insiti, per indagarne i molteplici ruoli. Essa è garante della presenza della materia, elemento naturale e profondamente legato alla sfera umana, significando dualmente rifugio e limite.
Nel linguaggio comune e nei miti antichi, l’ombra rappresenta il limite tra il mondo reale e quello immaginario, una dimensione intermedia che accende domande sull’identità dello spazio. La proiezione oscura come, fenomeno ottico, simbolo culturale e strumento architettonico.
L’ombra nell’architettura è intesa come rifugio; lo dimostra il caso studio della maidan tent, una semplice tenda appunto, concepita da un team di architetti, psicologi e antropologi per chi scappa dalla propria terra, una prima spiaggia a cui arenare, la maidan tent risponde ai due primi richiami d’aiuto: la protezione dal sole, uno spazio quindi ombroso in cui riposare e un luogo in cui ricreare comunità e riformare un sistema di collettività sociale.
Il concetto della proiezione dell’ombra è qualcosa di estremamente politico, l’ombra difatti non è effettivamente regolamentata, risulta essere accidentale, civica e generalmente gratuita, il riparo dal sole è una risorsa pubblica, uno dei pochi spazi davvero democratici che ci sono rimasti.
Lo spazio oscuro ha una faccia della medaglia più inquieta, si presenta come un ambiente volutamente indefinito o parzialmente illuminato, che lascia molto all’immaginazione di chi lo abita. In questo modo, viene destabilizzata la percezione del luogo, generando un senso di vulnerabilità e insicurezza. L'oscurità, lungi dall’essere un semplice vuoto, si arricchisce di significati e percezioni sottili, portando alla superficie aspetti psicologici profondi e creando tensione tra ciò che è visibile e ciò che rimane nascosto. L’ ombra diventa una metafora e uno strumento narrativo per l'architettura: non è solo assenza di luce, ma un mezzo attraverso cui si può comunicare e manipolare l’esperienza dello spazio.
Questi ambienti non convenzionali e ambigui mettono anche in discussione le gerarchie e le strutture di potere tradizionali. Creare spazi perturbanti significa uscire dai confini dell’ordine architettonico convenzionale, che spesso riflette strutture sociali rigide e gerarchiche. L'architettura perturbante diventa così una forma di resistenza a schemi di potere dominanti, capace di sfidare l’ordine prestabilito e proporre nuovi modi di intendere lo spazio e la relazione con esso.
In un contesto urbano, l’architettura moderna tende a progettare spazi sempre più controllati e sicuri, illuminati in modo strategico per favorire la sorveglianza continua, nasce così il concetto di trasparenza universale che da il via a quella che conosciamo come politica della sorveglianza. Questo al fine di contrastare quelli che sono spazi oscuri, dove invece, la visibilità è ridotta, questi possono rappresentare un’opposizione silenziosa a questo controllo pervasivo, offrendo luoghi in cui si può sfuggire alla visibilità costante. La presenza di questi spazi negli ambienti urbani ricorda quanto sia necessario preservare aree in cui la libertà personale non sia del tutto
condizionata dalla sorveglianza. Possiamo affermare quindi che gli spazi oscuri diventano spesso anche simbolo di esclusione sociale e segregazione
L’ombra quindi, capace di intrecciare diverse dimensioni multidisciplinari, si propone da elemento naturale a fondamentale componente architettonica, chiave di lettura per interpretare lo spazio e l’esperienza umana; da sempre compagna e nemesi della luce, emerge come protagonista, capace di dare significato allo spazio e alle relazioni umane, la quale, nel corso del tempo si è fatta veicolo di monumentalità e rifugio, di mistero e chiarezza. In architettura l’ombra si propone come linguaggio, raccontando la mutevolezza del tempo, disegnando volumi e superfici, invitando chi vive lo spazio ad immergersi in una esperienza fisica e sensoriale, progettarla significa facilitare e ascoltare la presenza della natura e accogliere il lato umano all’interno dello spazio costruito, con l’obbiettivo ultimo di rendere uno spazio non solo vivibile, ma vivo.
Per molto tempo si è creduto che le foto potessero catturare l’anima delle persone e dei luoghi immortalati. Nel suo ultimo album, uscito il 5 gennaio, Bad Bunny si trova nella posizione di un uomo ormai adulto, che si rende conto che, proprio di quelle foto, non ne ha scattate abbastanza. Quello che può fare è usare la memoria e la musica per cercare di tracciare un ritratto più nitido possibile delle atmosfere e delle emozioni che si respiravano nel suo paese, il Portorico, diventato inaspettatamente troppo diverso da quello che l’artista ha vissuto negli anni della sua crescita. La stessa cosa avviene a livello musicale. Infatti, definire questo un disco Reggaetón solo perché è un lavoro di bad Bunny risulta estremamente riduttivo; la musica è un fondamento imprescindibile della cultura portoricana e sudamericana in generale, e quello che Bad Bunny ha cercato di fare è stato riportarne alla luce le radici e le esigenze che ne hanno permesso la nascita. Un’operazione di puro affetto e gratitudine, che restituisce a un genere proprio quell’anima che anni di commercializzazione sfrenata gli avevano tolto quasi completamente. In Debí Tirar Más Fotos, Bad Bunny compie un viaggio emozionale e ritmico, spaziando dall’antenato diretto del Reggaetón, il genere Dancehall, in tracce come Perfumito Nuevo e El Clúb, per poi proporre la Rumba di Pitorro de Coco, fino ad arrivare alla title track, che porta al grande pubblico, con una vitalità quasi immediata sui social, il ritmo caratteristico della musica folk portoricana, la Plena. I sintetizzatori eterei che ricorrono in varie occasioni offrono un respiro molto più ampio rispetto a ciò che stava diventando mera musica da discoteca plasticata, mentre le coinvolgenti parti corali in tracce come DTMF e La Mudanza portano in primo piano la condivisione alla base della musica ispano-americana, le conversazioni infinite tra amici e familiari sulle iconiche sedie di plastica della copertina, la fusione delle proprie emozioni, belle o brutte che siano, con quelle altrui, attraverso il ballo e il canto, per poterne gioire insieme o aiutarsi a vicenda a superarle. A questi momenti si alternano anche stralci di grande intimità come in Turista e Bokete, e anche brani Reggaetón più classici. Le criticità dell’album sono veramente poche, e si potrebbero ridurre a testi che in alcune tracce cadono nel banale rispetto alla profondità di quello che vi sta attorno e una ripetitività, anche se minima, forse dovuta alla lunghezza della tracklist. A parte questo, Debí Tirar Más Fotos ne esce come un album che è sì versatile e perfettamente rivolto al grande pubblico, ma che non considera quest’ultimo una massa indefinita da imboccare con contenuti che siano il più neutri possibile; si crea uno scambio con l’artista, che consegna alle persone uno spaccato importante della sua vita, e da loro anche la possibilità di poter scoprire culture, musicali e non, con cui magari non sarebbero mai venute a contatto, almeno non con questa autenticità.
“It’s the destination, not the journey”
Intenso, toccante e profondamente realista, così si presenta “The Brutalist”, l’ultima opera del giovane regista Brady Corbet arrivata in sala il 6 febbraio 2025.
“The Brutalist” riporta il cinema al suo ruolo primario: raccontare una grande storia. La storia saggiamente ricamata dalle mani dello stesso regista e dalla sua compagna, Mona Fastvold, è un’epopea tragica composta da dolore, ambizione, amore e riscatto. La pellicola si apre con la sua immagine simbolo: la Statua della Libertà rovesciata. Essa ci anticipa una prospettiva distorta della realtà e del cliché del sogno americano. Con un lungo piano sequenza “brutale” il regista, ci spinge all’interno della vita di un uomo disorientato, che ha perso tutto; senza preamboli veniamo avvolti nel suo mondo fatto di ombre, di arte e di sofferenze nascoste sottopelle.
Chi abbiamo davanti è l’architetto ebreo-ungherese László Tóth, (Adrien Brody) che negli anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale dopo essere sopravvissuto all’olocausto, emigra negli Stati Uniti con sua moglie Erzsébet (Felicity Jones), sperando di ricominciare da zero.
László porta con sé una visione architettonica audace e rivoluzionaria, ispirata al movimento brutalista.
Quando un influente e misterioso mecenate americano (Guy Pearce) gli offre un incarico di grande portata, László crede di aver finalmente trovato il suo posto nel Nuovo Mondo. Tuttavia, il sogno americano si rivela ben presto un incubo: il compromesso tra arte e potere, le pressioni economiche e le tensioni personali mettono a dura prova il suo spirito creativo e il suo matrimonio.
Ma che cos’è l’arte brutalista?
Il nome brutalismo fu coniato dallo storico dell’architettura Reyner Banham e deriva dal béton brut, ovvero il cemento a vista, materiale utilizzato per la prima volta nel 1950 nell’Unitè d’Habitation di Le Corbusier a Marsiglia, progetto residenziale diventato vero e proprio simbolo del brutalismo.
Questo stile architettonico si basa infatti sulla funzionalità e non sull’estetica dell’edificio: per questo vengono utilizzati materiali industriali e grezzi, specialmente il cemento a vista, e forme imponenti e massicce.
Gli edifici in stile brutalista, oltre alle caratteristiche appena citate, si riconoscono per la chiarezza formale della struttura e per le piccole aperture in relazione alle altre parti che li compongono.
Nel film “The Brutalist”, l’arte brutalista non è solo un’estetica architettonica, ma un simbolo della condizione esistenziale del protagonista.
Il brutalismo, con le sue forme massicce, il cemento grezzo e la sua funzione sociale, diventa una metafora delle difficoltà, delle ambizioni e delle disillusioni vissute dall’architetto. Egli, come il movimento brutalista, è mosso da un ideale di funzionalità e di resistenza, ma si scontra con un mondo che preferisce il compromesso e il potere al rigore e all’integrità.
La sua architettura è il riflesso del suo stesso spirito: austera, monolitica, improntata a un’idea di bellezza che non cerca di essere accattivante, ma autentica. Anche la regia riflette l’essenza del brutalismo: le inquadrature spesso rigide e geometriche, i colori freddi e le strutture imponenti contribuiscono a creare un senso di oppressione e solennità. L’uso della luce e delle ombre esalta le superfici ruvide, richiamando l’effetto materico del cemento a vista.
In definitiva, “The Brutalist” utilizza l’arte non solo come ambientazione, ma come linguaggio visivo e tematico per raccontare una storia di lotta, idealismo e disincanto. Brady Corbet riesce a coinvolgerci e a farci restare senza fiato anche grazie all’uso di una colonna sonora studiata nei minimi dettagli: caratterizzata da sonorità sottili e talvolta dissonanti, aiuta a trasmettere il senso di solitudine e di alienazione che permea la vita dei protagonisti. Le melodie, lunghe e ripetitive, sembrano rispecchiare lo stato d’animo dei personaggi, in un gioco di riflessi tra suoni e immagini.
Le tracce sonore non sono mai invasive, ma piuttosto si fondono con il paesaggio visivo, creando un’atmosfera densa di tensione latente, permettendo così anche ai silenzi di avere un peso narrativo.
In un mondo in cui il cemento può essere tanto solido quanto fragile, “The Brutalist” ci
lascia con un interrogativo potente: l’arte può davvero resistere all’erosione del tempo, del potere e del compromesso? Mentre le imponenti strutture di László Tòth si stagliano contro il cielo, ciò che resta non è solo il suo lavoro, ma il peso ineluttabile delle scelte che lo hanno costruito.
Se si pensa a fuorilegge, a duelli e in generale, al selvaggio west in ambito cinematografico, non si può non nominare quello che forse ne è nel tempo divenuto il padre assoluto: il regista romano Sergio Leone. Cimentandosi più volte nel genere ed ispirandosi a principi cari ad Akira Kurosawa come la giustizia, la moralità, la concezione del paesaggio come elemento narrativo e, soprattutto, la crescente tensione prima e durante gli epici duelli, Leone arriva a partorire quello che, ad oggi, è considerabile il western più iconico di tutti i tempi: "Il buono, il brutto e il cattivo". Nonostante tale opera preceda l'altrettanto acclamato "C'era una volta il west", riesce a distinguersi per le immortali performance di Clint Eastwood, Eli Wallach e Lee Van Cleef (rispettivamente il buono, il brutto e il cattivo) ma anche, e forse soprattutto, per la magistrale colonna sonora del maestro Ennio Morricone. L’eccezionale compositore, anch'egli romano, riesce con la sua "The Ecstasy of Gold" ad esaltare la scena della disperata ricerca del bottino di uno dei tre protagonisti, quasi quanto l'epico duello a tre che precede. Ciò che meglio rappresenta la spina dorsale del film è sicuramente il rifiuto da parte del regista di usare il classico schema narrativo del "viaggio dell'eroe": qui Clint Eastwood non impara, non perde mai lo stoicismo e l'egoismo che lo contraddistinguono ed esce immutato da una devastante guerra civile che, anzi, preferirà in parte indirizzare e modellare attraverso le sue imprese. Proprio raccontando la guerra civile Leone si dimostra cinico e, per quanto possibile, realista, evitando di idealizzare un fatto storico drammatico e anzi marcando la mancanza di generosità e di umanità di coloro che vi hanno preso parte, riuscendo così ad innalzare un racconto come tanti del selvaggio west, ad una vera e propria fotografia della spietatezza del conflitto che fa da cornice più che cruda alla storia principale.
L'importanza e la solennità del film sono date poi dall'analisi che lo stesso offre di temi come la morte, la redenzione e il tradimento: ogni personaggio ha e dimostra convinzioni ferree alla base di ogni suo comportamento, che spesso lo spingono ad infrangere quelle regole non scritte e quella morale caratteristiche di un periodo storico contraddistinto in gran parte dall'anarchia assoluta; le ideologie di ogni uomo e donna di cui si narra, si intrecciano inevitabilmente tra loro, portando ad una serie di scontri non sempre corretti e spesso conditi da uno straordinario uso della violenza da parte del regista, capace di tenere lo spettatore incollato allo schermo e di renderlo sostenitore del personaggio in cui più si ritrova.
Definito ormai come punta di diamante della trilogia del dollaro e scelto come fonte d'ispirazione da numerosissimi registi quali Quentin Tarantino, Sergio Corbucci e George Lucas, "Il buono, il brutto e il cattivo" rappresenta, ad oggi, la migliore definizione di western della storia del cinema.
“Quaderno proibito”, il titolo di un libro che già decontestualizzato cattura la nostra attenzione, ci chiama, ci induce a prenderlo in mano, a sfogliarlo. Pubblicato nel 1952 e ambientato negli stessi anni, il quaderno proibito è in realtà il diario di Valeria, donna romana di 43 anni madre, moglie e figlia. Questi suoi ruoli sono talmente precisi e radicati in lei che la sua persona sembra ridursi ad essi, non traspare più alcun tratto del suo carattere, della sua femminilità, almeno agli occhi della sua famiglia.
Il diario contiene il racconto di alcuni mesi della sua vita densi di sensazioni, sentimenti e piccole esperienze casalinghe e non.
Una denuncia alla famiglia basata su principi patriarcali, una denuncia che si infila fra le parole, non gridata ma sussurrata, tuttavia chiara e perentoria. No, non leggerete un racconto entusiasmante, se state cercando un libro di avventure questo non è il vostro, ma se deciderete di dargli una chance scoprirete la storia emozionante di una donna “d’altri tempi”, così lontana dalla nostra realtà, eppure così vicina se riuscirete a sbirciare fra le righe. Alba de Céspedes riesce ad incarnare nella sua protagonista tutte le difficoltà, i dubbi, le scelte difficili che una donna si trova a dover affrontare nel corso della sua vita, e nonostante Valeria ci sembri del tutto diversa da noi, ci assomiglia più di quanto crediamo. Con tempi moderni si verificano problemi moderni, ma alcuni dilemmi, alcune questioni morali tipicamente femminili, rimangono oggi le stesse degli anni ‘50, innescate dal sistema patriarcale radicato nella nostra cultura da secoli.
Ogni sfaccettatura dell’essere donna viene esplorata all’interno del “diario”, il rapporto con il marito Michele, un amore che diventa col passare del tempo un’abitudine, quello con il figlio Riccardo, il perenne conflitto con la seconda figlia Mirella, e poi l’essere figlia lei stessa, l’essere amica, l’essere lavoratrice. Traspare la lotta interiore della protagonista fra il senso del dovere e la devozione verso la famiglia e la necessità e la voglia di mettere il suo benessere prima di tutto. Perchè il quaderno è proibito? Perché racchiude al suo interno tutte le verità più profonde e impronunciabili che una donna degli anni ‘50 si portava dentro, verità che solo la scrittura poteva rivelare, i desideri più impuri, i sensi di colpa più affliggenti. È proibito perché rivela l’immagine di una madre, di una moglie diversa da quella che conosce la sua famiglia, che ha dei pensieri che vanno oltre il marito e i figli, ma che si estendono a sé stessa.
Scrivendo, per la prima volta Valeria si sente Valeria, chiamata col suo nome proprio, non con il ruolo che le è stato assegnato.
“Temo che, ammettendo di aver goduto sia pure un breve riposo, uno svago, perderei la fama che possiedo di dedicare ogni attimo del mio tempo alla famiglia”. Le parole limpide dell’autrice riescono a penetrare il lettore e catapultarlo nella vita della protagonista, riescono a dargli i suoi occhi, le sue orecchie, la sua mente. Se siete donne come la sottoscritta vi immedesimerete voi stesse in Valeria, se siete uomini penserete sicuramente a vostra madre o vostra sorella nei suoi panni. Ecco perché lo sentiamo così attuale: perché una donna degli anni ‘50, cresciuta durante la seconda guerra mondiale e durante il regime fascista, ci sembra che ci
rappresenti, che abbia i nostri stessi pensieri e questo ci fa riflettere ma soprattutto ci fa paura. Siamo davvero così lontani, mentalmente e ideologicamente, dagli anni del dopoguerra o in fondo un problema di base resta ancora, dopo tutto questo tempo? Alba de Céspedes scrive un libro che ogni donna, sposata o nubile, madre o senza figli, lavoratrice o non lavoratrice dovrebbe leggere, un libro che ci suggerisce di non dimenticarci mai del nostro inestimabile valore.
Era il 1964 quando la nuova voce rivoluzionaria del folk, Bob Dylan con un’armonica ed una chitarra profetizzava tempi decadenti con la vibrante The Times They Are A-Changin'. Lotte di classe, manifestazioni, conflitti internazionali e corse allo spazio. Gli anni sessanta rappresentano un periodo di enorme cambiamento. Ed è sullo sfondo di una Bruxelles in piena crisi adolescenziale che Michèle, una giovane incerta della sua identità in fuga dalla routine scolastica, inciampa in Paul, un rifugiato polacco. Tra i due nasce un legame istintivo realizzato sulla base di sguardi e conversazioni sul futuro e la libertà. Nello scenario mondiale irrequieto del tempo, come la guerra in Vietnam e le tensioni in Algeria, Michèle è assorbita dalle trasformazioni del paese, tratteggia per noi i timori socio-culturali del cambiamento interno. Il Belgio per tutti gli anni ‘60 è stato teatro di urbanizzazione, tensioni linguistiche franco-fiamminghe e influenze culturali che portarono i giovani a crescere in una costante condizione di ricerca di stabilità emotiva.
La connessione tra individuo e ambiente è l’aspetto principale di una delle opere più interessanti di Chantal Akerman: Ritratto di una ragazza alla fine degli anni '60 a Bruxelles (Portrait d'une jeune fille de la fin des années 60 à Bruxelles).
Mediometraggio televisivo della durata di un’ora, è tratto dalla serie Tous les garçons et les filles de leur âge, nove episodi diretti da nove registi diversi (Claire Denis tra gli altri) che hanno il compito di raccontare l’adolescenza. L’episodio girato da Chantal Akerman nel 1993 destruttura un’epoca, osservandola con un occhio più maturo, quasi trent’anni dopo, con l’impressione di trarre riflessioni sul presente e le crisi di fine secolo.
Chantal Akerman con una camera leggera ricerca da vicino le espressioni, le reazioni e i sentimenti di Michèle. Lunghi piani sequenza si perdono in dialoghi profondi e naturalistici, scivolando in frammentazioni di montaggio per passare da un ambiente all’altro. Assorbita da ciò che rifiuta e ciò che la spaventa, Michèle è plasmata in un disegno psicologico senza mutare troppo sotto l’occhio vigile della macchina da presa, inseguita fino alla fine della sua fuga, quando si ritroverà ugualmente sottomessa ai dogmi della società. Una tensione irrisolta che lascia poco spazio alle speranze della protagonista. Un ritratto autentico di una generazione in bilico tra lo spazio e il tempo.
Basta sbirciare le nuove generazioni per rendersi conto quanto l'opera invecchi tremendamente con una lentezza disarmante. Oltre alle importanti distanze col mondo adulto, c’è un file-rouge che unisce le due epoche: il conflitto israelo-palestinese, già negli anni sessanta simbolo della tirannia dell’invasore e di privazione della libertà. Combattiamo ancora le stesse guerre, per gli stessi ideali, con lo stesso timore e con la stessa voce.
Le giovani generazioni sono state costrette nel tempo ad esprimersi e a denunciare attraverso lo strumento filmico, ponendo domande lecite: in che direzione stiamo andando? Qual è il nostro rapporto con gli altri? Le drastiche domande erano succedute da altrettanto devastanti risposte, se si pensa che nel 1965 un giovanissimo Marco Bellocchio esordisce dietro la macchina da presa con I pugni in tasca, un riflessivo racconto pessimista su un giovane contro le convenzioni sociali, simboleggiando la crisi dei valori tradizionali e il desiderio di un futuro diverso. Quello era un periodo che precedeva infatti un decennio che avrebbe segnato irreversibilmente l’intero paese: gli anni di piombo.
I giovani restano disillusi, senza speranze, nascosti nell’ombra di rugosi corpi flaccidi come la Demi Moore in The Substance (2024). Con la netta differenza che qui non si tratta di paura di invecchiare, ma paura di restare vecchi. Nuove generazioni italiane che devono fronteggiare le pressioni dei vecchi che giudicano con aspettative, in una società dove l’incerta precarietà con un tasso di disoccupazione di circa il 20% è conseguenza diretta di un’instabilità emotiva ed dell’insoddisfazione generale. Oltre il 43% degli Under 35 guadagna meno di mille euro al mese, gli affitti sono alle stelle ed ottenere un mutuo è un’ardua impresa. Un paese in cui ricercare stabilità diventa un viaggio Fantozziano dalle venature pessimistiche e tragicomiche.
Anche le giovani agguerrite speranze che studiano cinema sono schiacciate da un sistema meccanico, impolverato e decrepito. Eppure Da segnalare il lavoro di resistenza, dato che non ne hanno il coraggio distribuzioni o le istituzioni, andrebbero nella lista film come Una Sterminata Domenica (2023) di Alain Parroni o il recente esordio di Edgardo Pistone, Ciao Bambino (2025), Non Credo in Niente (2023) di Alessandro Marzullo e perché no? L’opera economicamente sperimentale Tre Euro e Quaranta (2025), di Antonino Giannotta, sostenuta da un ideale più che da una produzione. Ancora alle prese con giovani protagonisti sbandati e disorientati in un mondo onirico che ha ben poco di tangibile. Un disordine temporale dove, ci piaccia o meno, le lancette continuano a scorrere frettolose.
L’opera ancora attuale di Akerman lascia riflettere quindi su quanto il cinema sia stato ed è uno strumento d’espressione per intere generazioni, per vomitare al mondo chi siamo e chi non vogliamo diventare, anche se con certezza ancora non lo sappiamo. Non dobbiamo sprecarlo.
Frances Ha (2012) è un film diretto da Noah Baumbach, che segue la vita di Frances Halladay (interpretata da Greta Gerwig), una giovane donna che vive a New York alla ricerca del suo posto nel mondo, sia a livello professionale che personale. Tuttavia la sua ricerca è messa a dura prova non appena le incertezze iniziano a influire sulle sue aspirazioni e relazioni. Un elemento centrale che caratterizza l'intera pellicola è il rapporto con la migliore amica, Sophie. Le due condividono un legame molto stretto, ma quando Sophie decide di trasferirsi con il suo nuovo fidanzato, Frances si trova a fare i conti con la realtà e il suo senso di inadeguatezza. Il mondo di Frances Ha rappresenta una realtà oggi comune ma non normalizzata; composta da lotte ed emozioni che ogni spettatore conosce, permettendogli di empatizzare con Frances e di condividere con lei la consapevolezza che il cammino verso la realizzazione personale è tutt’altro che lineare. Il film concentrandosi sulla lotta per la propria affermazione è chiamato a soddisfare un
"requisito" fondamentale: l'autenticità, di cui la pellicola ne è piena. In primis per la realistica rappresentazione dei vent'anni, catturando con sincerità le difficoltà comuni delle persone ordinarie, senza un'idealizzazione di queste. Infatti, Frances è una ragazza come tante altre che non ha ancora trovato la sua direzione, e il film, girando principalmente intorno a questo topic, lo rende simpatizzante per molti giovani adulti che vivono una simile fase di transizione.
Un altro aspetto che contribuisce a rendere il film così realistico è il modo in cui viene caratterizzato il ruolo principale: Frances di fatto si trova agli antipodi rispetto al classico stereotipo della protagonista dei film di "successo" spesso scambiati per film di "crescita personale". Lei è tutto tranne che perfetta, è vulnerabile, ma è proprio la mancanza di perfezione a farci empatizzare con lei.. Potremmo pensare che le scelte cinematografiche non combacino con il contenuto realistico quando in realtà non è così, tutto è perfettamente allineato, a partire dal tono dei personaggi: sottile, che mescola momenti di leggerezza con altri più malinconici. La comicità del film pur essendo presente non è mai eccessiva, fatta di battute contestualizzate in situazioni quotidiane che appaiono quasi ridicole proprio perché sono così realistiche e riconoscibili; È un umorismo che manca di forzature contribuendo a rendere il film maggiormente autentico. L'intero tono intimistico si sposa perfettamente con la scelta estetica del regista di sviluppare il formato in bianco e nero, contribuendo a rendere l'atmosfera maggiormente nostalgica, tuttavia, non si tratta di una scelta stilistica fine a sé stessa, ma piuttosto una scelta perspicace finalizzata a renderla un'opera cinematografica senza tempo, focalizzandosi così sull'emotività piuttosto che sugli aspetti tecnici moderni. Frances ha, come detto prima, è un'opera senza tempo, sempre attuale. Se tu, lettore, non hai ancora trovato il tuo posto nel mondo e pensi che non lo troverai mai o semplicemente se hai bisogno di compagnia allora ti consiglio caldamente questo film. Ti farà sentire coccolato, sussurrandoti che non sei solo, che non ti rincorre proprio nessuno. Sei libero di ritardare.
Una storia su Instagram dura quindici secondi, un video su TikTok qualche minuto, e un episodio di una serie TV al massimo un’ora. Eppure, nel cinema, esistono ancora autori che scelgono consapevolmente uno stile lento e meditativo. Potremmo definirli pazzi o addirittura ingenui, ma spesso sono proprio loro ad aggiudicarsi i premi più prestigiosi nei festival cinematografici di tutto il mondo.
Due sono i principali pregiudizi che il grande pubblico ha nei confronti di questi film. Da un lato, si pensa che siano apprezzati solo dai critici e dai cinefili più colti, relegati alla nicchia dei cosiddetti “film da cineforum”. Dall’altro, si crede che siano una forma di critica sociale nei confronti di un mondo sempre più dominato dalla velocità e dal consumo immediato di contenuti.
Come spesso accade, la verità sta nel mezzo. Ma pensare che un artista investa anni di lavoro, energia e risorse per realizzare un film destinato a una ristretta élite di spettatori significa fermarsi alla superficie e non cogliere il vero valore di questa scelta stilistica.
1)Il cinema lento come scelta artistica
Lo “slow cinema” non nasce come una provocazione intellettuale, bensì come un’esigenza espressiva. Maestri come Andrei Tarkovsky, Chantal Akerman, Béla Tarr e Abbas Kiarostami hanno rivoluzionato il linguaggio cinematografico, utilizzando la lentezza come strumento narrativo.
Questo stile nasce dal desiderio di esplorare la realtà in modo più profondo. Scene dilatate e movimenti lenti permettono una rappresentazione più autentica dell’esistenza, creando un senso di immersione che avvicina lo spettatore ai personaggi e ai loro stati d’animo. Più tempo si trascorre con un protagonista, più diventa naturale entrare in empatia con lui.
Ma il cinema lento non è solo introspezione: è anche estetica. Nei festival cinematografici, la bellezza visiva è un elemento imprescindibile. In questi film, spesso caratterizzati da inquadrature fisse e lunghi piani sequenza, il regista ha il tempo di “dipingere la sua tela”, costruendo con precisione ogni immagine. Due elementi fondamentali in questo processo sono il staging (la disposizione degli attori nello spazio) e il blocking (i loro movimenti all'interno della scena). L’assenza di un montaggio frenetico consente di anare questi aspetti, trasformando ogni inquadratura in un’opera d’arte.
2)La pazienza dello spettatore
Guardare un film lento è un’esperienza che richiede un coinvolgimento diverso rispetto al cinema mainstream. Non è un semplice intrattenimento da consumare distrattamente, ma un’immersione totale che esige pazienza e attenzione. In un’epoca in cui il ritmo della vita è accelerato e tutto è pensato per catturare l’attenzione nel minor tempo possibile, questi film vanno nella direzione opposta: invitano lo spettatore a rallentare, ad abituarsi al silenzio, a osservare i dettagli che normalmente sfuggirebbero.
Eppure, quando ci si lascia trasportare, l’esperienza diventa straordinaria. Come quando si osserva la pioggia cadere fuori dalla finestra o si attende l’alba in silenzio: nella quiete si nasconde una bellezza profonda.
3)Il Cinema Lento Oggi
Lo slow cinema non è un fenomeno del passato: continua a regalare capolavori anche oggi. Un esempio recente è Perfect Days (2023) di Wim Wenders, che ha conquistato pubblico e critica raccontando la routine di un addetto alle pulizie dei bagni pubblici di Tokyo. Un soggetto apparentemente ordinario che, grazie a uno sguardo contemplativo e poetico, riesce a commuovere e coinvolgere.
Anche l’Italia ha abbracciato questa estetica con Vermiglio di Maura Delpero, vincitore del Leone d’Argento a Venezia, capace di immergere lo spettatore nella vita di un piccolo villaggio del Nord Italia con un realismo poetico e ipnotico.
Ma esistono anche film “lenti” che, pur mantenendo questo approccio contemplativo, hanno trovato un ampio pubblico. Pensiamo a Roma (2018) di Alfonso Cuarón, con i suoi lunghi piani sequenza che raccontano un dramma familiare con straordinaria eleganza visiva. Oppure Drive My Car (2021) di Ryūsuke Hamaguchi, che con le sue quasi tre ore di durata e il suo ritmo meditativo ha saputo emozionare e conquistare anche chi non è abituato a questo tipo di cinema.
4)Un’alternativa al cinema mainstream
Il cinema lento non è un rifiuto del cinema commerciale, ma un’alternativa necessaria. Se i blockbuster giocano su velocità, tensione e montaggio frenetico, questi film lavorano invece sulla sospensione e sull’osservazione. Non si tratta di stabilire quale approccio sia migliore, ma di riconoscere il valore di entrambi. Un buon spettatore, infatti, non si nutre solo di azione e adrenalina, ma trova anche nella lentezza una forma di racconto altrettanto potente.
5)Un’esperienza unica
Il cinema lento non è per tutti, ed è giusto così. Ma per chi riesce ad entrarvi in sintonia, ore un’esperienza intensa e profondamente significativa. In un’epoca dominata dal consumo rapido, questi film ci ricordano l’importanza
della pazienza, della contemplazione e della bellezza nascosta nei dettagli del tempo.
Forse, dopo aver guardato uno di questi film, anche noi potremmo accorgerci di quanto sia bello stare fermi ad ascoltare il suono del vento o il rumore delle onde. Perché la lentezza, quando accolta con la giusta sensibilità, può rivelare emozioni che la velocità ci nega.
Candidato a Miglior film straniero agli Oscar 2025, Vermiglio, diretto da Maura Delpero è una storia tutta Italiana ambientata tra il 1944 e il 1945 in un piccolo villaggio del Trentino Alto Adige. I protagonisti fanno parte della classe operaia, poveri ma con una famiglia numerosa da mantenere e incuriositi dall’arrivo di un soldato siciliano, un disertore che romperà gli equilibri monotoni del villaggio. I ritmi del film sono calmi e lenti, proprio come la natura che fa da sfondo a questo racconto che sembra quasi una favola: assistiamo a situazioni e riti comuni come le domeniche in chiesa, le feste paesane e i pasti frugali consumati tutti insieme. Tutti i dialoghi sono dolci e a bassa voce, quasi sussurrati e rigorosamente in dialetto, poiché nei piccoli villaggi con bassi livelli di istruzione l’italiano era ancora percepito come una lingua fantastica e sconosciuta. Al centro del racconto c’è una famiglia dominata da Cesare, pater familias e maestro di scuola che impera austero e severo, ma non in modo tirannico, facendo entrare a pieno lo spettatore nei meccanismi psicologici e gerarchici della famiglia Graziadei. Il film non ha una trama precisa ma fa immergere lo spettatore nella quotidianità paesana narrata anche attraverso gli occhi dei bambini che sono i protagonisti ma anche i narratori degli avvenimenti. La loro realtà li ha privati della leggerezza della loro età, rendendoli, per necessità, precocemente adulti. Ricorrente è la scena della sera, quando i bambini si scambiano dubbi, sogni, desideri e aspirazioni condividendo i letti per mancanza di spazio;
Altro tema centrale è la condizione della donna, esplorata in aspetti diversi dalle tre figlie di Cesare: Flavia, la più piccola, è la prescelta dal padre per continuare gli studi e per questo invidiata da Adele, la mezzana, anche lei assetata di sapere ma frenata dalla situazione economica della famiglia e dagli standard paterni sull’eccellenza. Infine Lucia, la più grande, anche lei sfortunata dal punto di vista scolastico, sperimenta amore, attesa e delusione nella piccola realtà isolata di Vermiglio.
Seguendo lo stesso genere abbiamo un’altra pellicola al femminile che potrebbe concorrere come miglior film internazionale: l’amatissimo C’è Ancora Domani di Paola Cortellesi, uscito nelle sale Americane nel 2024 e quindi possibile candidato per gli Oscar 2025. Altra pellicola che racconta l’Italia del dopoguerra insieme alle sue speranze per il futuro, la voglia di riscatto, ma anche alla povertà e miseria della classe popolare. Qui il tema centrale è l’emancipazione (sia domestica che politica) della donna, contemporaneamente al referendum monarchia/repubblica del 1946. Girata in bianco e nero, mescola la tradizione cinematografica italiana con spezzoni comici appartenenti alla contemporaneità, come la musica pop o le botte subite dal marito che diventano un balletto. La commedia (non presente in Vermiglio) si mescola ad evidenti ispirazioni neorealiste, riproponendo il genere nato proprio nel secondo dopoguerra che espone sul grande schermo la situazione economica e morale della seconda metà degli anni ‘40.
La caratteristica principale del genere è la scelta degli attori non professionisti per recitare le parti secondarie o anche quelle primarie, con lunghe scene all’aperto che servissero anche a mostrare la devastazione bellica. Film come Ladri di Biciclette e Sciuscià (Vittorio De Sica) sono diventati pilastri del cinema italiano solamente grazie alla semplicità delle tecniche di regia ma anche delle storie raccontate: un’Italia pervasa dal desiderio di ricominciare ma incatenata dai ricordi del passato.
I due titoli che parteciperanno agli Oscar hanno già ottenuto molti premi e acclamazioni dalla critica, quindi meritano sicuramente la visione; il cinema Italiano è pieno di nuovi talenti e pellicole interessanti da scoprire, quindi non ci resta che aspettare la notte degli Oscar per sapere se riusciremo a riaffermarci sul panorama cinematografico mondiale.
Apro gli occhi ma sono già sveglio da un po’.
A quest’ora è tutto così silenzioso, così mite, il mondo è ancora immerso in quel torpore denso di sogni, da cui presto tutti saranno svegliati. Silenzio. Potrei sentire i pensieri dei miei compagni di stanza che si rincorrono, che viaggiano lontani nonostante siano lì, vicini a me.
Io ultimamente dormo poco, ma quando finalmente le palpebre si fanno pesanti, e quell’inerzia inspiegabile mi porta con sé, sogno anch’io. E sogno soprattutto il mare. Il mare di Ostia, quello che conoscevo, quello che da ragazzo raggiungevo a giugno, finita la scuola e quello che agognavo per tutto il resto dell’anno.
Il mare è sempre stato la stella polare della mia vita. Mi sentivo come lui, invincibile, infinito, come lui senza una dimora precisa, ma libero di andare ovunque, abbastanza determinato per riuscire ad arrivare lontano ed infrangermi sulle coste.
È questo che più mi fa male della malattia. Mi ha tolto ogni libertà. Sono attaccato a questa maschera d’ossigeno e a questi macchinari, e lo sarò per sempre.
La luce si accende. Un’infermiera ancora assonnata controlla i parametri nel monitor. Nulla è cambiato, tutto è come il giorno precedente, e quello prima ancora, ed è così da due anni.
Come tutti i giorni verrà la mia compagna, forse mia madre, un amico passato lì per caso che decide di venire per ricordare un tempo che è stato e non sarà mai più, poi chiuderò gli occhi di nuovo.
Ecco che arriva Francesca. Che bella che è. Con quegli occhioni grandi e quel sorriso timido nascosto tra i capelli chiari entra nella stanza e la inonda di luce. È questo che mi ha fatto subito innamorare di lei: il sorriso. E anche la semplicità.
Ogni mattino temo di svegliarmi e di non vederla più. No, non per altri effetti dell’incidente. Ho paura che si stanchi di prendersi cura di un uomo che non può più fare né dire niente.
Mi sistema la maschera dell’ossigeno e mi accarezza il viso.
Quanta delicatezza dopo i gesti frettolosi dell’infermiera.
Mi asciuga gli occhi umidi, e mi guarda.
Chissà se ricorda il giorno in cui ci siamo conosciuti, una primavera di dieci anni fa, in una gelateria a Roma, quella vicino Ponte Milvio, e lì ci siamo innamorati.
Dopo l’incidente non credevo che decidesse di rimanermi accanto, io non posso neanche più parlare, dipendente da questa maschera, e lei mi rimane seduta accanto, ancorata tenacemente alla volontà di farmi rimanere in vita.
Questo amore disinteressato, innocente mi commuove e mi spezza il cuore al tempo stesso.
Le vorrei urlare di andarsene, di lasciarmi qui a combattere con i miei demoni e di non permettere che la mia vita riempia di tenebre la sua.
Ma come faccio a dirle tutto questo, io che riesco solo a muovere gli occhi.
Arriva il dottore a rassicurarla, a dirle che le mie condizioni sono stabili, che posso sentirla.
Da quando le hanno comunicato questo, dieci mesi fa, non mi ha mai rivolto la parola.
È una cosa strana. Mia mamma appena l’ha saputo ha iniziato a fare monologhi, a espormi pensieri, a farmi domande pur sapendo bene che io non avrei mai potuto rispondere.
Francesca invece no.
Si era chiusa in un silenzio denso di aspettative, di speranze.
I primi tempi credevo che provasse rabbia, o vergogna, o entrambe.
Solo ora capisco che alle volte, quando la vita va così, non c’è proprio nulla da dire.
E allora lei si siede, e mi guarda.
Non è uno di quegli sguardi vacui, di chi pensa ad altro e guarda l’orologio aspettando il momento opportuno per andarsene.
No, lei mi scruta, mi osserva per capire come sto davvero, come sto dentro.
Tra poco se ne andrà e inizierà la sua giornata, porterà Elia a scuola, andrà a lavoro e tornerà domani, pronta a farsi rompere un altro pezzettino di cuore vedendomi.
E infatti si alza, mi da un ultimo bacio sulla guancia, e attraversa quell’uscio bianco, portando via con sé il calore di un amore che è solido, integro, e lasciandomi in pasto ai miei dubbi, alle mie paure.
Credo che gli altri dormano ancora ma non riesco a vederli e non sento nemmeno le voci dei loro parenti, di chi ancora non si rassegna a vederli come vegetali, a vedere me come un vegetale.
Il nostro reparto è paradossale.
Spesso mi chiedo il perché uomini che conservano solo un anelito di vita, che a volte non hanno la mia stessa fortuna e non riescono nemmeno a muovere gli occhi, siano circondati da una speranza di vivere così prorompente.
Tutti sembrano ricordarci che siamo vivi, ma che ne sanno loro di quale sia la nostra vita?
Che ne sanno loro del freddo che si sente la notte, del fastidio del bip delle macchine, della maschera che stringe e irrita il volto, eppure ci tiene in vita.
Mia madre oggi non è venuta, come biasimarla.
Sono già le sette, un’infermiera sistema la flebo per nutrirmi, accende la tv e se ne va.
Alle nove sulla stanza cala il buio, solo la luce di qualche lampione giù in strada riesce prepotente a penetrare oltre le serrande mezze rotte, e si sente qualche voce lontana, forse ragazzi pronti per una festa, forse due anziani che dopo una passeggiata tornano a casa, forse una famiglia felice pronta per la cena.
E mi addormento così, con l’immagine impressa nella mente di quella che avrebbe potuto essere la mia famiglia, la mia condizione, e invece non è questo che il destino aveva scritto per me.
Mi risveglia un turbinio di voci, apro gli occhi ancora annebbiati dal sonno, e penso di essere arrivato in Paradiso.
La stanza è inondata di luce e intorno a me ci sono un uomo dal camice bianco, Francesca, Elia, mia madre, Vittorio, grande amico e collega, e mia zia.
Se tutta questa gente si è riunita devo essere morto. Sai me la immaginavo peggio la morte. A catechismo ti dicono che devi comportarti bene, altrimenti finisci dritto all’Inferno. Quello però non sembrava il luogo buio e tetro descritto da Dante, ma anche come Paradiso era un po’ deludente. Il Paradiso in un ospedale.
Mi chiamano, apro gli occhi e tutte quelle figure etere e sfocate divengono più vivide, più materiche. Sono ancora vivo, il bip della macchina me lo conferma.
A parlare è mia madre, che con le parole non ha mai fatto fatica:” guarda, guarda cosa siamo riusciti ad ottenere grazie all’aiuto dell’ospedale, guarda, guarda che bel regalo”.
Ora lo vedo, il dottore tiene in mano un piccolo schermo nero.
Mi spiegano che attraverso un sensore ad infrarossi e non so quale altra sperimentale tecnologia potrò avere una voce, e parlare, non più solo con gli occhi.
Sistemate le attrezzature mi chiedono di provare a visualizzare con gli occhi una scritta e questo è il vero dramma.
Erano due anni che pensavo a quante parole avrei voluto dire alla mia famiglia, alle frasi che non avevo mai pronunciato e erano rimaste in sospeso, a creare voragini tra me e loro.
Eppure l’unica cosa che riesco a pensare e che poco dopo il computer dice in modo metallico ad alta voce è “voglio morire”.
L’ilarità generale si spegne dopo questa affermazione e anche io mi pento subito di queste parole che mia madre, Francesca, ma soprattutto mio figlio hanno sentito.
No, non è vero che mi sono pentito.
Diciamo che mi stupisco del coraggio che tutto d’un tratto sento pulsare nelle vene, nella testa, alimentato dal bip assordante delle macchine.
È vero, io volevo morire, e lo voglio ancora.
Voglio morire perché dopo una vita intera da magistrato, pronto in prima linea a smascherare stupratori, assassini, ladri non voglio dipendere da una maschera.
Voglio morire perché ho sempre difeso i diritti degli altri, soprattutto il diritto alla libertà, e ora voglio che anche il mio venga salvaguardato.
Voglio morire perché questa per me non è vita, rilegato su un letto d’ospedale, elemosinando cure, attenzioni, senza però poterne dare nessuna.
I giorni seguenti sono un inferno.
Francesca tace, come sempre, e raramente porta Elia in ospedale, a salutarmi.
Mia mamma piange disperata, e cerca in tutti i modi di dimostrare a quell’unico, sventurato figlio la bellezza della vita, una vita sicuramente diversa, ma non meno valida, non meno dignitosa.
Ogni tanto porta in ospedale don Luigi, un omino basso e sempre allegro, che conosco da sempre poiché era il sacerdote della parrocchia che da ragazzo frequentavo.
Parlo a lungo con lui.
In realtà è don Luigi a fare il suo monologo.
Dopo la disfatta della mia prima prova mi ero infatti rifiutato di continuare ad usare il computer e mi limitavo ad ascoltare, esattamente come prima.
È molto bello ascoltare le parole del don.
Parla spesso di una qualche speranza nuova, di una salvezza piena e gioiosa che aspetta me e chiunque vuole essere salvato.
Parla di un Dio che capisce il valore delle creature ferite, o cadute, perché anch’egli si era fatto uomo.
E poi sorride, di un sorriso che viene da lontano, che viene da un’anima che si sente serena anche in mezzo alla tempesta, di un’anima che aveva sperimentato un amore disinteressato, puro, e ora voleva annunciarne la bellezza.
Sono sempre stato guidato, in tutta la mia vita, da un forte senso di spiritualità, non per un dio in particolare, il faro che ha illuminato i miei passi sono stati i grandi ideali: la giustizia, l’amore, la libertà.
E io don Luigi lo capisco, capisco anche mia madre.
Io stesso se fossi stato dall’altra parte, se fossi stato io lì, in piedi, di fronte al letto di un uomo morto solo per metà, non so se mi sarei arreso all’idea di lasciarlo andare.
Perché chi non lo prova sulla propria pelle non può capire cosa voglia dire vivere morto su un letto, percependo i ritmi di una vita che non potrà mai essere tua ma allo stesso tempo non ti abbandona, tenacemente attaccata a ciò che rimane di un corpo.
La chiamano eutanasia, “bella morte”. Stronzate. La morte non è mai bella, soprattutto se hai vissuto la vita, quella vera, e poi non puoi più farlo e conosci perfettamente il valore di ciò che hai perso.
La morte ora non mi spaventa.
Forse anche per tutti quei discorsi fatti con don Luigi, non che abbia iniziato a credere ad un Aldilà fatto di luce in cui ritroverò tutti coloro a cui ho voluto bene, però la vedo come una porta verso qualcosa di infinito, e di infinitamente straordinario.
Mia madre crede che sia un pazzo, un folle che ora ha perso anche quel briciolo di lucidità testimoniato dagli occhi vispi, e pronti a cogliere tutto quello che era loro concesso.
Invece oggi per la prima volta Francesca mi parla e con un sussurro dice tutto ciò che vorrei sentirmi dire.
Bisbiglia che capisce, comprende, che se potesse mi strapperebbe lei la maschera che ho in viso.
Mi chiede di aspettarla, ovunque andrò dopo la morte mi chiede di rimanere lì, di proteggerla, di proteggere Elia, perché poi un giorno mi raggiungerà.
Ma lei è bellissima, fragile stella senza cielo, e io sono solo una testa senza corpo.
E poi non è così facile, non siamo sposati e lei non potrebbe dare il permesso di staccare i macchinari, oltretutto in Italia, dove situazioni come le mie, decisioni come le mie, vengono ignorate se non giudicate, e l’eutanasia è illegale.
Nonostante questo, sono felice che almeno lei, da sempre capace di guardare oltre, non mi consideri un pazzo, capace solo di portare dolore nelle vite degli altri.
Ci guardiamo, e come sempre accade quando due anime affini si trovano e non si lasciano più, una pace pervade il mio corpo, e sono certo di poter dire anche il suo.
E rimango di nuovo ancorato qui in ospedale, con un peso nel cuore che sembra un macigno.
Immaginando la vita di altri, non potendo vivere la mia.
Chiedendomi come stia mio figlio, come vede le cose, come le sente.
Chiedendomi quanto ancora mia madre resisterà, in quella devozione totalizzante nei confronti dell’unico figlio.
Chiedendomi quanto ancora resisterò io, schiacciato dal peso di una maschera che non voglio mi appartenga più.
Siamo a Donna Olimpia, Monteverde, nel cuore di quello che in “Ragazzi di vita”,
è l’habitat dei protagonisti. É qui che prendono vita e forma i famosi Riccetto, Marcello, Agnolo e tutti gli altri “pischelli”: qui Pasolini li rappresenta e li studia, e al tempo stesso qui li vive. Silvio Parrello, nel romanzo “Er Pecetto”, è uno di loro, uno dei testimoni che ancora può raccontarci in modo vivido e puro la figura di Pier Paolo Pasolini, senza filtri, neppure linguistici, rendendoci ancora più partecipi di quei momenti che abbiamo vissuto sfogliando le pagine del romanzo. Pasolini arriva a Monteverde nel 1954, trasferitosi inizialmente in via Fonteiana, subito quella ricerca sociologica che arriva a noi in veste di romanzo e che ci permette di comprendere, o almeno, di percepire, quella che era la vita di borgata. Silvio ci conferma infatti che, come nel libro, la sua e quella dei suoi amici era una vita fatta di espedienti, di sotterfugi, di difficoltà opprimenti che in un modo o nell’altro, si dovevano schivare.
Ecco, in una realtà come quella, dove la quotidianità di un ragazzino consisteva nell’ingegnarsi faticosamente per racimolare qualche soldo, la generosità di Pasolini non poteva che incantare quei ragazzi, e questo non equivale a dire che essergli amico conveniva per tornaconto, ma, piuttosto, che in quella condizione misera, un aiuto del genere ti lega in modo forte, a maggior ragione se sei un ragazzo.
“Pier Paolo era generoso come pochi, na vorta a mi madre glie lasciò 10 mila lire e mi madre alla vista della banconota a momenti se sturba, lei che ne guadagnava 25 mila ar mese.”
“Ce lasciava nei tasconi della 600 tante de quelle monete, perché sapeva che noi poi se le annavamo a pia.”
Poesie, aneddoti, ricordi che contengono impliciti la stima e l’ammirazione per l’uomo che era Pasolini, per quell’animo ribelle e anticonformista, per la lungimiranza con cui vedeva le cose, per quei gesti di generosità e per il suo essere così estremamente complicato e contemporaneamente così tanto semplice. “Quando giocavamo a pallone ai campetti vicino ai grattacieli o se annavamo a fa er bagno ar Tevere era uno de noi, poi quanno stava da solo ripiombava nella sua malinconia”. “Era amico co tutti, dar politico allo stracciarolo”.
Per questo capiamo che “Ragazzi di vita” non è uno strumento ne’ un documentario, “Ragazzi di vita” è invece l’amore che Pier Paolo Pasolini provava nei confronti di questo mondo, degradato ma vitale, aspro ma ingenuo, genuino.
E alla domanda “Come avete vissuto la pubblicazione del romanzo?” Silvio ci ha risposto:
“Lì per lì male, a esse sinceri i più grandi glie volevano anna a menà, poi però qualcuno s’è accorto che parlava dei problemi nostri e in un certo senso ce aiutava”. Una risposta che forse appare simpatica e goliardica ma che velatamente nasconde un dramma, quello della riconoscenza dovuta al sentirsi finalmente rappresentati, compresi e soprattutto mostrati a un pubblico nazionale, in una Roma in cui la borgata contava meno di zero, e i loro abitanti ancor meno”.
Quindi chi è Siddartha? Con questa domanda il lettore disattento e svogliato potrebbe prorompere, fermo al titolo del libro di Hermann Hesse, il quale s’intitola proprio Siddharta. Der suchende, “il cercatore”, dal tedesco suchen, “cercare”. Cosa potrà mai cercare un ragazzino, principe brahmano di buona famiglia con un futuro limpido davanti a sé? A tali quesiti risponderei nel seguente modo: In tutto il libro 3 cose Siddharta rammenta di aver imparato da giovane, quando abbandonò le mura domestiche per andare a vivere nel bosco con i saggi monaci samani: pensare, aspettare e digiunare. Queste tre abilità a noi “uomini bambini”, come direbbe il protagonista, sembrano banali e provocano un certo riso misto a tenerezza, come a dire: “E’ dunque così facile capire il mondo?”. Tuttavia tramite le suddette facoltà le cose, le persone e le situazioni scorrono naturalmente verso Siddharta. La gente comune si fa dirigere nella vita da desideri e passioni, mentre i cercatori da pensieri e da intuizioni. Siddharta conobbe in giovinezza il Buddha, colui la cui anima era arrivata al termine delle reincarnazioni terrene perché aveva raggiunto la sapienza sulla vita e nonostante ciò ha bisogno di perdersi, necessita di sperimentare il mondo, di cercare nel profondo. Con coraggio lascia l’amico d’infanzia Govinda, che sempre l’aveva seguito, alle predicazioni di Buddha, convinto della sua santità ma ancora più convinto che la saggezza, a differenza del sapere, non si possa insegnare. Così procede per la sua strada : scopre, sbaglia e impara. Aspetta di maturare, aspetta di capire. Quando è sprofondato nell’abisso delle passioni e dei vizi terreni pensa, e con forza abbandona di nuovo tutto e digiuna nel bosco. Al fiume, dal barcaiolo Vasudeva, apprende l’ascolto; la voce del fiume che aveva insegnato quest’arte al barcaiolo ora la insegna a lui perché il mondo è più saggio e più antico di noi. Grazie a suo figlio scopre l’amore che vive come qualcosa che lo allontana dal pensiero, perchè rende irrazionali e ciò lo spinge a compiere azioni che solo un uomo che ama può fare, per poi comprendere che come il Buddha aveva lasciato libero lui di sperimentare la vita allo stesso modo la saggezza da lui accumulata non poteva impedire a suo figlio di commettere i suoi stessi errori, perché la saggezza non la si può apprendere da altri. La realizzazione finale di Siddharta è l’unità, la consapevolezza che tutto è presente e il tempo è un’ illusione, io sono in te e tu sei in me. Vivere significa pensare in ogni istante ed essere consapevoli dell’unità e della totale interconnessione delle cose. Il nirvana è tutto e niente, è ovunque e da nessuna parte e il momento che stiamo vivendo è tutto quello che abbiamo. Ci troviamo davanti un libro che ha tanto da insegnare ancora oggi a ognuno di noi. Qualcuno ora si trova a scegliere l’università, qualcun’altro deve decidere se abbandonare quello sport oppure quella persona, altri ancora sentono di aver sbagliato tutto o di voler ricominciare. A fronte di questo Siddharta risponde semplicemente di respirare, inalare l’istante presente a pieni polmoni, e di prenderci il nostro tempo per sperimentare e, casomai, anche di sbagliare. La lettura fornisce delle “armi” per vivere e sopravvivere a tutti i tipi di vita sociale, validi oggi come un secolo fa : la più semplice ma complessa di tutte è l’ascolto. Ci troviamo sommersi da persone che parlano dovunque poniamo la nostra attenzione, dai social media alla scuola, quando la sera torno a casa sembra di affogare in questo mare di parole. Trovo sia a questo punto che la differenza tra il banale sentire e l’ascolto vero acquisisce un ruolo determinante, provare a capire davvero chi abbiamo davanti fornisce una maggiore presenza mentale e un pensiero critico più ampio che ripara anche da quei discorsi vuoti o disinformati in cui sempre più di frequente può capitare di imbattersi nell’era moderna. In ultima analisi, esattamente come termina il percorso dell’illuminato, la realizzazione mentale dell’unità della materia del mondo può essere assunta come un esercizio per stimolare la propria empatia verso il prossimo. In un mondo, per certi versi, corrotto da individui superficiali e insensibili, avere quella scintilla di compassione che permette di entrare nei panni dell’altro come fossero i propri può davvero fare la differenza per molte persone.
Titoli di testa. Siamo nel 1960 circa, nella stazione di Milano. Su un treno si legge “Bari – Milano” ed echeggia sui fumi dei treni la folla che cammina la tuonante e malinconica “O’ Paese Mio”. Sin dai primi fotogrammi Visconti lascia le prime tracce di una storia senza tempo, intrisa fortemente nelle pagine del nostro passato di Italiani, ma che ancora, su diversa scala, appartiene a molti: l’abbandono della propria terra per la ricerca di un futuro migliore.
Protagonista è la famiglia Parondi, che a seguito della morte del padre, lascia la Lucania per cercare fortuna, raggiungendo il figlio maggiore Vincenzo a Milano.
Visconti racconta la parabola dell’immigrato con una semplicità autentica che quasi rimanda ai motivi veristi verghiani, dipingendo le scene di chiaroscuri tra risate e delusioni, vittorie e sconfitte, sia a livello sociale che nella sfera più intima e individuale dei protagonisti, specialmente di Rocco, nella loro complicata integrazione in quel nuovo universo così diverso dal loro.
E’ difficile parlare di un film vecchio, senza avere un po’ la paura di essere banale o non all’altezza. Ammetto che molte volte alcuni capolavori del secolo scorso li ho seguiti con fatica, complice ormai la nostra totale perdita del senso di attesa, del prendersi i giusti tempi, dell’assaporare i secondi di silenzio nelle scene, anche a causa della maggior parte dei prodotti streaming di adesso.
Ma questa volta invece, qualcosa è cambiato, e forse questo film mi aprirà una nuova prospettiva sul mondo del cinema. Infatti, posso dire che “Rocco e i suoi fratelli” mi è entrato nel cuore, ha catturato la mia attenzione facendomi riscoprire un amore per i dettagli, per le scene che si allungano più di quanto noi siamo abituati a vedere e per i silenzi. Scena per scena, la pellicola risucchia nel corso degli eventi, immergendo lentamente lo spettatore in un immedesimazione graduale ma sempre più profonda: non ero più nel 2024, quasi mi sentivo anche io nel 1960, ho sentito scorrere nelle mie stesse vene la speranza, la nostalgia, la rabbia per un destino che magari i personaggi avrebbero voluto scrivere in modo diverso. Visconti ha sviluppato tutto ciò lavorando minuziosamente su tutte le componenti artistiche che caratterizzano un film. Solo la fotografia, la scenografia parlano da sé, narrano un epos: in ogni scena l’occhio ha il tempo di osservare e rimanere affascinato dai particolari, dai muri di casa Parondi pieni di stoviglie ai poster nella palestra di pugilato, per arrivare ai silenzi della notte in cui si odono i passi o l’acqua che scorre dalla fontanella. Milano, insieme ai fratelli, è protagonista del film. E’ la città che accoglie ma che non perdona, che fa rinascere, ma che distrugge. Ogni scena all’aperto è caratterizzata dai rumori dell’industrializzazione, si vedono macchine, gru, si sentono i clacson, i chiacchiericci della folla, gli operai con la divisa Alfa Romeo. E’ frenetica, rappresenta l’eccitazione per la modernità, l’entusiasmo di una nuova vita, è il perfetto dipinto di un’Italia che cerca di riscattarsi. Eppure dietro questa frizzante realtà si nasconde il lato più oscuro: quello della solitudine, di una nuova casa che non sarà mai davvero casa. Attraverso i cinque fratelli e i loro differenti caratteri ho potuto vedere le diverse sfaccettature dell’inizio di una nuova vita, partendo dal non avere nulla se non la propria famiglia. I ragazzi quasi si fanno da padri a vicenda, soccombendo alla morte del loro, si aiutano, si sostengono, soprattutto Rocco che finisce per assumersi il fardello dei folli atti del maggiore Simone. Purtroppo però, è proprio il valore della famiglia che finisce per sgretolarsi pian piano, è questo il costo che i Parondi pagheranno, come dice lo stesso Rocco nel ricordare con amarezza la vecchia e cara Lucania: forse se fossero rimasti lì, sarebbero ancora tutti insieme. Il film quasi assume le note del mito tragico, culminato nell’uccisione di Nadia e dei pianti strazianti di Rocco quando gli viene detto l’accaduto. Rocco è un personaggio poliedrico, cammina sul sentiero dell’uomo di ogni tempo, dell’Ulisse che si adopera con successo per trovare una sua dimensione ma che manda giù con fatica il magone della nostalgia di casa. Rocco cerca in qualche modo di tenere insieme tutti i pezzi di una famiglia sull’orlo del baratro, rinunciando alla sua stessa felicità, come dimostrato soprattutto dal rapporto complesso con Simone, che più di tutti si è fatto inghiottire dai vizi e dagli eccessi della città, prosciugando la sua stabilità economica e psicologica. In Rocco ho potuto osservare le mille sfumature della fragilità umana, di un ragazzo silenzioso che diventa uomo ampliando il proprio animo di
altre mille consapevolezze, paure e sensibilità. Il suo sguardo è malinconico, velato sempre da una certa amarezza, ma soprattutto nella prima metà del film pieno di speranza: “Abbi fiducia”, ripete a Nadia quando si incontrano dopo la sua uscita di prigione, quasi come se lo volesse ricordare a lui stesso. Con il passare del tempo, però, il suo sguardo si disillude. Emblematico per me è il contrasto antitetico tra le vittorie sul ring e lo sguardo più profondo e sofferente di Rocco, che piange, quindi mostrando l’antitesi tra il pugilato quindi lo sport dei duri e le lacrime, la più semplice forma di fragilità. Rocco è quello che più di tutti sembra avere successo, ma è anche colui che soffre di più, rappresentando il disincanto verso la modernità, la nostalgia per un qualcosa che non si potrà più avere.
E in fondo lui è l’uomo di ogni tempo: ha lo sguardo di chi anche ai giorni nostri non riesce a trovare un equilibrio nel mondo veloce in cui si ritrova e va sempre avanti nonostante cerchi di tenersi stretti i valori più intimi di se stesso. E’ per questo che Visconti ha creato un capolavoro, regalando al cinema italiano una storia semplice, condivisa da così tanti, e arricchendola di sfumature tragiche e dolceamare, facendo però anche spuntare un sorriso ogni volta che riconosciamo qualche pezzo di nostra tradizione, qualche detto, qualche frase in dialetto, ma anche il solo pranzo insieme intorno al tavolo.
Uno dei capolavori dello scrittore francese Emile Zola è "L'opera", un romanzo che racconta della vita di Claude Lantier, un'artista insoddisfatto che cerca di realizzare il dipinto perfetto da esporre al Salon del Louvre. L'artista viene accompagnato, nel dramma dell’impossibilità di dare vita alla propria creatività, dalla sua amata Christine, musa ispiratrice del suo capolavoro. Ritengo però che sia necessario concentrarsi sulla figura di Christine, un personaggio a cui si dà voce solo nel capitolo 9 del libro. È una donna forte, che ha abbandonato tutto per andare a vivere in campagna con colui che la prima volta che si sono incontrati la ha spinta a posare nuda per la sua grande opera, che finirà nel Salon des Refuses. Una donna dolce e gentile, anche lei appassionata d'arte, interesse ereditato da sua madre. Una donna disponibile, che farebbe di tutto per aiutare suo marito, nonostante la mortificazione che prova quando si mette a nudo. L'amore tra Christine e Claude è felice, prospero, si potrebbe pensare che abbia un lieto fine, ma man mano che si avanza nella lettura dei capitoli, si incomincia a deteriorare il loro amore giovanile. I due si trasferiscono in campagna e hanno un figlio, Jacques, un bambino con la testa troppo grande e ritenuto “stupido”, e ogni volta che Claude cerca di lavorare e viene interrotto dai suoi pianti Christine interviene sgridandolo "Lascia lavorare tuo padre". Claude viene in continuazione rifiutato dai musei, si ritrova in gravi condizioni economiche, diventa una persona violenta, fredda. Christine diventa gelosa di quell'opera, l'opera a cui ha donato il suo corpo nudo. Ormai non è più giovane, non ha più il corpo di una volta, il suo corpo non è più longilineo e il suo volto è coperto da rughe, e Claude continua a ricordarglielo ogni volta che posa, sminuendola. Incomincia a rendersi conto che Claude non è innamorato di lei, ma della sua figura idealizzata, della lei nel dipinto, preferisce la sua copia, ormai il marito la tradisce con la sua creazione. “Ah come avrebbe voluto riprenderlo a quella pittura che glielo aveva portato via!”. Christine rivorrebbe suo marito per sè, lo rivorrebbe accanto nel suo letto, fa di tutto, si spoglia in continuazione per fargli da modella, ma non funziona. La stanza è gelida, e così anche il rapporto tra i due “innamorati”. ”Quel corpo, ovunque ricoperto dai suoi baci innamorati, ora non lo guardava più, non lo adorava più se non come artista”. Ormai quel suo ritratto Christine lo considera una “concubina”, colei che le ha portato via il suo amato Claude, ma nonostante ciò non è arrabbiata con il marito. Le cose si complicano con la morte del figlio, a cui non è mai stato dato amore, che verrà dipinto dal padre ed esposto al museo, e criticato. Christine ritrova l’artista insieme all’altra donna, quella del quadro, e imponendosi, usando finalmente la sua voce, riesce a riprenderselo, a farlo rifugiare nelle sue braccia e a convincerlo a passare una notte di fuoco. È convinta di avercela fatta, di riavere suo marito, ma la mattina seguente, Claude non è più nel letto, ma impiccato sulla grande scala, davanti alla sua opera. “Lei ti ha ripreso, lei ti ha ucciso”, dice soffocata dalle lacrime. In conclusione, la figura di Christine può essere considerata il cuore della vicenda, una donna che ha donato così tanto amore, ma che in cambio non ha mai ricevuto nulla. Lei ha ispirato l’artista, ma non è stata lei ad ucciderlo, ma il desiderio di creare qualcosa di perfetto, e ciò è impossibile da realizzare, e questo Christine lo aveva capito da tempo.
“C’è un lago vicino alle mura di Enna, profondo, che si chiama Pergo, e neppure il Caistro ascolta sulle sue onde più canti di cigni. Un grande bosco corona le acque da tutti i lati, e con le sue fronde fa velo al fuoco del sole. I rami danno fresco, la terra umida produce fiori: è un’eterna primavera.” Nel libro quinto delle ‘Metamorfosi’ Ovidio narra la gara canora tra le Muse e le Periedi, figlie del macedone Pierio: dopo il canto blasfemo delle fanciulle mortali, Calliope celebra la grandezza della Natura e della dea Cerere. La Musa apre il racconto con il rapimento di Proserpina ad opera del dio degli inferi. Ovidio però non si sofferma tanto sugli effetti del dardo di Cupido, quanto sul locus amoenus, un’ambientazione idilliaca la cui serenità viene messa a repentaglio dall’arrivo dirompente di Dite. Il lago Pergo, oggi Pergusa, data la rarità di specchi d’acqua in Sicilia, mette ancor più in risalto l’eterno rigoglio primaverile celebrato dal poeta latino: una selva cinge il lago e lo ripara dal sole; Proserpina coglie fiori di campo facendo a gara con le sue amiche, quando l’amore furente di Plutone la proclama infine donna: “In questo bosco Proserpina mentre gioca a raccogliere viole e candidi gigli, e ne riempie con zelo fanciullesco le ceste e il seno, e in ciò cerca di superare le sue compagne, fu subito vista e amata e rapita da Dite, tanto irruppe a precipizio l’amore.” Nel Seicento fu Gian Lorenzo Bernini che tradusse il racconto di Ovidio in un capolavoro marmoreo e quasi carnale. Oggi quel lago, che aveva visto nascere le stagioni e gli dei rincorrere il divenire degli uomini, è per responsabilità di questi ultimi che si sta prosciugando e, ridotto ad una pozza di poche decine di metri, è destinato a scomparire del tutto, con gravi ripercussioni sulla circostante area lacustre. Ovidio, nel ricostruire il Rapimento di Proserpina, avrebbe forse pensato che la vitalità del lago potesse svanire per volontà di un dio: mai, di certo, per colpa della misera mano dell’uomo. La mitica età dell’oro di cui avevano favoleggiato i più grandi autori dell’età classica voleva soltanto giustificare il degrado, la lascivia a cui l’uomo si era lasciato andare. Quando ci siamo arrogati il diritto di poter usare violenza sulla natura, abbiamo dovuto pagare il prezzo della nostra avidità: il primo ad aver detto ‘questo è mio’ ha messo a repentaglio l’esistenza di tutta l’umanità. Per sua natura l’uomo sente di dover acquisire sempre di più, pur non avendone effettivamente bisogno. Siamo abituati ad apprezzare tutto il bene che la vita ci ha dato, solo quando ci viene tolto con forza: è quando non possiamo più porvi rimedio che ci rendiamo conto dei nostri errori. Il Lago di Pergusa, unico bacino endoreico della Sicilia - oltre che un’area di vitale importanza per la corrente migratoria di molte specie e ideale per la nidificazione - ha dovuto fare i conti, suo malgrado, con lo sperpero di questa società del ‘benessere’, in cui ci si accontenta di bisogni passibili e temporanei, e si dà per scontato un’eternità che è solo apparente. Il ver aeternum vantato da Ovidio oggi non esiste più, si perde in chilometri di fango e desolazione. Il ‘lago di sangue’ ha smarrito il suo colore e la vita ha smesso di traboccare dalle sue sponde. A colpire duramente l’ecosistema del bacino è stata soprattutto la costruzione dell’autodromo, che lo cinge e lo isola dalle colline circostanti. Il suo ciclo vitale è determinato dalle piogge e dalla naturale evaporazione estiva. Il lago si è ridotto alle dimensioni attuali a causa della mancanza di manutenzione dei canali di alimentazione, l'immissione di specie aliene e la siccità che, malgrado quel che sostiene il Ministro dell’Agricoltura Lollobrigida, da anni colpisce duramente il Sud. Il mito del ‘Ratto di Proserpina’ rispondeva alla necessità di comprendere la nascita delle stagioni, spiegando come la morte della Natura sia fuggevole e solo temporanea, perché seguita sempre da un’eterna rinascita, in un movimento perpetuo che pare discendere dalla volontà divina. Se Plutone aveva inquietato la serenità del lago di Pergusa, quando il furor amoroso lo aveva spinto a possedere Proserpina, oggi è la forza di una divinità ancor più potente ad imporre il proprio volere sul mondo, ad oscurare quel ver aeternum: l’avidità e l’indifferenza della miseria umana.
Pittore, scultore, incisore: un artista eclettico la cui poetica realizzazione è frutto di movimenti irrequieti, istintivi e meccanici. Alberto Giacometti trova un nuovo modo di pensare: il volto umano non è pretesto di virtuosismi, ma strumento di indagine della realtà.
Giacometti tenta di realizzare a memoria ciò che osserva, partendo dal disegno che considera struttura ossea della forma. Nella litografia Due Teste (1961) il soggetto è il risultato di una somma di linee che si intersecano in una danza viva. Questa vibrante tensione si trasferisce dalla pagina alla materia scultorea: le sue opere sono “forme tese” che necessitano di questa forza per conservare la loro esistenza. La figura plastica, durante la sua realizzazione, pare subito falsa ai suoi occhi. L’autore – o meglio, il creatore - per definirla e fissarla nello spazio è costretto a sacrificare materia, a ridurre secondo “un procedimento voluto ma necessario” come egli denuncia spesso. La sensibilità del creatore si riflette inevitabilmente nel risultato finale: osservare una qualsiasi forma artistica non è altro che la soggettiva realtà dell’artista che l’ha creata. Non è un caso che i volti delle sue figure ricordano i lineamenti dello stesso Giacometti: l’autore lascia anche plasticamente qualcosa di sé stesso nella sua arte, come si può ammirare nella sua Grand tête mince (1955).
Corpi nudi, dal medesimo aspetto, abitano lo spazio e si presentano nella loro essenza più pura, come in The Forest (1950). L’essere umano viene ritratto privo di etichette sociali e spoglio di una qualsiasi forma di distinzione visiva. Giacometti fatica nel tradurre la realtà: non riesce a creare quelle teste voluminose che immagina, ma istintivamente crea solo corpi dalle forme allungate. Visibili impronte modellano senza sosta: l’artista è intrappolato in un vortice di incomunicabilità e così le opere sembrano eternamente non finite, imprigionate in un continuo divenire plastico. Una febbrile necessità spinge l’artista a trasporre in arte ciò che la vista gli detta, consapevole che il suo fallimento sia l’unica via per la verità. La materia rappresentata non può essere completata, essa deve mutare e vivere in una tensione costante: lo slancio creativo è più importante del risultato stesso. Lo spazio intorno soffoca quei corpi, e la mano dell’artista – modellando instancabilmente- permette alla materia di fuggire a questa pressione. L’argilla, attraverso l’azione creatrice, non è più massa inerte ma corpo vivo.
Giacometti propone un’arte universale che racconta intrinsecamente la condizione umana: quante volte ci sentiamo così sottili, intrappolati nella ricerca di qualcosa o di qualcuno? Imprigionati in quella schiavizzante ma adrenalinica sensazione di voler inseguire una meta, un traguardo, che non vorremo mai realmente raggiungere perché consapevoli della nostra insaziabilità.
Martha (Tilda Swinton) è una donna malata terminale. Dopo aver sfiorato la morte diverse volte durante il suo lavoro come cronista bellica, si ritrova ora a combattere un nuovo tipo di guerra contro la sua stessa malattia.
Disillusa nei confronti della propria esistenza, si rivolge alla ritrovata amica Ingrid (Julianne Moore), in cerca di aiuto. La proposta è folle: aiutarla a morire, stando nella stanza accanto.
Ingrid è una scrittrice di successo che, come ha raccontato nel suo più recente romanzo, teme la morte e in un certo senso ne ripudia addirittura il pensiero, perché incapace di affrontarlo. Ciò che Martha le chiede sembra andare oltre limite morale ma, per amore dell’amica, accetta.
È così che le due donne si ritirano in gran segreto in una grande villa tra i boschi, dove Martha ha deciso di porre fine alla sua vita grazie a un medicinale rinvenuto nel dark web.
Le due iniziano a condurre una vita lenta e statica, fatta di piccoli attimi, mentre Martha si spegne lentamente. Per la donna, tutto il piacere della vita sembra ormai essersi ridotto. L’unica sua consolazione è sapere che, quando verrà il momento, Ingrid sarà nella stanza accanto.
Nei suoi ultimi giorni, Martha rivive attraverso il racconto, facendo del ricordo un modo per lasciare una traccia. La parola si trasforma nel suo mezzo per esorcizzare la morte, mentre Ingrid le resta una fedele ascoltatrice. Lei che, nel frattempo, vive quasi in disparte, in una sorta di limbo tra la vita vera e ciò che sta dall’altra parte.
La loro storia si sviluppa in una casa che da un certo punto in poi non sembra avere quasi più pareti. È Ingrid a rendersi conto di come quel luogo in cui vivono si sia trasformato in un mondo a sé, che però, in fondo, non appare poi così diverso dal mondo esterno.
In una realtà sempre più inquieta, appare infatti così difficile mantenere speranza nei confronti della vita. È solo qui che Ingrid prende piena consapevolezza della coraggiosa scelta di Martha: lasciarsi andare.
Pedro Almodóvar conquista il Leone d’Oro al Festival del Cinema di Venezia 2024 con il suo debutto in lingua inglese, regalando al pubblico una delle sue opere più complete e riuscite. La sua regia, attenta e precisa, abbandona in parte un consueto fatalismo, pur mantenendo un’impronta fortemente sensazionale.
Un film di straordinaria eleganza e intensità, più contenuto rispetto ad altre opere del regista, ma comunque ricco di emozioni, con un carattere meno distintamente "spagnolo". La pellicola si distingue per una palette cromatica raffinata e affascinante, accompagnata da una regia profonda che non si limita a concentrarsi sui personaggi, ma esplora anche lo spazio circostante: gli interni, le skyline di New York e la natura.
Nella pellicola, Martha riacquista il controllo di sé tramite la sua scelta, raggiungendo finalmente la pace con la sua versione presente e passata. Contemporaneamente, Ingrid cresce insieme a lei, affrontando la solitudine grazie alla vicinanza dell’amica, mentre la neve cade su tutti, vivi e morti, lasciando traccia del suo passaggio.
Il cinema ha avuto molti registi bravi, ma solo pochi possono essere considerati veri Maestri: Welles, Fellini, Hitchcock, Bergman. E poi c'è Akira Kurosawa, colui che ha portato l'Asia sul grande schermo.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale, Germania e Giappone erano stati quasi del tutto tagliati fuori dal mercato cinematografico internazionale, vittime dell'odio e della rabbia accumulati negli anni del conflitto. Fu proprio in questo contesto che Akira Kurosawa fece risorgere il cinema giapponese. Nel 1950 presentò al Festival di Venezia il film Rashomon, che vinse il Leone d'Oro e, successivamente, l'Oscar per il miglior film straniero. Questo successo internazionale spalancò le porte a Kurosawa, un regista inizialmente poco apprezzato in patria.
Negli anni successivi, Kurosawa continuò a realizzare capolavori, guadagnandosi il titolo di "Maestro del movimento" grazie a diverse caratteristiche distintive del suo stile:
1. L’uso della natura Nei film di Kurosawa, gli elementi naturali giocano un ruolo fondamentale in ogni scena, sia in esterni sia attraverso l’uso di finestre negli interni. Ad esempio, in Yojimbo il vento aumenta la tensione prima dello scontro finale, mentre in Ran (probabilmente la miglior rappresentazione cinematografica di un’opera shakespeariana) le frecce infuocate simboleggiano la rabbia repressa di un uomo. Ne I sette samurai, il regista fa piovere a dirotto durante la scena finale, trasformando il combattimento tra samurai e contadini nel fango in un evento epico, drammatizzato all’ennesima potenza.
2. Il movimento di gruppo Kurosawa fu uno dei primi a comprendere quanto una reazione collettiva potesse amplificare l'impatto emotivo di un evento. In Sanjuro, durante lo scontro finale tra due samurai, la telecamera si concentra sulle reazioni di un gruppo di giovani spettatori: sono le loro emozioni a rendere lo scontro memorabile. Allo stesso modo, in Anatomia di un rapimento, riesce a tenere incollato allo schermo lo spettatore durante una riunione di polizia solo attraverso le dinamiche di gruppo.
3. Il blocking Derivata dal teatro, questa tecnica coordina i movimenti degli attori con quelli della macchina da presa, ottimizzando tempo e risorse sul set. Kurosawa padroneggiava il blocking per guidare lo sguardo dello spettatore nei punti chiave della scena. Nella sequenza iniziale di Rashomon, ad esempio, un uomo cammina attraverso un bosco per circa cinque minuti, ma ogni inquadratura è unica: a volte la macchina da presa segue l’attore, altre lo incrocia in direzione opposta. Questa dinamicità narrativa consente allo spettatore di comprendere la personalità del protagonista e la geografia della storia in pochi minuti.
4. L'editing Kurosawa faceva parte di quella ristretta cerchia di registi capaci di montare le proprie opere. Era in grado di accelerare o rallentare il ritmo di una scena e sperimentava con la struttura narrativa, seguendo l'esempio di Citizen Kane. In Rashomon la stessa vicenda viene raccontata da prospettive diverse, una tecnica che ha ispirato molti film gialli successivi, fino a opere recenti come Knives Out. Anche in Ikiru, Kurosawa adotta una struttura inusuale, spostando il punto di vista della storia a metà film (come Hitchcock in Psycho).
Akira Kurosawa è un punto di riferimento per ogni regista, specialmente per quanto riguarda la composizione dell’immagine. In Anatomia di un rapimento, lo staging raggiunge il massimo livello: ogni frame è costruito in modo tale da comunicare ruoli e dinamiche tra i personaggi, anche senza dialoghi. Ad esempio, il protagonista, il capo della polizia e il padre del bambino rapito sono sempre posizionati in modo da indicare le loro relazioni e conflitti. Kurosawa sapeva cosa posizionare al centro dell’inquadratura per enfatizzarne l'importanza o ai lati per suggerire un piano d'ascolto.
Oggi, i registi moderni studiano la composizione di Kubrick, il blocking di Spielberg e i movimenti di macchina di Paul Thomas Anderson. Ma è fondamentale ricordare che questi, a loro volta, hanno imparato da Kurosawa. Grazie a lui, il cinema asiatico è diventato una delle migliori industrie al mondo, dando vita a talenti come Park Chan-wook, Bong Joon-ho e Wong Kar-wai.
La settima arte, quindi, è nata con Georges Méliès e cresciuta con Orson Welles; ma ha trovato la sua forza e la sua voce grazie al samurai Akira Kurosawa.
Il 10 dicembre di 76 anni fa veniva ratificata la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo a Parigi. Dopo così tanto tempo, così tante discussioni intorno ad essa e generazioni di studenti che l’hanno studiata dovrebbe essere banale ogni testo che ancora ne parli. Non è così.
Il mondo del 2024, quasi 2025, chissà come se lo sarebbe immaginato uno dei 9 membri della Commissione per i Diritti Umani che scrisse la Dichiarazione. Magari Alexander Bogomolov, membro della commissione per l’USSR e membro della classe diplomatica e intellettuale sovietica, si immaginava un mondo che guidato dal progresso delle idee, dove le popolazioni, liberatesi gradualmente dal capitalismo, si riconoscessero appieno nell’internazionalismo predicato da Marx. Invece nella testa di Eleanor Roosevelt, segretaria della commissione ed ex first-lady degli USA, forse puntava più sul progresso tecnologico e si immaginava umani che viaggiavano tra i pianeti, macchine volanti, case intelligenti o medicine rivoluzionarie.
La generazione del dopoguerra guardava con grande speranza al futuro davanti a sé e credo davvero sperassero che quella che era solo una dichiarazioni d’intenti sarebbe davvero diventata la norma un giorno, avvicinandoci di anno in anno. Eppure ora non siamo mai stati così lontani.
Ad Aprile usciva il rapporto 2023-2024 di Amnesty International che Agnés Callamard, segretaria dell’ONG, commentava proprio affermando: “Nel 2023 abbiamo avuto la conferma che molti potenti stati stanno abbandonando i valori costitutivi di umanità e universalità al centro della Dichiarazione universale dei diritti umani”. Nel rapporto si riscontrano gravissime violazioni dei diritti umani nei conflitti, primo tra tutti il genocidio del popolo palestinese per mano d’Israele, ma anche in Ucraina, Myanmar, Sudan ed Etiopia. Si denuncia una regressione della democrazia generale, il fallimento del sistema di diritto internazionale, l’uso di spyware e sorveglianza di massa in tutto il mondo, anche negli stati dell’Unione Europea, con le lobby BigTech che si oppongono strenuamente anche alla più minima e basilare regolamentazione, e infine giunge all’inazione dei governi che, non ascoltando le voci che dal basso chiedono per proteggere i diritti umani, usano il loro potere per dividere e mettere l’uno contro l’altro i cittadini del mondo.
E senza dover aspettare il rapporto del prossimo anno, possiamo scorrere il feed delle notizie e prevedere che difficilmente avrà miglioramenti:
12.12.2024: “Centrato un mercato pieno di persone: ennesimo crimine di guerra in Sudan”
12.12.2024: “Libano: i raid aerei israeliani siano indagati crimini di guerra”
11.12.2024: “La Fifa assegna i mondiali 2034 all’Arabia Saudita: “Gravi rischi per i diritti umani”
11.12.2024: “Iran: “La nuova legge sul velo obbligatorio rafforza l’oppressione contro donne e ragazze”
5.12.2024: “Israele sta commettendo genocidio contro la popolazione palestinese a Gaza”
28.11.2024: “Manifestazione del 5 ottobre a Roma: gravi violazioni dei diritti umani”
26.11.2024: “Cop29: l’obiettivo di finanziamento peggiorerà le ineguaglianze e violerà i diritti umani”
Anche altre fonti internazionali come il CIR (Centre for Information Resilience) e Bellingcat fanno del loro lavoro un costante allarme verso le gravi e numerose violazioni dei diritti umani sempre più numerose nel mondo. Un lavoro certosino di documentazione e ricerca, che però viene accolto con disarmante silenzio.
Tutto ciò per dire che, non si può smettere di fare ricerca e denunciare tutte queste atrocità, bisogna anzi continuare ed alzare sempre di più la voce, ma le organizzazioni internazionali e i governi dovrebbero tornare ad ascoltare. Per un futuro paradossalmente passato, in cui si scrivevano parole meravigliose, che permetteva di guardare al futuro con speranza e curiosità. Perché ricordiamoci sempre che:
“Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti.
Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza.”
Art.1 Dichiarazione Universale dei Diritti Umani
<< Il racconto di tre personalita’ chiave del giornalismo del Novecento attraverso una macchina da scrivere>>
Nel 1950 iniziò ad essere prodotta la “Lettera 22”, il secondo modello di macchina da scrivere portatile della società Olivetti, che venne consacrata nel corso degli anni '50 e '60 come la migliore macchina da scrivere mai realizzata fino a quel momento, tanto da aver vinto numerosi premi di design in Italia e all’estero, oltre ad essere esposta oggi al MoMA di New York.
La chiave di successo della Lettera 22 fu l’accurata progettazione che permise alla macchina di assumere una forma compatta ed essenziale, attraverso provvedimenti come la rimozione di qualsiasi sporgenza o elemento di ingombro, con l’obiettivo di creare una macchina da scrivere che non fosse relegata agli uffici ma che potesse essere utilizzata anche in occasioni straordinarie; l’intento della Olivetti era talmente chiaro che la Lettera 22 veniva venduta accompagnata da una custodia con maniglia, per facilitarne il trasporto.
Una delle dimostrazioni della buona riuscita del progetto della Olivetti è stato il considerevole utilizzo della macchina da parte della maggior parte dei giornalisti e scrittori fino all’avvento dei computer e dei programmi di scrittura; infatti la Lettera 22 può essere considerata un punto in comune tra alcune personalità di cultura della seconda metà del Novecento delle quali vale la pena raccontare la storia e il lavoro.
I giornalisti di guerra furono sicuramente la categoria che giovò maggiormente delle comodità della nuova macchina da scrivere della Olivetti, tra questi Indro Montanelli e Oriana Fallaci, i quali furono spesso fotografati in possesso di una Lettera 22 e che nel corso della loro attività giornalistica documentarono territori colpiti da atroci guerre, spesso accompagnati solo da quella macchina da scrivere, che rappresenta l’unica somiglianza tra queste due personalità molto diverse nelle radici e nelle idee: lui sposa l’ideologia fascista e lavorerà per conto del regime, mentre lei partecipa sin da bambina alla Resistenza Italiana al fianco del padre, col compito di staffetta.
Indro Montanelli iniziò l’attività di giornalista di guerra nel 1935 raccontando la sua esperienza come sottotenente volontario durante la Guerra d’Etiopia, ma i suoi lavori più significativi riguardano la Seconda Guerra Mondiale, infatti Montanelli si recò in qualità di corrispondente su vari fronti di guerra europei assistendo in prima persona ad eventi chiave come l’invasione della Polonia da parte della Germania Nazista e l’invasione dell’Estonia da parte dell’URSS di Stalin, ma documentò anche scenari di guerra minori in Francia, nei Balcani e in Grecia, fino al 1944 quando venne arrestato e fatto prigioniero dai nazi-fascisti a causa di aver rinnegato le idee fasciste e aver tentato di unirsi ad un gruppo clandestino anti-fascista.
Nel corso della sua carriera post Seconda Guerra Mondiale, Montanelli divenne uno dei giornalisti più influenti dell’epoca, scrivendo per svariati anni sul “Corriere della Sera” e fondando “Il Giornale”, che tutt’oggi fa parte dei principali quotidiani italiani.
Oriana Fallaci, 20 anni più giovane di Montanelli, a partire dal 1967 seguì sul campo la Guerra del Vietnam, recandosi sul posto dodici volte nell’arco di sette anni e pubblicando “Niente e così sia”: un saggio scritto sotto forma di diario dove l’autrice riporta sue opinioni e interviste a diversi testimoni, tra cui soldati americani e vietnamiti, assieme ad alcuni pareri di un gruppo di giornalisti francesi presenti in Vietnam. Continuando la sua attività da giornalista sul campo, nel 1968 rimase gravemente ferita da una raffica di mitra delle forze militari messicane, che avevano aperto il fuoco su degli studenti intenti a protestare contro l’occupazione militare di un campus universitario.
Oltre ad essere stata una delle giornaliste italiane più importanti del Novecento, Oriana Fallaci scrisse numerosi libri di successo tra cui dei saggi sull’aborto e sulla condizione della donna in determinate zone del mondo, un reportage su dei programmi spaziali NASA del 1961 e un libro sull’attacco alle Torri Gemelle dell'11 settembre 2001.
Un altro personaggio immortalato svariate volte in possesso di una Lettera 22 è Enzo Biagi, considerato uno dei giornalisti più celebri del XX secolo, che intraprese la strada del giornalismo da giovane, prendendo parte alla Resistenza Italiana e occupandosi di informare i cittadini sul reale andamento della guerra. Nel corso degli anni Cinquanta, Enzo Biagi viene chiamato a lavorare come direttore del settimanale Epoca, fino al suo sbarco in televisione nel 1961 con l’incarico di direttore del primo Telegiornale Rai. Da qui Biagi iniziò a diventare sempre di più uno dei volti più noti dell’epoca, grazie anche alle sue numerose interviste a figure che ricoprivano un ruolo centrale nel dibattito di quegli anni, come ad esempio Giovanni Agnelli, Pier Paolo Pasolini, Tommaso Buscetta e Silvio Berlusconi.
Tre film imprescindibili di un maestro assoluto; che ancora oggi con le loro atmosfere tormentano il cinema.
REPULSION (1965)
Repulsion, o Repulsione, è il secondo lungometraggio di Roman Polanski, e quello che prende più alla lettera gli studi sulla sessualità̀ femminile di Freud.
Con “l’occhio che uccide” di Catherine Deneuve, ricordando i grandi registi che lo hanno preceduto, Polanski apre il film ma non solo: pianta il seme per l’intera trilogia.
Nella Swinging London del free cinema inglese - dove un anno dopo Michelangelo Antonioni girerà il suo Blow Up - Carole è una ragazza affetta da androfobia, paura irrazionale degli uomini: fobia che la perseguita in ogni istante della giornata, fino a portarla definitivamente alla pazzia.
La regia visionaria, i volti tagliati a metà dalla luce, l’appartamento che prende vita durante le crisi della protagonista sono uniti alla fragilità dell’animo umano messa in scena con una maestria degna del miglior Bergman. La pellicola rappresenta un viaggio nei luoghi più oscuri della mente umana risultando claustrofobica e angosciante anche nelle scene all’esterno. In una Londra che non dà tregua alla povera Carole la quale è impossibilitata a vivere serenamente a differenza delle colleghe del centro estetico in cui lavora, che ogni giorno ascolta parlare delle loro relazioni senza poter comprendere.
Gli sguardi maschili - come sarà in Rosemary’s Baby e Le Locataire con i vicini - perseguitano Carole, che finisce per rinchiudersi all’interno della sua abitazione. Da qui un turbinio di allucinazioni ad occhi aperti: abusi che si susseguono ogni notte, mani che escono dalle pareti; la casa diviene metafora della psiche malata della protagonista. Polanski stesso definì il film come “la descrizione del paesaggio del cervello di Carole”; traumi reconditi che prendono vita, ricordi repressi che diventano ossessioni.
Il regista, precedentemente citato, Michelangelo Antonioni, un anno prima, realizza Deserto Rosso, anche questo ritratto femminile di una donna, in cui Monica Vitti impersona Giuliana, un personaggio alienato ed esanime nel panorama industriale italiano.
Luis Buñuel, due anni dopo, con Belle de Jour, racconterà la storia di Séverine, donna annoiata e frustrata che durante le giornate si rifugia in una casa di appuntamenti per sentirsi sessualmente desiderata.
Con Repulsion compongono un puzzle: tre film che portano sullo schermo il disagio femminile della donna moderna.
Il film di Polanski, a differenza degli altri due, sfrutta i topoi del genere, creando uno dei migliori horror psicologici della storia del cinema - e il primo di una trilogia capolavoro.
ROSEMARY’S BABY (1968)
Rosemary’s Baby, insieme a Night of the Living Dead di Romero e Hour of the Wolf di Bergman, rappresenta uno degli horror che nel 1968 rivoluzionano il genere. La pellicola si apre con una contrapposizione tra sfera visiva e sonora: con una panoramica dall’alto, Polanski inquadra lo spazio urbano con le grandi costruzioni in cemento - simbolo
di soffocamento - su cui successivamente si inscrivono i titoli di testa, in un per niente disturbante - cosa che invece l’immagine degli edifici rimanda - font in corsivo color rosa; il tutto con l’inquietante colonna sonora di Krzysztof Komeda.
Il sonno della ragione genera mostri, non mostrati esplicitamente ma che esistono negli sguardi, nelle atmosfere dell’appartamento. Polanski porta il terrore nella quotidianità, il soprannaturale e il satanismo nella vita dei borghesi americani.
Arrivare a vendere la propria anima al diavolo fu l’azione alla base del Faust di Goethe, che ritorna in Rosemary’s Baby come critica alla società dello spettacolo e all’industria hollywoodiana; in questo caso il marito non vende la propria anima ma il corpo di sua moglie, che consentirà a Satana di concepire suo figlio. Quel che più risalta nella pellicola è come il tutto avvenga sotto trama, di nascosto, mai alla luce; e soprattutto i metodi utilizzati dagli artefici di tale percorso verso il formalismo religioso - ampiamente evidente nella scena della cena dai Castevet - che nasconde il vero obiettivo dell’operazione: il consumo.
La nascita del figlio dell’anticristo diventa rappresentazione simbolica di una classe legata al culto di un potere consumistico ed edonistico - che si nascondeva dietro la maschera del buonismo e del finto perbenismo - scoprendo così le carte dietro il tanto agognato sogno americano.
Vittima di tale processo non è altro che l’americano medio, Mia Farrow, che nel finale si lascia cadere tra le braccia del demonio; perché il sentimento che una madre prova nei confronti del figlio è talmente grande da far sperare nel cambiamento di un’umanità in rovina - quindi in un miracolo.
Portando il discorso verso la regia polanskiana, essa ricalca quanto di buono fatto in Repulsion: carrelli lentissimi, macchina da presa che segue i personaggi, la claustrofobia dei primi piani; è l’incertezza la chiave, come il dubbio e la paranoia, che vanno a formare l’inquadratura, rimandando sempre ad un senso di angoscia e terrore. Fino all’ultimo respiro il regista manda fuori strada lo spettatore, prima con la pazzia di una donna in evidente crisi psicologica, poi sembra di intravedere qualcosa negli sguardi di John Cassavetes e nel comportamento dei vicini; poi ancora la situazione sembra migliorare, per crollare definitivamente nel finale. Il tutto con un crescendo costante di suspense di hitchcockiana memoria, che fa del non detto e del non fatto il fulcro della pellicola. È il sublime fascino del consueto e dell’ordinario, quella malsana voglia della perfezione che il film incarna perfettamente; ma è anche la paura dell’ignoto e di ciò che non riusciamo a comprendere, che si cristallizza intorno all’apparente calma del comune.
L’introspezione psicologica di Rosemary si fonde perfettamente con i colori delle scenografie, portandoci a discutere dell’estetica, altamente simbolica e di matrice surrealista. Il continuo cambio di vestiti della protagonista scandisce la trasformazione del personaggio, ma anche i passaggi narrativi. Il rosso nella prima parte del film esprime la morte e il terrore che da lì a poco arriverà, il blu nella seconda come innocenza e purezza, il giallo l’alterazione e il rosa come femminilità: i colori sottolineano le correnti emotive che attraversano Rosemary.
Polanski è attentissimo a porre gli elementi nell’inquadratura sempre in contrasto tra loro. Azzeccata quindi la scelta di optare come attrice protagonista delle vicende una giovanissima Mia Farrow, che risulta sempre un’estranea tra le pareti dell'appartamento, pur tentando invano di cambiarne l’aspetto.
La copertina del Times, che Rosemary legge in una delle ultime scene del film, palesa la deriva che il mondo si appresta ad abbracciare, con il titolo: “Dio è morto?” Probabilmente sì,
ma satana vive e questo è l’anno zero. L’uomo smarrito cerca una guida nel peccato, la cui incarnazione è senza ombra di dubbio il capitale.
LE LOCATAIRE (1976)
Uscito in Italia con il nome “L’inquilino del terzo piano” - e in America come “The Tenant” - il film chiude la trilogia dell’appartamento nel migliore dei modi: grazie ad una consapevolezza artistica e ad una maturazione tecnica, che porta Polanski a trattare tematiche affini a quelle dei due film precedenti, spingendo ancora più prepotentemente il piede sull’acceleratore, per quello che diverrà il manifesto della sua prima parte di carriera.
Grazie alla fluidità data dalla Louma (Roman Polanski fu uno dei primi ad utilizzarla, consiste in una gru snodata alla cui cima è attaccata la macchina da presa, che può essere telecomandata lontana dal suolo, e permette appunto di effettuare panoramiche di grande durata, senza dover fare aggiustamenti) Polanski apre i titoli di testa con un movimento di macchina, che coincide con un’unità narrativa, al cui interno presenta tutto il dramma del protagonista - e del racconto - in un’unica inquadratura. Il piano-sequenza introduce il microcosmo in cui il protagonista, Trelkovsky (interpretato dallo stesso Polanski), andrà ad abitare, e anticipa i temi principali della pellicola: il doppio, l’ambiguità sessuale, l’essere sospeso tra il reale e l’immaginario, la claustrofobia data da uno spazio chiuso - l’appartamento - ma soprattutto la fine della tranquillità e l’inizio di quello che si trasformerà in un vero e proprio incubo.
Le prime sequenze sono attraversate da un’aria di mistero, portando lo spettatore a porsi domande sulla natura degli strani avvenimenti che Trelkovsky osserva imperterrito dalla finestra della sua camera da letto. Presenze fantasmatiche sembrano controllare il povero protagonista, che si ritrova in poco tempo vittima delle lamentele dei vicini. Fuoriesce l'intollerabilità di una borghesia repressiva, chiusa, che rifiuta il diverso, e che con i suoi comportamenti obbliga all’omologazione come unica soluzione. Da questa “vigilanza” spasmodica parte la discesa nella follia di Trelkovsky. L’appartamento, che assume i connotati di un’entità a sé stante, inizia ad inghiottire il suo inquilino, portandolo ad una frammentazione dell’Io e ad identificarsi con la precedente affittuaria, Simone Choule, morta suicida. Il cambiamento che la comunità del quartiere esige, lo conduce ad una progressiva caduta nell’oblio, e ad una trasformazione sia psicologica che estetica, simbolo dell’enigmaticità dell’uomo moderno. Il film anticipa anche le discussioni e le analisi che seguiranno negli anni a venire sulla sessualità: in un’atmosfera sempre più grottesca, grazie ad una straordinaria fotografia di Sven Nykvist (celebre cinematographer di quasi tutti i film di Ingmar Bergman) che fonde il gotico e il surreale, Trelkovsky in più occasioni risulta statico e imbranato di fronte alle avances di Stella (amica di Simone); una sottrazione, segno di un sentimento latente che diviene repulsione nei confronti del corpo femminile.
Ancora una volta reminiscenze hitchcockiane: come in “Rebecca” (film del 1940) la donna si trova a rivivere situazioni e traumi della defunta moglie di cui ha preso il posto, lo stesso succede a Trelkovsky con i vicini, che rivedono in lui Simone; e sempre come nel capolavoro di Hitchcock, anche Trelkovsky tenterà il suicidio. Entrambi non riescono ad accettare il ruolo che hanno e sono ossessionati dalla figura che li ha preceduti.
Evidenti anche le analogie (o citazioni, rimandi) con “Rear Window” (1954): l’atteggiamento da peeping tom dei residenti, e la risposta con tanto di binocolo del protagonista. Inoltre la dissociazione del corpo di Trelkovsky ,che raggiunge il completamento con l’acquisto di una parrucca, ricorda quella di Madeleine in “Vertigo” (1958).
Le questioni che Polanski pone in “Le Locataire” vanno oltre la semplice ricerca esistenziale.
Il regista mette in scena la sfuggevolezza dell’Io decostruendo, con domande che arrivano dallo stesso protagonista per lo spettatore: “Quand’è, insomma che un uomo smette di essere se stesso?” L’inquilino cade vittima della paranoia e delle allucinazioni, la risposta quindi tocca allo spettatore.
“Gregor Samsa, svegliandosi una mattina da sogni agitati, si trovò trasformato nel suo letto in un immenso insetto immondo.”
Le parole di Franz Kafka nelle “Le Metamorfosi” del 1915 sembrano echeggiare all’interno dell’ultima pellicola targata Mubi: The Substance, il body horror scritto e diretto dalla regista francese Coralie Fargeat, in cui una splendida Demi Moore lotta sanguinosamente contro il declino del suo corpo cercando disperatamente nello specchio la sua versione migliore incarnata da un’ipnotica Margaret Qualley.
La protagonista Elizabeth Sparkle (Demi Moore) è una ex diva di Hollywood divorata e rigurgitata da uno star system maschilista che vuole liberarsi di lei una volta che ha compiuto i cinquant’anni di età, per sostituire la conduzione del suo programma con una donna più giovane e più attraente.
A seguito del licenziamento resta coinvolta in un incidente stradale e il medico che l’assiste le propone quella che sembra essere la cura a questo declino, “the substance”, un siero misterioso che permette di creare uno sdoppiamento della sua persona: si genera così Sue (Margaret Qualley), una ventenne dalla bellezza eterea. La protagonista deve, senza eccezioni, rispettare l’equilibrio vivendo sette giorni nel corpo di Sue e sette giorni nel suo corpo originale senza scordarsi di “essere solo una”, come viene ripetuto più volte nel corso del film.
Questo liquido sperimentale una volta iniettato nelle vene della “cavia” permette di cerare una dinamica simbiotica e inquietante tra le sue due identità. Sue, la versione giovane, assume ben presto il controllo della vita che Elisabeth ha perso, diventando una star di successo e vivendo una vita edonistica, mentre la vera Elizabeth sprofonda in una spirale di insicurezze, autocommiserazione e degrado fisico.
Questo sdoppiamento non si limita solo alla carne, ma deteriora rapidamente la psiche delle due versioni fino a portare la protagonista all’autodistruzione.
“The Substance” è un film che prende di petto il tema dell’ossessione per la giovinezza, mettendo in scena una critica feroce al culto della bellezza eterna e del successo nel mondo dello spettacolo.
È la fotografia di una società che punta alla perfezione, che pretende una donna tanto sorridente e impeccabile quanto umiliata e depensante.
Una società dominata da uomini grotteschi, ossessionati da corpi tonici e perfetti; la camera, saggiamente posizionata dalla regista, inquadra i corpi nel loro dettaglio anatomico, spogliandoli di qualsiasi sensualità fino a nauseare lo spettatore. Il film riflette brillantemente sulle tematiche dell’identità, dell’autostima e della pressione sociale a conformarsi a standard di bellezza impossibili.
La tensione tra Elisabeth/Sue è spietata e il crescente disprezzo reciproco tra le due personalità esplora le conseguenze psicologiche di questa divisione interna, arrivando a un crescendo di violenza e disperazione.
La pellicola risulta impattante, riflessiva e sconvolgente allo stesso tempo. Il body horror viene riportato in auge in maniera credibile e senza censure da una regista che si dimostra capace di raccogliere il lavoro dei grandi registi del passato: a partire da Stanley Kubrick con l’utilizzo della sua geometria e con minuziosi movimenti di camera che svelano corridoi claustrofobici e solitari, fino ad arrivare al capostipite del genere: David Cronenberg con chiari omaggi a uno dei suoi capolavori “Videodrome” (1983).
Quando Sue pronuncia il suo nome in un close-up delle sue labbra, il suono delle sue parole si diffonde su diversi schermi televisivi, richiamando l’ambiguo magnetismo dei media esplorato appunto in “Videodrome”.
Nel classico di Cronenberg, le labbra di Nikki seducono il protagonista, trascinandolo in un universo sempre più oscuro e complesso. Analogamente, in The Substance, le labbra di Sue diventano un simbolo della commistione tra identità e immagine televisiva, offrendo una critica incisiva sul potere deformante della televisione e sull’ossessione per l’apparenza.
The Substance non lascia indifferente lo spettatore e viene naturale domandarsi: quanto siamo disposti a rinunciare, per riavere la versione migliore di noi stessi? E quanto siamo disposti a comprometterci per ottenerlo?
Davvero avere tutto ti rende felice? Spesso diventa un marchio che ti renderà diverso da tutti gli altri, e ne dovrai pagare le conseguenze. Febo, rampollo di una famiglia altolocata, ne è cosciente da fin troppo tempo. Sulle note della satirica "Super Rich Kids" ripercorre la sua vita apparentemente perfetta, ma infinitamente infelice nell’Isola di Ischia.
Too many bottles of that wine we can't pronounce
Febo è salito in terrazza mentre tutti dormono.
Vuole godersi la solitudine vera, senza il resto della famiglia che gli rinfacci la sua nullafacenza.
È seduto su una sdraio, l'Airpod nell'orecchio sinistro ripete all'infinito delle canzoni di Frank Ocean.
Il piano di Febo è prendere una boccata d'aria, darsi una calmata e andare a letto quando avrà sonno.
Calmarsi equivale a prendere le sue pillole, più le usa e più aumenta la dose che gli fa effetto. Nonostante il dottore gli abbia detto di non superare le tre dosi giornaliere, Febo estrae dalla tasca la quarta pasticca. L'ha rubata a sua madre, lei non se ne accorgerà, nasconde a Papone una quantità industriale di Xanax dentro l’armadio.
La pillola ha bisogno di qualcosa per venir mandata giù.
L'acqua sarebbe ideale, ma Febo preferisce altro. Ritiene che sia una notte da alcol: ovvio,
non ha una sera da sobrio dalle medie o una giornata da sobrio in generale. Per Febo, la mattina non comincia con il sorgere del sole, ma con la Ichnusa delle otto.
Ai suoi occhi il tramonto non significa niente, è il Jack Daniel's delle sette a definire la sera.
Una bottiglia giace sulla sua pancia, l'ha scovata in fondo alla cantina della villa. È del vino francese, buonissimo, però Febo non è riuscito a leggerne il nome. Prima ha dato un' occhiata all'etichetta e, vedendo un nome con più di sei lettere e troppe vocali, ha rinunciato a scoprirlo. Tra lui e il francese non scorre buon sangue. Durante quella famosa vacanza-studio in Costa Azzurra non è riuscito a scoprire la differenza fra imparfait e conditionnel, nel consumare fino all'osso un' American Express fino all’osso. Pieno di sensi di colpa, ha speso un patrimonio in crêpes. Papone ha usato la sua bocciatura all'esame
DELF come ennesimo motivo per denigrarlo, gli piace rinfacciargli la sua inefficienza. Alla tua età ero in collegio a Tolosa e parlavo un francese da Jean-Paul Sartre. Quelle uscite del padre lo fanno sentire impotente, come non ha il diritto di controbatterle, non ha il diritto di sfotterle.
Too many bowls of that green, no lucky charms
Lo sguardo di Febo coglie qualcosa d’interessante:
Carlo, responsabile fratello maggiore, ha scordato una ciotola da riso piena di marijuana sulla ringhiera della terrazza.
La gente che lo stima non se lo aspetta, però anche Carlo ha bisogno di un aiuto per mantenere il controllo.
Febo, affaticato, si mette in piedi. Afferra la ciotola, la rovescia lasciando cadere quei tocchi verdi sugli scogli.
"Ben ti sta, coglione" Borbotta con un sorrisetto soddisfatto. I fratelli Barcellona sono cresciuti e vaccinati, ma rimangono dispettosi quanto dei bambini. Ieri, Carlo è piombato in camera di Febo per chiedergli lo shampoo e ha incassato un vaffanculo senza complimenti. Casualmente, Febo non trova più la stecca di Terea.
Carlo è il preferito sia di Papone che di Mamma, scontato. Lui può farsi le canne sotto ai loro occhi rimanendo un ragazzo d'oro, invece Febo è il figlio che ha preso poche botte da piccolo se si permette di pronunciare la parola "cazzo" a diciott'anni.
Carlo è stato molto bravo a conquistare successi superficiali, facoltosi socialmente. "Eh, Carlo è un genietto"
Fa l'università pubblica volontariamente, che cosa rara per uno del suo ceto!
Studia giurisprudenza alla Sapienza, sta scrivendo la tesi tipo sul diritto romano. Febo non capisce quelle cose perché ha fatto lo scientifico. Carlo è considerato tanto bello quanto intelligente da quando è dimagrito miracolosamente in quarta ginnasio, il miracolo si chiama bypass gastrico. Quella sofferenza ha dato il via al suo successo con le donne, portarsi a letto delle ragazze gli ha fatto raggiungere l'apice del narcisismo.
Bellissimo, acculturato, estroverso e amichevole... Ma non inganna suo fratello.
Il citazionismo costante di Carlo non è gran cultura, bensì l'incapacità di costruire un proprio pensiero critico.
Le battute da taglienti non sono carisma, bensì forzare un' apparenza disinvolta davanti alle sue insicurezze.
Il fascino di Carlo è dovuto alla palestra, le diete terrificanti, le pulizie del viso e infiniti step di skincare, esagerati perfino secondo una Sephora Kid.
Febo conosce benissimo questo retroscena, quindi crede di avere il permesso di giudicarlo e segretamente di disprezzarlo, ma Carlo non ha colpa di aver superato il periodo di bullismo e di essersi pienamente integrato nella società.
Magari Febo fosse un po' più indifferente e molto meno sensibile.
The Maids come around too much
Febo avverte di soprassalto il rumore della serratura , ma i suoi riflessi si sono indeboliti: è bloccato lì in terrazza, gli manca la forza di lamentarsi. Per non farsi beccare dai genitori in piena sbornia, gli resta la possibilità di svegliarsi la mattina presto: difficile.
"Grazie Guenda!"
Borbotta, non è chiaro se il suo commento sia dovuto alla stanchezza o al nervosismo.
Mannaggia a lei, la fine del mondo non le impedirebbe di chiudere il terrazzo prima di andare a letto.
Fobia dei ladri.
La fame ha condotto Guenda in Italia dall'Eritrea, fortunatamente i Barcellona sono stati ben disposti a metterle pane sotto i denti. Era il millenovecentonovantasette.
"Da piccolina come te mantenevo i miei fratelli" Cantilena sempre, nel frattempo è solita a sistemare la camera di Febo in disordine mentre lui gioca a God Of War.
Guenda, pur di non perdere il posto, fa qualunque cosa per i Barcellona.
Cameriera, donna delle pulizie, tata. Il termine “schiava” non sarebbe un’esagerazione.
Sia Papone che Mamma, che Febo che Carlo, usano una specifica esclamazione quando c'è qualcosa da risolvere: "Guenda!"
A loro non interessa se sia stanca, di cattivo umore o impegnata, danno per scontato che stia lì a servirli...Questo è il minimo sindacale per millecinquecento euro mensili, no?
In tutto questo, ovviamente, Guenda è la semplificazione del suo nome effettivo. Troppo faticoso imparare quello vero.
Febo ne ha discusso recentemente.
Guenda stava in videochiamata con dei parenti, lui sentiva grida e risate da selvaggi, poi ha riconosciuto un suono simile a "Guenda".
"Mamma, quindi Guenda non si chiama Guenda?"
A sua madre è caduto il giornale dalle mani, dopo un lungo sbuffo si è tolta gli occhiali da vista e gli ha risposto: "Buongiorno!".
Febo ci riflette sopra, e infatti è strano che non abbia mai ipotizzato che quello potesse essere un diminutivo: come mai?
A lui non importa di quella donna, la donna che lo ha cresciuto al posto dei suoi genitori.
È un' affermazione che non ammetterà mai, visto che il classismo mischiato al razzismo non è da Voto il Partito Democratico.
"Guenda non suona molto tigrino, vero..." Febo ha l'intenzione di aprire il vino e puntualmente realizza di essere salito in terrazza senza un cavatappi. Ha faticato per sgattaiolare in terrazza e imbucarsi nella cantina di nascosto, certamente non scenderà giù per prendere un cavatappi e beccarsi due ceffoni da Papone.
"Guenda! Guenda!" Grida lamentoso, poi si accorge che a porte chiuse e a tre piani di distanza Guenda non può sentirlo.
Deve sbrigarsela da solo.
"E ora come faccio?" Emette un piccolo suono acuto di disperazione. Febo sa risolvere le equazioni differenziali bendato, però per lui è un mistero stappare del vino. Lo stesso vale per accendere un fornello, rifarsi il letto, pulire lo specchio del bagno, impostare una lavatrice: nessuno gliel’ha mai insegnato, ci pensa sempre Guenda.
La sua soluzione è strappare a morsi il tappo.
Parents don't stay around enough
Appoggia la pillola sulla lingua che subito viene travolta da un fiume di vino, le palpebre di Febo si appesantiscono e i muscoli trovano pace.
Il sonno giungerà a breve, "Per Fortuna" pensa continuando a bere.
Si stordisce con entusiasmo.
Febo, neo-diplomato, è dipendente da alcol e tranquillanti dalla preadolescenza: come finirà a cinquant'anni? E’ ancora in tempo per venir salvato, gli serve una buona supervisione...
Ma dove sono i suoi genitori?
L'Onorevole Barcellona è un uomo impegnato, non spreca le sue energie per Febo.
Classe 1968, discendente di una famiglia di banchieri ebrei, la famosa Zia Giuditta ha sposato un Rothschild nel 1924.
Barcellona si è laureato con centodieci e lode in giurisprudenza alla Federico II nel 1992 e ha conseguito un master in Global Studies a Bruxelles nel 1995. E’ stato eletto deputato nel 2006 nel Partito Democratico e senatore nel 2022: cosa lo rende celebre? Una sua intervista trasmessa nel 1987, dove un giornalista fermava membri della FGC a una manifestazione.
"Tutti i Compagni devono sentirsi orgogliosi, ma anche protetti, dall'Unione Sovietica: il più grande trionfo delle ideologie di Marx. I giornali fascisti e filo-americani credono di ingannarci, ma noi Compagni sappiamo di trovarci davanti un paese all'avanguardia. Da sogno, oserei dire."
"Quindi supporti anche le azioni di Stalin?"
Prima che rispondesse arrivarono altri ragazzi del movimento, ridevano, si misero: "Viva il Compagno Stalin! Viva il Compagno Stalin! Viva il Compagno Stalin!".
Inutile dire che queste dichiarazioni siano state riciclate per memes. Recentemente, l’Onorevole Barcellona ha mentito a David Parenzo e migliaia di telespettatori: "Quelle idee non mi rispecchiano più, tantomeno il PD".
In Parlamento è chiamato quel pazzo dell'Onorevole Barcellona, ma nelle mura domestiche...
Papone.
Russa sul divano di pomeriggio e le dieci sveglie prefissate non lo smuovono, si sbellica guardando "Striscia La Notizia" e nutre un' ardente passione per "La Settimana Enigmistica". Contesta qualunque cosa, è un fenomeno a dare i numeri, ma la verità è che è dannatamente felice.
Ha i riflettori puntati su di sé part-time, poi gode di una famiglia parer suo "perfetta" e il denaro non gli finirà mai. Talmente felice e contento del proprio benessere che non gli interessa quello altrui.
Al figlio non risparmia una strillata, anche quando è demoralizzato in partenza. Su di lui fa commenti umilianti, affinché suoi amici si facciano una risata, e gli proibisce di ragionare di testa sua perché la sua libertà significherebbe imperfezione: un figlio imperfetto equivale a un dettaglio della propria vita imperfetto.
Inaccettabile.
Papone c'è per metterti a dieta, ma non c'è per consolarti.
Stacco tardi.
Papone c'è per importi una facoltà che piace solo a lui, ma non c'è per complimentarsi.
Zitto! Sto facendo una telefonata importante.
Papone c'è per farti prescrivere ulteriori antidepressivi, ma non c'è per darti un abbraccio. Esco fra dieci minuti.
Anche la Signora Acquaviva, di professione Nobile Aragonese e per svago scrittrice pluripremiata, non si trova mai in casa. Capita che abbia vere scuse per astenersi dai doveri di madre: conferenze, incontri con case editrici, interviste e firmacopie. Però, la sua assenza è solitamente dovuta al piacere personale: aperitivi, cene tra amiche, riunioni del circolo di lettura, partite a golf.
La Mamma ha sempre l'impellente necessità di scrivere, e di non venir disturbata per alcuna ragione, se le viene chiesto di accompagnare in palestra Febo o Carlo.
Scrive, a casa fa solo quello. Né prende posizione nelle litigate né prende decisioni per i figli, tace col computer sulle gambe e digita meticolosamente. Ama la sua dimensione di personaggi e intrighi, odia quando è costretta ad uscirne.
"Sì sì, te estoy escuchando"
Si connette alla realtà esclusivamente per formulare questa frase. No, non ha ascoltato Febo spiegare il suo crollo nervoso per gli studi, prima che lui decidesse di isolarsi in cima alla casa.
Too many joy rides in daddy's jaguar
Funziona con tutte le ragazze con cui è andato a letto: fare il giro in Jaguar. L'ultima volta che ha usato quella tattica è stato quasi due mesi fa...
Virginia.
Già si scrivevano a Roma, lei EUR e lui Corso Trieste. Nessuna ragazza l’aveva mai fatto rimanere sveglio nell'attesa di un cuore rosso per la buonanotte su Instagram, eccetto lei. "E togli quel telefono!"
Strillava a tavola Papone, Febo non lo ascoltava nemmeno e continuava a messaggiarsi con Virginia.
Ha vissuto l'adolescenza tra foto in reggiseno e succhiotti, solo alla fine del liceo ha scoperto il famoso amore di gioventù.
Una volta, nell'ultima settimana di lezioni, si è presentato all'ingresso della scuola di lei. Virginia gli è saltata al collo e le compagne di classe si sono godute lo spettacolo, piene di invidia.
"Che me dici?"
Gli ripeteva mentre andavano a prendersi un pezzo di pizza, credeva che fosse deluso dall'incontro dal vivo. Invece, dentro di sé fremeva per quel bacio sulla bocca datogli appena si sono visti, la sua mente era in subbuglio.
Febo non vedeva l'ora che arrivassero i giorni di Ischia, tra una chiacchierata e l'altra hanno scoperto che entrambi le loro famiglie andassero in villeggiatura lì.
L'uno ha conosciuto gli amici degli altri, Febo era soprannominato il ragazzo di Virginia e Virginia la ragazza di Febo.
In una delle tante serate passate a ballare, sono riusciti a rimanere soli.
Una sera sarebbe successo, quella cosa lì, ma Febo non si sentiva pronto. E se lei si fosse sentita obbligata?
E se fosse andata in giro a dire che non ci sa fare a letto?
“Gigi," Così la chiamava
"Sei stanca?" Lei gli ha sorriso. "Macché".
"Vuoi fare qualcosa di divertente?" Nessun tono provocante, era giocoso quanto un bambino.
"Dimme"
"Nah, è 'na sorpresa. Ma devi fa' silenzio"
E per mano, soffocando risate accompagnate dal suono delle cicale, sono entrati in casa di Febo. "Se lo sa Papone m'ammazza" Ha detto così per fare, Papone lo sa benissimo tutte le volte e se ne frega. Sono sgattaiolati nel garage e saliti in macchina, in quel momento ha visto gli occhi di Gigi su di giri. A Febo è scappato un sorriso ed è sfrecciato via.
"Grand final!" Ed è sparito il tetto della macchina.
La ciliegina sulla torta nell'arte del rimorchio.
Circondati dalle piccole luci dell’isola e il vento fra i capelli si sono sentiti i sovrani del mondo.
Febo ha preso la via di casa, ma a metà percorso si è fermato.
Era il momento.
Dopo alcuni istanti di silenzio imbarazzante, Virginia ha rotto il ghiaccio. "Cazzo, ho esagerato con l'illuminante. Brillo sul serio" Ha commentato il suo riflesso nello specchietto. Febo, istintivamente, ha risposto: "Perché sei la mia stellina".
Subito dopo gli è parsa una frase demenziale e si è pentito di averla detta, ma Virginia gli ha lasciato di nuovo uno dei suoi baci.
Non ha smesso più.
Sono rimasti fino alle tre di notte l'uno a fianco all'altro a dormire sereni, la gamba di lui avvolgeva timidamente quella di Gigi e la sua mano le toccava il seno. Febo si chiede quando il fattaccio sia successo: quando lui stava su di lei o lei su di lui, magari quando l'ha fatto da seduto.
Successivamente il rapporto fra lui e Gigi è diventato più bello, la lontananza non era più tollerabile, peccato che non sono riusciti più a star soli.
Poi, Virginia ha telefonato a Febo.
Capitava spesso che lei fosse incastrata in una noiosa cena di famiglia e lo chiamasse, era così divertente.
"Pronti?!" Era in vena di scherzare.
"Sono incinta" È stata la conversazione più breve che abbiano mai avuto.
Febo si è accertato che lei stesse bene e l'ha pregata di dirgli come l'avrebbe potuta aiutare, Virginia ha troncato presto spiegando che ci avrebbe pensato lei. La mattina seguente è tornata a Roma, Febo le ha mandato fino ad ora novantacinque messaggi e l'ha chiamata cinquantadue volte, questo è il motivo che infradicia il suo cuscino di lacrime.
Lo Xanax comincia ad ovattare quel ricordo, il telefono squilla: solo una notifica di Grindr.
Too many white lies and...
Attiva la modalità aereo, arrivano troppi messaggi.
Febo non ha voglia di essere fantasioso ora, fantasioso nell'inventare scuse per evitare
qualunque contatto umano.
Dai gruppi WhatsApp gli arrivano inviti a fare serata da parte della comitiva del mare o dai cugini di Napoli, altri ragazzi gli scrivono che a breve faranno un salto ad Ischia e che gli piacerebbe salutarlo.
Tutta quella gente penserà:"Quanto ha da fare, Febo...Ed è giovanissimo" Non importa di quanto sia insicuro, verrà sempre visto come un futuro studente LUISS brillante e militante perfetto dei Giovani Democratici. Febo ha capito il segreto del successo: raccontarlo, non averlo. Tu sei l'opinione altrui, se chiunque crede che tu sia una persona di rilievo e impegnata, lo sei.
I meetings su Zoom, le visite ai musei e i convegni di cui parla sono metà inesistenti. In realtà, sta svaccato su qualche poltrona, sdraio o letto.
Da quando è entrato nell'adolescenza, quante bugie ha detto. La più famosa? Sto bene.
Ha paura: paura di annoiare con i propri problemi, paura di ridicolizzarsi, paura che possano usare quelle debolezze a loro favore, paura di far paura.
Perciò, si limita a dire che vada tutto bene.
Gli è successo un mare di volte di imbattersi in un come stai? da parte di un conoscente in strada con il viso fresco di pianto o di ricevere una telefonata nel bel mezzo di un attacco di panico. Inoltre, non gli piace entrare in confidenza perché detesta troppe sue amicizie. È simpatico con uno sconosciuto, altrimenti andrebbe a dire "Febo se la tira", e quello presume di essere suo amico. Febo non può trattare il coetaneo con superficialità di punto in bianco, allora è incastrato in un' amicizia indesiderata.
Gli anglosassoni lo definirebbero people pleaser, non esprime mai il suo pensiero reale, ma solo quello che si aspettano da lui in quanto maschio, figo, benestante, di sinistra, figlio di Onorevole e promessa della società. Febo ha di natura una faccia seria e, come se non fosse abbastanza, un' indole introversa. Però, visto che è oggettivamente bello, a primo impatto scambiano la timidezza per vanità.
Non saluta in una stanza piena di gente perché gli fa venire ansia, non per menefreghismo. Forza un sorriso per convincerti che non ti odia, spontaneamente non lo farebbe, eppure viene ritenuto stronzo lo stesso.
Notano arie scocciate immaginarie, però non notano quanto stia male
Questa riflessione si presenta nella sua testa continuamente, e lo uccide. Raramente c'è chi si ferma a conoscerlo davvero, ciò lo spinge a lavorare al meglio sulle apparenze. Le parole di Febo, le azioni di Febo e il Febo che incontri sono un' intera, grossa, bugia bianca: finta, ma per compiacerti.
...White lines
La definitiva perdita dell'innocenza è quando scopri il motivo per cui spariscono, all'improvviso, gli amici alle feste.
Fino a minuto fa balli e ridi con tre o quattro amici, poi non li vedi più.
Febo supponeva che si scordassero di salutare, tutto qui.
Quando aveva quindici anni Flaminia, sua cugina, gli ha detto: "Vieni con me". E, per la prima volta, è stato lui a sparire in gruppo.
In cinque dentro a un gabinetto nel bagno dei maschi, pure Flaminia. Lei ha tirato fuori dalla borsa una bustina di plastica gonfia. Gonfia di cocaina. Febo non ha fiatato, non che sia un chiacchierone, ed è rimasto ad osservare sua cugina e gli amici.
"Dai, fatti una striscia pure tu!" C'erano diverse linee bianche sullo schermo del telefono di Flaminia.
Come gli altri, ha preso una banconota da cinque euro, l'ha arrotolata e ha tirato sù tutto in un colpo solo. Non ha sentito alcun effetto, normale per la prima "bottarella", quindi ha avuto l'impressione che la cocaina non fosse nulla di speciale.
Poi, ha visto le condizioni di coloro con cui è stato nel gabinetto: un gruppo di zombie. "Usciamo"
E sono finiti sul retro del locale, mentalmente erano ormai distaccati dalla festa. Vomitavano parole, un miscuglio fonetico incomprensibile.
Uno aveva il timore che un certo Chicco lo trovasse in quelle condizioni, l'altro gridava perché aveva dimenticato la macchinetta in doppia fila.
Fumavano di fila sigarette o le chiedevano ai passanti in soggezione, non si sono accorti del disagio di Febo. A stenti hanno ballato al ritmo della musica che veniva dalla disco.
Aver accettato di seguire Flaminia ha cambiato la sua percezione del mondo per sempre.
Quella dinamica dei branchi è diventata impossibile da trascurare, ovunque si trovi la vede. "Possibile che sia così normale pippare?"
Si è domandato.
Febo infila una Terea nella Iluma e finalmente lascia i singhiozzi uscire dalla bocca.
"Ecco perché Papone e gli zii si allontanano finito il pranzo" Ha realizzato il pomeriggio seguente, scioccato. Ha avuto conferme notando linee sbiadite sul comodino attaccato al letto dei genitori, sul tavolo in vetro nel soggiorno.
"Carlo, sembra che hai gli occhi più grossi oggi" Puntualmente, le sue pupille si fanno grosse quasi solo nel fine settimana. Idem quelle di Febo, ora.
Super rich kids, with nothing but loose ends
Il pianto liberatorio è susseguito dalla sonnolenza, Febo è pronto a crollare nel sonno...
La Iluma vibra.
Anche con la nausea, aspira il tabacco riscaldato. Si dimentica di espirare, autonomamente il fumo esce dalle narici. La nicotina lo tiene sveglio, rimanere sveglio significa avere una carrellata di pensieri intrusivi.
Insieme alla Dottoressa Tominetti sta lavorando sul problema del rimuginare, questa nuova psichiatra ha centrato istantaneamente il suo problema.
Era ora, dopo dieci anni.
peccato che tre sedute siano incapaci di metterti la testa a posto.
Il ti chiamerò di Gigi gli rimbomba nelle orecchie, dà un sorso di vino e il vetro gli sbatte contro i denti.
Geme per entrambi i dolori, quello fisico e quello mentale: no, non l'ha chiamato.
Che cosa le ha fatto di male? Voleva starle vicino.
Perché non sono andato a Roma da lei? Gli piomba nel cervello quell'idea, è una domanda seria.
Poteva andarsene con Dado, lui è partito nello stesso periodo di Gigi per quel workshop di recitazione con Nanni Moretti, e invece ha deciso di piangere sotto le coperte come un coglione. "Perché sono un coglione!" Gli occhi si accartocciano e la bocca si contrae, torna a piangere. Dado, Orlando Di Castro... Il rapporto si è incrinato pure con lui, forse non sarebbe stato contentissimo di vederlo.
Fanculo Elia Mastai Ferretti.
Elia, alle elementari, tirava le matite a Lapo e lo offendeva.
Ciccio-Bomba, Balena, Grassone.
Non lo incrociava più perché era tornato a Urbino, era a suo agio fra i paesani a darsi le arie, ma poi è tornato a Roma.
Febo non ha fatto in tempo ad accorgersi che Dado avesse stretto amicizia con Elia. Di botto hanno cominciato a dedicarsi TikToks a vicenda, pubblicare storie Instagram.
Dado sa benissimo la storia del bullismo.
Febo, completamente maturo, ha smesso di scrivere a Dado senza spiegazioni. Papone è il padrino di Dado, è un' amicizia che si portano dalla generazione precedente, e Lapo la sta distruggendo perché non vuole aprirsi.
"E cos'ha detto di me?"
Ha chiesto ieri a Carlo, è stato difficile minimizzare gli insulti.
"Mah... Ha detto tipo che te la credi, da quando lui non è stato ammesso alla LUISS (e tu sì) ti sei messo a fare lo snob. Che se ne andasse affanculo. I soliti sfoghi da alcol, nulla di che"
Febo, dalla rabbia, morde il filtro della Terea fino a staccarne un pezzo. "Che down! È proprio un down, come fa a pensare che io me la tiri!?" Getta a terra la Iluma, beve il suo vino.
Super rich kids with nothing but fake friends
Febo è solo, sbronzo e impasticcato in una delle più belle isole italiane con tutti i soldi immaginabili.
Sì, ha voluto isolarsi, ma questo perché non riesce a pensare a qualcuno con cui voglia stare.
Ha solo amici di.
Gli amici di famiglia, ragazzi che non hanno nulla a che fare con lui, però Papone ci tiene
che lui ci cresca insieme.
Gli amici di scuola, una ventina di suoi coetanei che deve farsi andare a genio per non soffrire per cinque anni.
Gli amici di partito, gli inculcano che devono essere fratelli. Non importa quanto parlino alle sue spalle, ci deve convivere.
Febo si guarda le ciabatte Balenciaga prima di chiudere gli occhi definitivamente, e si accorge che costano cinquecentocinquanta euro.
Il Reddito d'Inclusione è di circa duecentocinquanta euro.
C'è chi dovrebbe morire di fame per comprare le sue scarpe, ecco perché i ragazzi si prendono a spallate per diventare il suo migliore amico: come ha fatto Nevio.
Nevio Loreto, gli ha sporcato la fedina penale e continua a mancargli da matti.
Giocare a calcio non è mai piaciuto a Febo, tantomeno da bambino. Obbligato all'età di sei anni, si era trovato a Roma ad un corso di calcio.
I compagni non gli rivolgevano la parola, eccetto Nevio. Lui e Febo stavano assistendo a una partita degli altri bambini su una panchina, il primo non giocava per incapacità e il secondo per violenza in campo.
"Com'è che te chiami?"
"Febo"
"Io so' Nevio"
"Ok..."
"De do sei?"
"Corso Trieste, te?"
"Pietralata".
Ai bambini frega poco di quelle cose, agli adolescenti maggiormente e gli adulti le chiamano cose fondamentali.
"Nevi', l'amico tuo c'ha i sordi co' 'a pala. Invitalo ar compleanno tuo".
Gli era stato raccomandato dai genitori. Avevano ragione, Nevio ricevette un set enorme di Hot Wheels che tutt'oggi conserva.
"Posso veni' a casa tua, Febo?" L'insistenza non appare pressante a quell'età, perciò Lapo accettava. Tra compleanni e merende, Nevio era diventato il suo migliore amico.
Febo lo considerava tale, finalmente un bambino voleva stare con lui! A Napoli aveva qualche amichetto, ma non il famoso migliore amico.
Il calcio non li aveva divisi, Febo preferì la PlayStation e Nevio entrò nella Primavera. Nevio lo trascinava allo stadio e Lapo quei cori non li imparava mai. A casa sua si tifa Napoli, d'altronde.
"Nevio, devi sempre fa' a botte?" Sembrava che lo dicesse scherzando, invece era genuinamente innervosito. Bastava che un laziale passasse sotto gli occhi di Nevio e lui lanciava una provocazione, in meno di un secondo Febo stava in mezzo a una rissa. Le botte, le spinte, le ha beccate spesso.
Nevio lo trasportava in una violenza che non si limitava alle risse in curva.
"Spicciate, Fe'!" Febo aveva un coltello in mano, le dita gli tremavano. Dovevano bucare le gomme alla minicar di Christian, aveva chiamato Febo "napoletano di merda".
Lui è sempre stato abituato a beccarsi insulti del genere, ma Nevio parve furioso e gli aveva detto di "sgarraje 'a macchina".
In un' altra occasione, Nevio aveva praticamente obbligato Fiber ad accompagnarlo a casa dal Piper con la macchinetta, non si vedeva nulla col buio.
"Accelera, porcoggiuda"
Erano già a cento chilometri, un' auto del genere non dovrebbe superare gli ottanta.
"Statti buono, altrimenti 'sta lattina si ribalta".
Un' Audi li aveva sorpassati, Nevio perse la testa. Si sporse dal finestrino "Aoo, 'a stronzo! Fijo de na' mignotta!" Febo notò che l'auto stesse sul punto di fermarsi, Nevio l'aveva incoraggiato ad accostare, ma accelerò e fuggì a casa di Nevio.
Febo non aveva dormito dalla paura, "Mi avrà preso la targa?...".
Gliene erano capitate tante, questo aveva fatto credere a Febo che avessero un legame profondo, di sangue, dopo quelle avventure.
"Febo, non ti arrabbiare, ma ho visto Nevio prendere venti euro dal tuo portafoglio mentre eri in bagno" Febo lo difese fino in fondo.
"Febo, Nevio non ti ha fatto vedere il telefono prima perché si stava scrivendo con i ragazzi del calcetto. Mi starò sbagliando, ma c'era una tua foto dov'eri nudo, stavi nello spogliatoio." Lo difese di nuovo, passando alle mani alla maniera del migliore amico.
Uno che ti vuole male, non sta con te ventiquattr'ore su ventiquattro... Pensava.
Nei giorni dell'occupazione, prima metà della quinta liceo, Nevio si rivelò per quello che era sempre stato. Lui e Febo erano rimasti a dormire a scuola, e soprattutto Nevio, se ne approfittò: giochi con gli estintori, carta igienica in giro per i corridoi, gabinetti spaccati
. Il nome di Nevio Loreto uscì presto, aveva dovuto dichiarare i suoi complici: Ludovico di seconda alla succursale, un insopportabile burino di un metro e cinquanta.
Linda di quarta, indifendibile, si era messa in mostra sui social. Qualche altro idiota,
e Febo.
Con una falsa voce tremante, si era dilungato sulle gesta di Lapo mai compiute. "Io lo assecondavo, erano tutte iniziative sue. Davvero".
Ignorò Febo per il resto dell'anno, nonostante stessero nella stessa classe. Lapo tentò di avere un dialogo, un fallimento.
Lo costrinse a chiamare gli avvocati, i Loreto si presero diecimila euro per togliere la denuncia.
Tredici anni da fratelli liquidati con diecimila euro.
Non importa cosa stia passando Febo, lui sa che potrebbe andare meglio, la perfezione delle giornate è con Nevio al suo fianco. Una metà della sua vita è mancante ed è impossibile anche negarlo.
Ora deve vivere con un' orribile certezza: con alte probabilità, non avrà mai un vero amico. Il suo cuore invecchierà da solo e già comincia a farsi arido, Febo si addormenta senza poterlo confessare a qualcuno.
«Quel giorno aveva il volto di un Gesù crocifisso dieci volte e sembrava più vecchio dei suoi trentaquattro anni. Sulle guance pallide si affondavano già alcune rughe, tra i suoi capelli spuntavano già ciuffi bianchi, e i suoi occhi erano due pozze di malinconia. O di rabbia? Quando rideva non credevi al suo ridere…»
Un Uomo di Oriana Fallaci è un libro dalla densità narrativa spesso insormontabile, a tratti pesantissimo e disturbante, a tratti dolcissimo e pieno di umanità. Così denso e spietato, è il ritratto fedele di una vita che ha segnato il Novecento, ed è questo a renderlo un grande romanzo. Fallaci infatti promette al suo compagno Panagulis di scrivere un libro sulla sua vita nell’eventualità in cui lui fosse morto prematuramente.
Per tratteggiare la figura di quest’uomo straordinario che ha fatto la storia potremmo dire che Alekos Panagulis nasce in Grecia, nazione che ama e di cui ama soprattutto la democrazia. Possiamo dire che si arruola nell’esercito, ma che a soli 26 anni è già un disertore, perché quando, dopo il golpe, la Giunta dei Colonnelli prende il potere instaurando una dittatura lui si rifiuta di servire un totalitarismo e diserta. Oppure ricordiamo che dopo un attentato mal riuscito alla vita di Papadopoulos, reggente della dittatura, viene arrestato e portato in carcere dove spenderà gli anni della sua vita dal 1968 al 1973. E cosa ancora più importante dovremmo riportare che quando viene rilasciato per amnistia lui non vuole lasciare la prigione, non vuole la grazia di un dittatore. Infine forse sarebbe il caso di ricordare che la sua lotta personale a tu per tu con la dittatura dei Colonnelli che aveva ridotto la sua democrazia in ginocchio non cessa mai, neanche quando la dittatura cade, neanche quando è costretto a fuggire in Italia, neanche quando sa di star per essere assassinato. Oriana Fallaci di questo Uomo coraggioso si innamora e dal giorno in cui lo incontra ad Atene per intervistarlo non lo lascia più con la mente fino alla morte della giornalista nel 2006. Si conoscono il giorno dopo la scarcerazione di Alekos a casa di sua madre. È estate, l’aria è afosa e il sole impietoso, lui la aspetta con un mazzo di fiori. Vuole ringraziarla della compagnia che gli ha tenuto in prigione con i suoi libri e con i suoi articoli. L’intervista dura tutto il giorno e alla sera il lavoro non è ancora concluso. Oriana si è scordata di cercare un hotel per la notte e ha dimenticato di dover prendere un aereo per Bonn il giorno seguente: è quindi costretta a spendere la notte nello studio dell’eroe. È in questo momento che tra i due avviene uno scambio densissimo che poi darà il titolo a questo libro e che sarà simbolico per conoscere la persona di Alekos. Alla fine della sua intervista per Intervista con la Storia, Oriana chiede:
«Alekos, cosa vuol dire essere un uomo?»
«Significa avere coraggio, avere dignità. Significa credere nell’umanità. Significa amare senza permettere a un amore di diventare un’àncora. Significa lottare. E vincere. Guarda, più o meno quel che dice Kipling in quella poesia intitolata Se. E per te cos’è un uomo?»
«Direi che un uomo è ciò che sei tu, Alekos».
Dopo quel 22 agosto Alekos e Oriana diventano compagni di vita. Lei lo spinge a intraprendere un breve periodo di esilio in Italia e lui, dopo numerose proteste, soccombe consapevole di rischiare la vita ogni giorno in Grecia e di necessitare di un appoggio politico maggiore, senza però riuscire a trovarlo. I due girano l’Europa partecipando a comizi e assemblee nel tentativo di racimolare fondi e conquistare compagni e sostenitori. Oriana tenta di tenere Alekos lontano dalla Grecia dove, prima o poi, già lo sa, lo avrebbero ucciso. E lui, che era un poeta e un democratico ma non un politico, si incarta davanti alle folle, biascica durante i discorsi, discute furiosamente con chi gli pone domande o dubbi. Aveva idee chiare ideologicamente, ma politicamente incompatibili con i maggiori partiti. Veniva spesso frainteso o per nulla compreso.
In questo periodo si manifesta tutto il disagio di un uomo che ha vissuto la violenza e la reclusione. È intrattabile e aggressivo a tratti, spesso ingestibile; talvolta finge di disprezzarla per litigare e partire per la Grecia di nascosto senza rimorsi. E lei tormentata gli corre dietro, ora accontentando i suoi capricci e ora discutendo furiosamente. Poi finalmente nel 1974 cade la Giunta dei Colonnelli e Alekos torna in Grecia. Comprende presto che per continuare la sua lotta deve entrare nel parlamento e si unisce a l’Unione del Centro per candidarsi. Dopo una campagna elettorale a dir poco disastrosa viene inaspettatamente eletto e inizia la sua carriera da deputato del collegio di Atene. Lo scopo di Panagulis è trovare i documenti che attestino la collaborazione tra gli uomini ancora al governo e gli ex rappresentanti della Giunta ma il percorso è lungo e tortuoso e la sua personalità gli è d’ostacolo. Le sue critiche al sistema politico e le sue posizioni radicali non sono scomode solo per lui, ma soprattutto per i suoi colleghi. Nello stesso periodo viene chiamato a processo per testimoniare contro gli stessi uomini che qualche anno prima lo avevano torturato giorno e notte. In tribunale Alekos si mostra ancora una volta sprezzante nei confronti dei magistrati. Ingaggia una discussione con uno di questi e ribadisce di non aver mai avuto bisogno che cambiasse il regime per accusare gli uomini che ora erano lì imputati e che in passato erano stati i suoi aguzzini. Ma al momento di testimoniare non indugia in racconti delle violenze subite, non riporta i dettagli delle torture, degli abusi, delle minacce, il terrore vissuto nell’attesa di essere giustiziato all’alba di ogni giorno per tre anni. Liquida tutto in trenta minuti e dice di aver perdonato i suoi torturatori perché schiavi del regime. E anche contro Zakarakis, direttore del carcere di massima sicurezza di Boiati durante il periodo della sua detenzione, ha poco da dire. Dopo il processo riprende la ricerca dei documenti, li consegna ad Oriana per farli portare al sicuro in Italia e contemporaneamente continua a lanciare accuse ai politici che avevano collaborato col regime. Poco tempo dopo la sua elezione si allontana dal leader del suo partito dopo la richiesta respinta di epurazione di un collega ex sostenitore della Giunta. Nella sua ricerca era infatti riuscito a scovare dei documenti dell'ESA (i servizi segreti ellenici) che testimoniavano i rapporti tra alcuni politici e il regime greco. Tra tutti era spiccato Evangelos Averoff che ora Ministro della Difesa deteneva un potere maggiore di quello di un Presidente della Repubblica e aveva al suo servizio un esercito che per metà era ancora costituito dagli stessi uomini che avevano servito la dittatura. Le sue accuse lo portano quindi in aperto scontro con il Ministro della Difesa. Decide infine di dare le dimissioni dal partito ma rimane indipendentemente nel parlamento Ellenico.
Tutto d’un tratto però le indagini vengono zittite dalla morte di Panagulis.
«L’ultimo giorno della tua vita si levò dentro un cielo grigio, di piombo… Stranamente avevi fatto un buon sonno e, quando tua madre ti portò il caffè, eri già in piedi…»
È la notte tra il 30 Aprile e il 1 Maggio. La notte precedente c’è stata una tempesta, il clima è stato impietoso. Le piante e i fiori distrutti dalla pioggia marciscono a terra, calpestati. Poco dopo l’una Alekos insiste per accompagnare a casa i suoi ospiti, nonostante il loro quartiere fosse lontano e fosse ormai tarda notte. In tasca porta gli oggetti di tutti i giorni: pipa, sigarini, tabacco, penne, block-notes. Nel taschino interno della giacca un documento importante che aveva paura persino a fotocopiare. Le dinamiche dell’incidente non sono ancora chiare: non solo c’è un vuoto di venti minuti nella ricostruzione temporale degli eventi, ma è anche improbabile che si sia trattato di Panagulis, come invece sostengono gli inquirenti. A debilitare ulteriormente la teoria dell’errore umano interviene la presenza di Michele Steffas sulla scena, militante di destra e pilota professionita, che fa deliberatamente omissione di soccorso.
Secondo la polizia greca la situazione è inequivocabile: ci sono i testimoni, tra cui Steffas, e la morte è stata causata da una vista dell’autista. Ma agli occhi delle periti italiani che intervengono è chiaro che sia avvenuto uno speronamento da due automobili studiato ad arte. È quindi più probabile che Alekos si sia trovato tra le braccia della morte e che sia corso incontro alla sfida invece di fuggire via.
Il cinque maggio attorno alla Cattedrale di Atene un milione e mezzo di persone gridano «Zei, zei, zei!» (Vive, vive, vive!). La folla lo acclama, piange, strepita, impossibilitando lo svolgimento delle esequie. La Grecia si riversa tra le strade; come un ambiguo corpo sussulta, si allunga e si ritrae, impazzisce davanti alla salma inerte dell’eroe che giace dietro la teca di cristallo sottile. Vive, vive, vive!
Per un istante la democrazia pare morta. Poi trova un nuovo corpo e scivola via.
Se ci si trovasse per caso a sfogliare un libro di storia inglese, e si volesse leggere di uno sbarco di successo, si dovrebbe guardare molto indietro. La “motherland” risulta inviolata da ormai quasi 1000 anni, e non certo per mancanza di tentativi; ogni flotta che abbia mai tentato di sbarcare in Inghilterra è stata inevitabilmente sconfitta dalla Royal Navy.
L’ultimo uomo a riuscire in questa impresa apparentemente impossibile fu Guglielmo II di Normandia, divenuto noto successivamente con il soprannome “il Conquistatore”. Come spesso accade nella storia, all’origine di questo conflitto ne giace un altro. All’inizio del XI secolo infatti i danesi invasero l'Inghilterra, e l’allora 12enne Edoardo I fu costretto a fuggire in Normandia ospite del duca, parente della madre. Nei 25 anni di esilio Edoardo divenne il tutore di Guglielmo, a seguito della morte del padre di questo durante una crociata. Edoardo riuscì poi a sedere sul trono che gli spettava di diritto. Alla sua morte si scatenò però un conflitto su due fronti che avrebbe completamente stravolto l’Inghilterra.
Infatti subito dopo la dipartita di Edoardo la mancanza di un erede diretto portò il trono nelle mani di un suo abilissimo, ma molto spregiudicato, consigliere: Harold Godwinson, conte di Wessex e di Herford. La dubbia legittimità del suo diritto al trono portò due sovrani stranieri a contestarne l’autorità e a tentare di conquistarlo per sé con le armi.
Il primo a raggiungere le coste dell'Inghilterra fu Harald III, leggendario avventuriero vichingo e re di Norvegia; la sua pretesa si basava su un accordo stipulato nel 1038 tra il re norvegese e inglese secondo cui, se uno dei due fosse morto, l'altro avrebbe ereditato le sue terre. Dopo aver raccolto le proprie truppe Harald iniziò una serie di incursioni di successo che lo portarono anche ad ottenere la resa di York, importante città dell’Inghilterra Settentrionale. Harold si era contemporaneamente mosso verso nord con il suo esercito e il 25 settembre aveva raggiunto le forze norvegesi soprendendole a Stamford Bridge. Le truppe inglesi erano più numerose e meglio corazzate e, nonostante il tempo guadagnato grazie alla resistenza disperata di un singolo soldato norvegese sul ponte, schiacciarono facilmente l’esercito di Harald, che perì negli scontri portando i suoi uomini alla fuga.
Guglielmo aveva intanto raccolto le proprie truppe ed organizzato una flotta in Normandia, raggiungendo così la costa sud dell’Inghilterra il 29 settembre ed occupando e fortificando la città di Hastings. L’arrivo dei normanni costrinse lo stremato esercito di Harold ad una marcia forzata verso sud che li portò ad incontrare le truppe di Guglielmo il 14 ottobre nella pianura di Telham Hill.
Le truppe sassoni erano schierate strettamente sul versante di una collina risultando così impervie alle cariche di fanteria normanna. Un’abile finta fuga convinse gli inglesi ad inseguire gli avversari, rompendo la formazione e permettendo alla cavalleria Normanna di accerchiarli e sconfiggerli. Durante il resto degli scontri rimase ucciso anche il re Aroldo, ponendo così definitivamente fine al conflitto.
Guglielmo, appena asceso al trono, si trovò a dover implementare delle misure per affrontare l’alto rischio di rivolta; innanzitutto indette un censimento, il primo completo della storia inglese, chiamato "Doomsday Book”, successivamente fu il primo ad indire un coprifuoco per indebolire possibili movimenti cospiratorii.
La più grande e importante novità del regno del “conquistatore” fu la quasi totale sostituzione della nobiltà inglese con aristocrazia di origine normanna, e quindi di lingua francese. L’avvento di questa nuova classe dominante ebbe un effetto peculiare sulla storia linguistica inglese: tutti i termini tipici di uno stile di vita più agiato, per esempio i nomi dei tagli di carne (beef, mutton, pork), sono di origine francese mentre invece i nomi più “comuni” di origine sassone, si pensi a quelli degli animali da allevamento (cow, pig, sheep).
La storia di un’idea fin troppo innovativa e il racconto di un tipo di politica che sembra ormai perduto.
«Non siamo stati né noi né voi, compagni francesi, a coniare il termine di “eurocomunismo” con riferimento particolare alle posizioni su cui convergono i nostri partiti. Ma il fatto stesso che questo termine circoli così largamente sulla stampa internazionale e sollevi in campi diversi tante speranze e tanti interrogativi è un chiaro segno dell'interesse con cui si guarda ai nostri due partiti, alle loro posizioni e iniziative nella vita politica interna e alla visione che essi hanno dei problemi del cammino verso il socialismo e dei peculiari caratteri che esso deve avere in paesi come i nostri.»
Parigi 1976. In occasione di un comizio congiunto del Partito Comunista Italiano con il Partito Comunista Francese, Enrico Berlinguer pronunciò queste parole. Era su una tribuna dove, simbolicamente, erano state affiancate la bandiera dell'Italia e quella della Francia. Con il termine "Eurocomunismo", Berlinguer definì il progetto visionario promosso dai tre partiti comunisti con il maggiore radicamento sociale in Europa: il PCI, PCF e PCE (rispettivamente Partito Comunista Italiano, Parti Communiste Français e Partido Comunista de España), i quali si impegnavano a proporre una diversa applicazione del marxismo, basata sulla partecipazione cosciente delle masse.
Insieme a Georges Marchais e Santiago Carrillo Berlinguer comprese che per poter sfruttare in modo adeguato il loro grande consenso popolare era necessario attuare profonde modifiche ideologiche che avrebbero inevitabilmente provocato una rottura con il Partito Comunista dell’URSS, il quale finanziava e influenzava tutti i partiti comunisti d’Europa. Ovviamente, il PCUS non vedeva di buon occhio questa nuova forma di comunismo per i suoi ideali troppo moderati e non in linea con il leninismo.
In particolare, l’Eurocomunismo indica una «via europea» al socialismo, cosciente della società capitalistica contemporanea e caratterizzata da un forte sentimento democratico. Talmente forte che Berlinguer, in occasione delle celebrazioni del 60º anniversario della Rivoluzione d'ottobre definì la democrazia «un valore storicamente universale». Pronunciò queste parole rivoluzionarie al Cremlino, dove il potere era nelle mani di un sistema monopartitico.
Non a caso, l'Eurocomunismo era la base del «compromesso storico», cioè il tentativo del Partito Comunista Italiano di trovare un accordo politico con la Democrazia Cristiana, al fine di formare un governo di collaborazione e di intesa tra le forze popolari di ispirazione marxiste e le forze popolari di ispirazione cattolica. Questa idea promossa con Aldo Moro fu fortemente ostacolata sin dall'inizio, in quanto implicava che un partito di stretti legami con l’Unione Sovietica governasse in piena Guerra Fredda un paese come l’Italia, sottomesso agli USA e membro NATO. Il forte dissenso dell'estrema sinistra verso il compromesso storico comportò il rapimento del Presidente Moro nel 1978 da parte di un commando delle Brigate Rosse, i quali lo assassinarono il 9 Maggio dello stesso anno, dopo cinquantacinque giorni di prigionia.
L’ambizione del compromesso storico scomparve quel 9 Maggio, e questo pezzo di storia del nostro paese suscita a mio avviso una riflessione: ci si chiede spesso come mai negli ultimi anni la partecipazione politica e l’engagement siano in continuo calo (soprattutto tra i giovani), e ci si ritrova continuamente ad alternare forze politiche incompetenti e scoraggianti; mi chiedo quindi se questo declino possa essere attribuito all’assenza nella politica italiana contemporanea di figure politiche carismatiche, oneste e che abbiano realmente a cuore le questioni del paese. Figure come Moro, Berlinguer, Pertini o Matteotti: uomini dai quali si poteva liberamente dire che vivessero “per” la politica e non “di” politica.
La storia dell'intelligenza artificiale ha avuto inizio quasi settant'anni fa. In quell'anno, il brano Che bambola di Fred Buscaglione conquistava le classifiche italiane, Grace Kelly e Raniero di Monaco si univano in matrimonio, la trasmissione televisiva a quiz Lascia o raddoppia? condotta da Mike Bongiorno diventava un grande successo della giovane televisione italiana e il poeta nicaraguense Rigoberto López Pérez attentava alla vita del dittatore Anastasio Somoza García, che morirà una settimana dopo.
Oggi, l'intelligenza artificiale permea ogni aspetto della nostra vita quotidiana: è utilizzata in ambito medico, ci aiuta a trovare l'abbinamento ideale su Tinder, ChatGPT risponde alle nostre domande e offre vantaggi strategici cruciali nei contesti bellici. Sebbene i benefici siano evidenti, è fondamentale avviare un dibattito sui rischi connessi a questa tecnologia. Ma come si possono identificare questi rischi? La chiave sta nel riflettere sul ruolo che vogliamo che l'intelligenza artificiale abbia nella nostra società.
Per evitare di cadere nella consueta retorica del “l’intelligenza artificiale ruberà il lavoro”, che conduce a una demonizzazione indiscriminata della tecnologia, dobbiamo adottare un approccio più astratto e chiederci quale tipo di strumento vogliamo che l’IA sia nelle nostre vite.
A mio avviso, l’aspetto più stimolante dell'IA è vederla come un acceleratore della crescita intellettuale, culturale e sociale delle persone, in grado di valorizzare l’essere umano anziché sostituirlo. Ma come possiamo verificare se questa visione si realizza?
È cruciale identificare quali valori riteniamo fondamentali e confrontarli con l’intelligenza artificiale di oggi per stabilire come regolarne l’utilizzo in futuro.
• Inclusione: L'inclusione è diventata un aspetto imprescindibile. Anni di disuguaglianza e stigmatizzazione hanno reso evidente l'importanza di proteggere le categorie più vulnerabili. Potrebbe l’intelligenza artificiale condurci a una regressione? Se i dati utilizzati per addestrare l’AI non sono equi, il sistema potrebbe discriminare alcuni gruppi. Inoltre, una digitalizzazione eccessiva potrebbe escludere certe sezioni della società.
• Libertà: In una democrazia, la libertà rappresenta un principio fondamentale. Le tecniche di machine learning, spesso poco chiare, complicano la comprensione del modo in cui le macchine prendono decisioni. Questo può danneggiare la fiducia tra gli esseri umani e l’AI, ostacolando la collaborazione. Pensiamo all'uso di algoritmi in ambito elettorale, che possono manipolare le nostre scelte e indirizzarci verso determinate ideologie.
• Creatività e istruzione: La nostra capacità di esprimere creatività è ciò che ci distingue dalle macchine. È essenziale proteggere il nostro processo di apprendimento e le risorse che ci permettono di esprimerci. La capacità dell'AI di generare testi e immagini solleva interrogativi riguardo agli effetti sui sistemi educativi e sulle professioni creative. Se gli studenti fanno affidamento su strumenti come ChatGPT per completare i loro compiti, ci si interroga su come ciò possa influenzare la loro capacità di innovare.
• Informazione: La libertà di accesso alla conoscenza è essenziale per un pensiero critico. L’AI ha la capacità di produrre contenuti falsi o fuorvianti. In assenza di un controllo adeguato, la diffusione di tali informazioni può minare la fiducia nei fatti, sia a livello locale che globale.
• Benessere: È fondamentale garantire che l’AI non comprometta la nostra sicurezza fisica e mentale, né il nostro benessere generale. Gli algoritmi dei social media, progettati per tenerci incollati allo schermo, possono avere un impatto negativo sulla nostra salute.
Questa lista potrebbe essere ampliata includendo ulteriori valori importanti per ciascuno di noi. Quali misure possiamo adottare affinché la tecnologia non li danneggi? È indispensabile implementare politiche statali coerenti, basate su principi etici e non su interessi economici o di potere da parte di grandi aziende tecnologiche.
Ma a livello individuale, possiamo fare qualcosa? Ognuno di noi ha l'opportunità di interagire con la tecnologia in modo consapevole, responsabile e rispettoso. Non dobbiamo accettare passivamente l’AI, ma sfruttarla per arricchire le nostre conoscenze, esplorare nuove idee, interagire con gli altri e collaborare. È essenziale integrare nella nostra vita quotidiana il principio di utilizzare la tecnologia per migliorare noi stessi, creando così un futuro in cui l’AI supporti i valori a noi cari.
Un modo di vivere? Una canzone di Fedez? Il modo in cui tutti speriamo di rivedere i nostri ricordi nei nostri ultimi momenti? Partiamo dall’inizio: La dolce vita (1960) è un film di Federico Fellini che racconta le vicende di Marcello, giornalista di successo che vive in una Roma divistica in cui i rotocalchi formano e influenzano la cultura dello spettacolo. I paparazzi fotografano e inseguono le celebrità a lavoro e in villeggiatura; gossip, scandali, inseguimenti e le lampadine dei flash delle macchine fotografiche lasciate per terra come a segnare un percorso attorno ai soggetti dei loro obiettivi - Via Veneto era il centro del mondo e probabilmente Alighieri non l’avrebbe varcata. Feste, cocktail party con grandi personalità erano la regola, e tutto pareva pervaso da una sorta di euforia generale che contagiava chiunque si avvicinasse ai confini romani.
Un episodio in particolare è rappresentativo di questo fervore, da cui Fellini stesso prese ispirazione, cioè lo spogliarello del Rugantino del 1958 ad opera della danzatrice turca Aiché Nanà che rimase in mutande davanti a tutti gli spettatori. Il numero portò all’irruzione della polizia nel locale portando molti dei presenti in questura; la spogliarellista con il fidanzato, due principi, un marchese, vari musicisti e il proprietario del locale vennero rinviati a giudizio per atti osceni in luogo pubblico.
Ma cos’era successo? Forse il Papa era diventato Bacco o forse ci fu un particolare contesto politico-culturale. Nel 1960 la Democrazia Cristiana era al governo rappresentando la forte componente religiosa cattolica di cui era composta la penisola in quel momento, eppure questa voglia di divertimento e spettacolo sembrava trasgredire lo status quo. La generazione dell’epoca visse anni più che duri con il secondo conflitto mondiale e il conseguente dopoguerra, tanto che una volta calmate le acque fuoriuscì, molto comprensibilmente, una relativa voglia di leggerezza e divertimento.
Se aggiungiamo che tra fine anni ’50 e inizio ’60 il paese stava attraversando il cosiddetto boom economico, troviamo una combinazione che serve su un piatto d’argento l’offerta alla domanda. Osserviamo dunque come i valori cattolici assoluti si incrociarono con la ripresa economica che favorì lo sfogo di un certo sentimento nazionale condiviso dai più dei sopravvissuti, quali altri fattori servono per inaugurare una stagione di trasgressione?
Ecco, aggiungerei un breve approfondimento per cercare di descrivere meglio il fenomeno, cioè Roma città eterna, come sfondo, scenografia e campo di attrito. Vale a dire che l’ethos sociale che andava cambiando, inflazionato dalla cultura di massa del ‘900, che nella sua versione più estrema portò alla globalizzazione, generava nuovi valori e visioni. Queste novità collidono con il classico, con i valori storici e cristiani di cui Roma è pregna, diventando così una scena in cui vecchio e nuovo convivono in una frizione e creano quell’estetica e tipo di società.
Tuttavia non tutti si sentirono inglobati in questa febbre ‘dolcevitistica’, probabilmente perché Fellini rappresentò un sentimento, l’emozione della festa che caratterizzava la società dello spettacolo. Allora verrebbe da pensare a La dolce vita come un falso, una riproduzione dei vaneggiamenti del regista e delle sue cerchie. Quel che è certo è che se anche nel film tutto è una riproduzione (come Via Veneto), l’episodio del Rugantino come molti altri, le celebrità e il cinema in fermento, erano realtà. E se non a tutti sembrarono anni di festa, probabilmente non tutti furono invitati.
‘’Un viaggio tra sogni, amore e arte – Perché il capolavoro di Damien Chazelle è già una colonna portante del cinema del XXI secolo.”
Quando l’uomo disegnava nelle caverne, l’attenzione era rivolta solo al messaggio: "Attenti ai lupi!", "Il fiume è qui". Solo in seguito l’umanità ha imparato a riconoscere e apprezzare l’arte per le sue qualità tecniche. Questo è ciò che ha permesso ad artisti come Da Vinci, Caravaggio e Van Gogh di emergere dal mare di altri talenti. Il gusto dell’uomo, quindi, oscilla costantemente tra oggettività e soggettività, in una continua tensione tra critica e pubblico.
Nel cinema, solo pochi film riescono a conquistare entrambi questi mondi, entrando a far parte della ristretta cerchia dei classici. Casablanca (1942), La Dolce Vita (1960) e Pulp Fiction (1994) sono capisaldi del cinema, punti di riferimento che condividono elementi comuni: l’ammirazione della critica, la capacità di resistere al passare del tempo, e soprattutto il fatto di restare indelebili nella mente degli spettatori.
Per capire se un film recente come La La Land possa aspirare a entrare in questo prestigioso gruppo, possiamo partire dal suo titolo: un gioco di parole che unisce la nota musicale "LA" e la città dei sogni, Los Angeles. Infatti i protagonisti, Sebastian (Ryan Gosling) e Mia (Emma Stone), sono due aspiranti artisti nel mondo della musica e del cinema. Sarà proprio questo desiderio di realizzazione personale a mettere alla prova la loro storia d'amore.
Il film, diretto da Damien Chazelle e uscito nel 2016, ha raccolto numerosi riconoscimenti: sei Oscar, sette Golden Globe e cinque British Academy Film Awards. La critica ha elogiato La La Land come un tributo ai sogni del passato, una celebrazione dell’arte in tutta la sua bellezza. Un importante critico ha scritto: “La La Land vuole ricordarci quanto siano belli i sogni semi-dimenticati dei tempi andati, quei sogni fatti solo di facce, musica e movimento. Ha la testa tra le nuvole, e per poco più di due ore, porta il pubblico lassù con lui”. Inutile dire che la sua dichiarazione fu lungimirante: il film incassò 446 milioni di dollari a fronte di un budget di soli 30 milioni.
Un aspetto particolarmente interessante del film è stato oggetto di studio: la cosiddetta "teoria del colore". Il regista Chazelle e il direttore della fotografia Linus Sandgren utilizzano in modo dominante il blu, il rosso e il viola, ciascuno con un significato preciso. Il blu richiama la vecchia Hollywood e simboleggia i sogni e la creatività degli artisti. Il rosso, solitamente legato alla passione, diventa qui un elemento antagonista, emergendo nei momenti in cui Sebastian e Mia si scontrano con le dicoltà della vita. Il viola, la fusione dei due colori, rappresenta l’amore e si manifesta nei momenti chiave della loro relazione: dall’incontro e il primo bacio, passando per il loro litigio, fino alla riconciliazione finale.
Il 29 ottobre scorso la Spagna è stata scossa da una tragedia immane: un alluvione che ha spazzato via le vite di 226 persone (e di 13 dispersi) e distrutto case, negozi, macchine, e i sogni di chi è stato costretto a guardare impotente la furia di una natura sempre più avvelenata dagli esseri umani. O per meglio dire, dall’assoluta minoranza degli esseri umani.
Ma oltre al discorso sul cambiamento climatico, sempre più ignorato e lasciato ai margini, questa deve essere un’occasione per riflettere su una decisione politica. Una decisione che ha mostrato tutta la sua vulnerabilità e inefficacia in questo massacro. Una decisione che sta arrivando anche in Italia.
La Spagna ha sofferto lo stivale di una dittatura fascista fino al 1975. Francisco Franco costrinse tutta la Spagna a diventare Castiglia, un centralismo talmente forzato e imposto che neanche i Borbone prima di lui si erano spinti a tanto. L’odio e la discriminazione verso coloro che non parlavano castigliano e verso le loro culture assunse una violenza che adesso è difficile immaginare passeggiando per le affollate e luminose strade di Barcellona o Bilbao. Quando finalmente il dittatore morì, la popolazioni represse ormai avevano inevitabilmente associato all’idea di stato, alla bandiera di Spagna, lo stivale dell’oppressore e non credevano più ad una Madrid che potesse essere loro amica, o nemmeno loro connazionale. Le bombe dell’ETA risuonarono ancora più forte dopo Franco. Tutto ciò portò ad una reazione dell’Assemblea Costituente drastica, assoluta e, purtroppo, eccessiva. Formata da 7 Padri Costituenti, di cui uno direttamente esponente delle minoranze basche e catalane e un altro del PCE (Partito Comunista Spagnolo) legato profondamente alla Catalogna (tanto che nel 1989 si unirà al PSC, partito socialista catalano), pone come priorità assoluta dello Stato il riconoscimento, la protezione e il diritto all’autonomia delle regioni dello Stato, che per sottolineare il concetto vengono chiamate “Comunità Autonome” (Art. 2-3 della Costituzione Spagnola).
Il successivo Articolo 143 tratta la legislazione delle Comunità, dichiarando la formulazione dei loro rispettivi Statuti e l’autogoverno. Autogoverno che comprenderà una lista di competenze (22 di preciso), ma con la possibilità di ampliamento a piacimento tramite le riforme dei propri Statuti, garantendo allo Stato solo le funzioni elencate nell’articolo 149 (32).
In seguito, nei vari governi spagnoli che si sono succeduti, i partiti regionali hanno sempre avuto un notevole peso, sbilanciato rispetto ai loro elettori, specialmente per fare da ago della bilancia tra maggioranze di destra e di sinistra e garantire la stabilità dei governi (per raggiungere la maggioranza assoluta, e quindi formare governi stabili, i partiti di massa di destra e sinistra hanno spesso dovuto fare affidamento ai piccoli partiti indipendentisti, che quindi fungevano da ago della bilancia e garanti della stabilità governativa perché se ritiravano la fiducia cadeva il governo). Stabilità che non viene garantita gratuitamente, ma pretendendo il mantenimento, se non il rafforzamento, del fortissimo regionalismo spagnolo. Sino ad arrivare al tentativo di secessione della Catalogna nel 2017 e all’attuale governo Sanchez III, che si regge su una sottilissima maggioranza garantita solo dalla forzata alleanza coi partiti indipendentisti baschi e catalani.
Ad oggi le comunità autonome hanno un’assemblea legislativa indipendente, sono rappresentate da 58 senatori (su 266), e hanno un organo esecutivo rappresentato da un presidente e un consiglio di governo. Controllano materie critiche come infrastrutture, educazione, sanità, ordine pubblico e parte del potere giudiziario tramite tribunali regionali.
E perché questo dovrebbe essere un problema? La decentralizzazione dei poteri dovrebbe essere efficace per riconoscere e colpire problemi locali con misure specifiche, che il lontano governo centrale difficilmente potrebbe notare e contrastare con la rapidità ed efficacia adatte. Il problema nasce quando questo processo, reso così radicale dalla storia di Spagna, è in mano ad una classe politica incapace di gestirlo.
Torniamo all’alluvione, alle case inondate, ai sogni spezzati. Ai morti.
Il 29 ottobre, già alle 7:36, l'AEMET, l’agenzia metereologica nazionale spagnola segnala l’allerta rossa per la regione di Valencia, ma quando l’alluvione, intorno alle 11:00, inizia ad abbattersi sui comuni di Utiel e Requena, facendo esondare il Rio Magro e spostandosi gradualmente dall’interiore verso la costa nessun cittadino aveva ricevuto alcun avviso dalle autorità della Comunità Autonoma, responsabile di diffondere l’allarme. Persino l’esondazione del bacino idrologico di Forata, ultima difesa dall’acqua dei comuni costieri, avvenuta verso le 19:00, non venne considerata sufficiente per lanciare l’allarme, e solo alle 20:12, quando ormai le inondazioni avevano raggiunto la costa, densamente abitata, il presidente della Comunitat Valenciana, Carlos Mazòn (PP), diramò l’allarme tramite messaggio d’emergenza sui cellulari dei cittadini.
Questo ritardo nell’avviso, purtroppo è stato solo il preludio del ritardo generale dell’intervento dello Stato (inteso sia come organo centrale che regionale). Infatti la Comunità Autonoma dichiara l’alluvione come emergenza di livello 2, quindi di sua competenza, con possibile aiuto del governo centrale, ma decidendo di tenerlo da parte. Mentre, da Madrid, il premier Sanchez (PSOE), decide di non aumentare il livello di allarme e perciò non assumere nelle sue mani, che rappresenterebbero quelle di tutta Spagna, la responsabilità di coordinare gli aiuti. Il fatto che lo Stato centrale si tenga, e venga tenuto, da parte impedisce la centralizzazione delle risorse di sua competenza: le forze armate, le risorse di altre regioni e le migliaia di volontari che da altre regioni arrivano nella Comunitat Valenciana.
Questa mancata coordinazione di aiuti e risorse ha creato gravissimi problemi nelle manovre di salvataggio, portando alla scarsità di mezzi e specialisti accorsi nei luoghi del disastro, che poterono raggiungere alcune località rimaste isolate solamente 72 ore dopo l’alluvione, quando era ormai praticamente disperata la ricerca di superstiti. Per giorni alcuni comuni sono rimasti senza acqua potabile, elettricità o connessione ad Internet e migliaia di sfollati senza rifugio dopo aver perso le loro case.
Un ritardo imperdonabile, motivato principalmente dalla paura di assumersi la responsabilità della propria debolezza e inadeguatezza da parte della Comunità Autonoma e di assumersi la difficoltà di coordinare gli aiuti di tutta Spagna da parte del governo centrale. Paura di fare brutta figura e perdere elettori, figlia di una situazione particolare: il governo centrale in mano al Partito Socialista e Operaio Spagnolo (centro-sinistra) e la Comunità Autonoma governata dal Partito Popolare (centro-destra), in un sistema partitico a strettissima competizione, con pochi punti percentuali a spostare l’ago della bilancia. Situazione che riempie di vuote accuse politiche un momento che sarebbe dovuto essere nel segno della solidarietà e del lutto nazionale.
Ora, l’Italia è il paese a più alto rischio idrogeologico di Europa, e una legge, fortemente voluta da questo governo e passata in Camera dei Deputati, autorizza le Regioni a richiedere al governo di amministrare 23 nuove materie, dalla sicurezza del lavoro all'istruzione, dal commercio estero all'energia, fino ai trasporti e alla valorizzazione dei beni culturali. E la protezione civile. Spostando l’ordinamento spaventosamente vicino alla situazione spagnola, in cui le emergenze e disastri naturali vengono usati a scopo politico, lasciando i cittadini da soli. In mezzo al fango.
Nato a Roma nel 1947, il Premio Strega è il più celebre premio letterario italiano. Ogni anno da ormai settantasette anni una giuria composta da quattrocento persone fra uomini e donne elegge quello che viene considerato il “miglior libro” degli ultimi dodici mesi. Nella lista dei vincitori, sin dal 1947, spiccano grandi nomi come quello di Pavese, Moravia, Morante e molti altri ancora.
Se molti di voi in questo momento state pensando che il Premio Strega non lo avete nemmeno mai sentito nominare, non temete, non verrete classificati come ignoranti. Infatti col passare degli anni la popolarità di questo premio che un tempo veniva considerato prestigioso è andata scemando, sempre meno persone se ne interessano, sempre meno lettori si recano in libreria per acquistare il “libro Premio Strega dell’anno”, che ormai si riconosce solo grazie alla fascetta gialla sulla copertina. Ma a cosa è dovuto questo calo di curiosità nei confronti di una così iconica istituzione? Forse nella società di oggi ci siamo un po’ stufati dei premi, delle classifiche, della nomina del “top del top”. Nessun cinefilo che si rispetti si affiderebbe più agli Oscar o ai Golden Globes per decretare il film più meritevole dell’anno, poiché premiazioni del genere risultano in qualche modo corrotte ed estremamente prevedibili, facendo vincere film che di originale non hanno proprio nulla e che ripropongono sempre la stessa polverosa struttura. Il Premio Strega non è la solita “americanata”, ma è innegabile che il mondo della premiazione è un mondo in crisi, probabilmente perché le persone hanno i loro preferiti, i loro piccoli premi personali e vogliono che vengano rispettati. Nel 2024 il Premio Strega è stato assegnato a “L’età fragile” di Donatella Di Pietrantonio, scrittrice abruzzese già conosciuta perchè autrice dei romanzi “L’Arminuta” (2017) e “Borgo Sud” (2020).
“L’età fragile” è la storia del rapporto conflittuale tra una madre e sua figlia Amanda, una ragazza che dalle alte montagne dell’Appennino sbarca a Milano per studiare e per sfuggire dalle grinfie del suo piccolo paesino di nascita. Con l’avvento del Covid, tuttavia, Amanda deve tornare a casa e confrontarsi con la realtà del suo complicato legame con la madre, protagonista e narratrice del romanzo. Una storia tutta al femminile che si intreccia con il tragico racconto di un fatto di cronaca nera realmente accaduto, spesso ricordato come il “delitto del Morrone”. Un romanzo che descrive la difficoltà di essere donna, non solo rispetto alla disparità sociale nella vita privata e nell’ ambito lavorativo, ma rispetto alla violenza fisica, alla paura di incontrare la persona sbagliata nel momento e nel luogo sbagliato, al disagio dell’essere il continuo oggetto del desiderio sessuale di uomini che di umano hanno molto poco.
Nello scenario australiano di inizio '900, esattamente il giorno di San Valentino, le ragazze del collegio Appleyard si preparano per una gita ad Hanging Rock, località che si sviluppa attorno ad una grande formazione rocciosa di origine magmatica. C'è chi si deterge il viso con acqua fiorita, chi si pettina i capelli con preziose spazzole argentate, e chi è costretto a rimanere al collegio guarda con occhi sognanti questo rito propiziatorio in onore del dio Amore. Il pomeriggio sembra non finire più, e il tedio spinge quattro ragazze ad allontanarsi per esplorare più a fondo questa roccia che sembra essere avvolta in una patina di mistero. Due di loro non faranno mai più ritorno alla realtà rigida e austera del collegio, ma resteranno per sempre incastonate tra le fessure di Hanging Rock.
Il film di Peter Weir è un'ode al mistero, come lo è d'altronde il libro da cui è tratto: "Picnic a Hanging Rock", romanzo di Joan Lindsay. Attraverso la suggestiva
fotografia di Russel Boyd, le fanciulle diventano ninfe appartenenti a dipinti rinascimentali, i paesaggi dai colori dell'oro brillano al sole di una luce surreale, che allude all'onirico. Le scelte stilistiche non vogliono solamente descrivere un paesaggio, ma vogliono indurre lo spettatore ad immedesimarsi in quella realtà così impregnata di arcano. Alimentano l'immersione panica nella natura le musiche presenti all'interno del film, che con i suoi flauti rimandano agli aborigeni, un tempo abitanti dell'Australia.
La bellezza di Miranda, collegiale dai tratti angelici e ammirata dalle altre ragazze, è spesso paragonata alla Venere di Botticelli, tant'è che come la dea anche Miranda appare agli altri come un essere divino, dai confini non definiti e al di fuori del tempo e dello spazio; un essere etereo consapevole di appartenere ad una
dimensione diversa dalla nostra. Dimensione a cui il film allude spesso:
"C'è un tempo e un luogo giusto perché qualsiasi cosa abbia principio e fine... Lassù..."
Queste sono le parole profetiche di Miranda, riferendosi ad Hanging Rock. Ed è proprio nel momento più caldo della giornata, quando il sole raggiunge il suo zenit, che le ragazze svaniscono nel nulla.
Ma non tutte le ragazze scompaiono. Edith è la prima a pentirsi di aver intrapreso questa salita, o meglio ascesa, verso la grande roccia. Le altre ragazze (Miranda, Marion e Irma) iniziano a togliersi le calze e i corpetti sotto una specie di trance e, ignorando i lamenti continui di Edith, salgono ancora. È a questo punto che Edith, scioccata, si precipita giù dalla montagna per chiedere aiuto. Ed è proprio in questo istante che il gruppo restato ai piedi di Hanging Rock si accorge della scomparsa dell'insegnante di matematica Miss McCraw, anch'essa ascesa verso la roccia. Passano i giorni fra le grida disperate delle ragazze scosse da questa improvvisa sparizione e fra le continue ricerche nelle insidie più profonde di Hanging Rock. Una delle ragazze, Irma, viene finalmente ritrovata. Delle altre due non si avrà più traccia.
Non è un caso che Edith e Irma abbiano fatto ritorno alla civiltà, in un modo o nell'altro. Hanging Rock rappresenta la sospensione dal mondo terreno e la fusione panica con l'universo, al di sopra delle leggi mondane. Miranda e Marion sono le sacerdotesse di un rito primordiale, scelte per la raffinatezza della loro anima da questa forza sconosciuta che le ha volute sottrarre al mondo degli uomini. Ciò significa che le altre due ragazze non avevano ancora le chiavi in mano per effettuare il passaggio all'altra dimensione, perché troppo legate al mondo terreno, vincolate all'arsura di quei prati gialli che incorniciano le pareti del collegio.
Irma è un personaggio chiave in quanto apre le porte ad un'altra tematica: quella della scoperta della sessualità. Al suo ritorno, Irma viene vista indossare un abito rosso fuoco, e non più il vestito bianco impreziosito di merletti e pizzi che sprigionava purezza e candore. Sembra che la ragazza abbia appreso un segreto, e che dietro lo sguardo pacato si nasconda la realizzazione di una conoscenza inaccessibile e occulta. Non sorprende la reazione delle altre collegiali alla vista di Irma dopo la sua scomparsa. Esse aggrediscono la ragazza con una forza quasi violenta, una smania di sapere che cosa le fosse successo in cima a quella montagna.
Ma il film spegne ogni speranza che si possa risolvere, chiarire o mettere luce sul mistero, si rifiuta addirittura di spiegare ciò che deve essere colto non per mezzo della logica, ma per mezzo di quella facoltà appollaiata sul ramo più nascosto nella foresta della nostra mente, la civetta dell'intuizione.
Come in altri film di Weir, la natura è spesso vista come portatrice di un caos primordiale, una forza che sovrasta la transitoria civiltà umana. Sono frequenti inquadrature su lucertole o serpenti, ma colpisce soprattutto una scena in cui delle formiche prendono d'assalto la torta preparata per festeggiare San Valentino, come a simboleggiare l'inutilità degli usi e costumi umani, a confronto con la forza imperitura della natura.
Picnic ad Hanging Rock ci insegna che esistono delle realtà ben nascoste dietro le lenti color pastello della vita di tutti i giorni, che c'è sempre qualcosa che striscia sotto di noi, che osserva, incurante o meno, le nostre azioni insignificanti. Cosparge indizi qua e là, senza mai palesare alcuna verità assoluta, ma fungendo da spinta verso
l'ascolto dei moti interiori che si agitano dentro ognuno di noi, e che non si è abituati a sentire. Il film è un inno al mistero che pervade la realtà, e un manifesto verso l'accettazione incondizionata di questa dimensione segreta, svincolata dall'asfissiante piano razionale.
Un volo aereo: l’Oceanic 815.
Lo schianto, i sopravvissuti, una misteriosa isola apparentemente deserta: si presenta così agli spettatori il famoso sceneggiato creato da J.J. Adams. Lost intreccia numerosi argomenti catalogabili all’interno di filoni riconoscibili ai più: le eterne lotte tra Bene e Male, tra Fede e Scienza e, in particolar modo, tra Fato e Libero Arbitrio.
Il tema del Libero Arbitrio è stato affrontato dal filosofo tedesco Immanuel Kant nella “Critica della Ragion Pratica” del 1788, nonostante l’argomento fosse stato già accennato nella “Critica della Ragion Pura” (1781). Nel primo libro il filosofo parla di come i fenomeni siano strettamente legati ad alcuni meccanismi causa-effetto, ma fa notare anche come le cose di per sé (e di conseguenza anche gli uomini come soggetti) siano libere di svincolarsi da legami di questo genere. Nella seconda opera Kant approfondisce l’argomento; è ragionevole credere di essere liberi, nonostante non sia scientificamente possibile provare una cosa del genere. Il discorso è molto semplice: dovendo agire, le nostre azioni implicano una possibilità di scelta. Quest’ultima dipende dal fine a cui vogliamo arrivare.
L’essere umano è un individuo razionale autocosciente con una scelta di libertà “impura”; nella “Metafisica delle Morali” Kant dice: “(…) la base determinante della facoltà del desiderio si trova all’interno della ragione del soggetto ed è chiamata volere , considerato non tanto in relazione all’azione, ma piuttosto in relazione alla base che determina la scelta dell’azione (…)”. Per poter considerare una volontà “libera”, dobbiamo intenderla capace di agire senza alcuna struttura
causale. Dunque, un libero arbitrio dovrebbe agire sotto leggi proprie, che esso dà a sé stesso. Quanto è facile parlare di libera scelta? E quanto, nell’effettivo, le scelte che spesso tendiamo a giudicare sono libere in tal senso? La dicotomia Fato/Libero Arbitrio innesca inevitabilmente scontri morali tra vari personaggi. John Locke, un uomo anziano con un passato travagliato alle spalle, crede che sia stato il destino ad
averlo portato sull’isola e che ci sia un disegno dietro tutte le vicende che gli sono capitate e che gli capiteranno. Non a caso la frase principale che viene attribuita al suo personaggio, se non la frase più famosa dell’intera serie, è “Non ditemi che non lo posso fare ”; Locke, condizionato da una grave invalidità per un certo periodo di tempo, ricevette spesso rimproveri da parte di altre persone che continuavano ad impedirgli di fare ciò che lui credeva di essere destinato a fare, si percorrere strade che lui riteneva giusto dover percorrere, in modo da assecondare il corretto andamento del suo destino. Considerare un personaggio come John Locke un semplice uomo di fede è estremamente riduttivo, ma necessario per cogliere le differenze con un altro personaggio: Daniel Faraday (omonimo del famoso fisico), il quale crede che l’uomo, pur non potendo cambiare il passato, possa dominare sulla natura e agire su ciò che lo circonda, in quanto libero. Il pensiero filosofico di Kant indaga anche, nello specifico, la predisposizione che ha l’uomo nello scegliere di compiere sia azioni buone che azioni cattive. Presupponiamo che un uomo, a causa
della sua debolezza, abbia scelto di cadere in una condizione di cattiveria morale. Tutto ciò non implica che egli debba rimanere in quella determinata condizione per sempre; sarà infatti in grado di tornare al bene con fermezza e sacrificio. Compiere il male, secondo Kant, significa scegliere di allontanarsi dalla legge morale più importante, quella del dovere. Ciò accade a causa di tre debolezze umane: la fragilità, l’impurità e la corruttibilità. Queste tre debolezze chiarificano tutto il pensiero di Kant: l’essere umano, oltre che essere dotato della ragione, è dotato anche dei sensi che lo spingono ad allontanarsi dal dovere.
Lost non manca di riferimenti a questa tematica, importante per via di due personaggi che rimarranno avvolti nel mistero fin quasi al termine dell’ultima stagione: Jacob e MIB (Man in Black), la personificazione del bene e del male; il primo crede fermamente nel progresso morale dell’umanità e, pur essendo onnipotente, non convince né con i miracoli né con la forza. Non ha secondi fini e proprio per questo non premia nessuno all’istante, pensando che il bene debba essere compiuto per una semplice predisposizione morale. Il secondo, al contrario, disprezza l’umanità; ritiene che gli umani siano condannati ad essere avidi, aggressivi, corrotti e distruttori. Ama il potere ed il controllo perché gli consentono di ottenere qualsiasi cosa lui voglia. Jacob e MIB, fratelli di sangue, pur avendo vissuto insieme da ragazzi, hanno compiuto delle scelte che li hanno condotti, una volta cresciuti, su strade diametralmente opposte. Le teorie sui destini degli uomini sono affascinanti. Che esista un invisibile filo di colore rosso o meno, talvolta è bene credere di essere padroni di sé stessi e poter plasmare con la sola volontà l’intero corso della propria vita. Vorrei a tal proposito, per concludere, riportare queste parole che Daniel Faraday pronuncia sul finire della serie: “Noi possiamo cambiare le cose. Ho studiato fisica relativistica per tutta la vita; l’unica costante certa e assoluta è che non si può cambiare il passato. Quel che è successo è successo. E poi, finalmente, ho avuto un’intuizione. Avevo passato così tanto tempo a concentrarmi sulle costanti da essermi dimenticato delle variabili. E sapete quali sono le variabili di quest’equazione? Siamo noi, noi siamo le variabili! Noi pensiamo ragioniamo, facciamo delle scelte, abbiamo il libero arbitrio. Noi possiamo cambiare il nostro destino ”.
Roma, 5 ottobre 2024
Ormai pare,
che lottando per la vita altrui
si rischi soltanto di perder la propria.
Manifestando, si muore
non manifestando, si è già morti.
A costo di scomparire, manifesteremo.
Non fermatevi
Che alla fine,
all'innocente grido di morte,
risponde soltanto
il tonfo sordo della repressione.
Niente fa più paura
di una piazza vuota,
piena di ribelli corpi
ormai vuoti.
Hanno parlato.
O sì! Hanno detto la loro,
si sono fatti avanti
e lì son rimasti.
Li hanno abbattuti,
ammazzati, repressi, estirpati
di qualunque forma di vita.
Colpevoli d'essere umani.
Ma nessun manganello
ha messo a tacere
le idee vissute nelle grida
che si udirono in quella piazza ormai vuota.
Brevità
Il fugace sguardo, e
l'amor che ti travolge per l'intera vita,
sono, anche se diversi, la stessa cosa.
Arcane (Riot Games, Fortiche Production, Netflix, 2021-2024) si propone come adattamento character-story driven ispirato ai personaggi e al mondo di League of Legends, e pone al centro della linea narrativa principale le due sorelle Violet, detta Vi, e Powder/Jinx, all’interno di una costruzione narrativa basata su dualismo e dualità.
Proprio la necessità di narrare una storia, piuttosto che raccontare dei paradigmi sociali, aiuta ad assumere un approccio di analisi diverso dal solito. La serie sceglie di combattere alcuni stereotipi tramite l’indifferenza: considerando infatti la rappresentazione della figura femminile, vengono descritte diverse tipologie di donne, alcune assumono ruoli comunemente associati
agli uomini, ma la particolarità di questa storia è proprio la possibilità di invertire i ruoli e avere lo stesso risultato narrativo. Cambiando genere e sesso di tutti i personaggi la storia rimarrebbe fondamentalmente sé stessa, e grazie a questa “indifferenza” può ugualmente far riflettere sulla rappresentazione dei generi.
Vi e Caitlin, come sottolinea Amanda Overton, sceneggiatrice del quinto episodio della prima stagione, sono due ragazze che vengono da mondi e vissuti completamente opposti: il passato di Vi le rende difficile fidarsi di quello che Caitlyn stessa rappresenta. Dalla scena conclusiva del quinto episodio, Caitlyn che salva la dolorante e ferita Vi, nasce un legame che si consolida nel nono e ultimo episodio in cui è Vi ad aiutare e portare in salvo Caitlyn. Lo scambio di battute tra le due mette in risalto Vi che dice “You’re hot, Cupcake”, una metafora presente anche nel gioco dove ci sono altre voicelines come “High five, Cupcake!” o “Nice shot, Cupcake”, e la cui presenza nella serie è spiegata dalla sceneggiatrice come un esplicito riferimento alle emozioni di Vi, nonostante nel contesto della scena possa assumere anche un significato sessuale. Perché lasciare libera all’interpretazione qualcosa di così importante come i sentimenti? Meglio essere diretti, e rompere l’abitudine di rappresentare i sentimenti omosessuali come sottointesi in un discorso più ampio.
Pur volendo essere un modo per evitare il sottotesto analizziamo i significati di questa frase, tra linguaggio e micro-linguaggio. Un primo significato lo ritroviamo nella metafora della donna come dessert, chiaro riferimento alla donna come oggetto sessuale: la frase assume una funzione precisa di quel micro-linguaggio pieno di allusioni e interpretazioni di carattere psicolinguistico. Nella stessa scena in cui viene pronunciata questa battuta, Caitlyn diventa oggetto dello sguardo di Vi, che le gira attorno osservandone il corpo, si avvicina e la fa indietreggiare contro il muro. La metafora dell’essere dolce, sweet, può rappresentare la donna nella sua riduzione a oggetto, ma anche essere simbolo del parallelismo tra donna come dolce e donna come prostituta (che è comunque un riferimento al contesto dell’episodio). Quando Caitlyn salva Vi, questa si complimenta con lei per essere un’ottima tiratrice e la chiama ancora una volta Cupcake. Caitlyn si presenta per la prima volta dal loro incontro e Vi motiva la scelta di continuare a usare il soprannome datole, sostenendo che lei “è dolce come un cupcake”.
Nel nono episodio, quando Jinx rivela a Vi di aver fatto visita a Caitlyn e di averle preparato uno “snack”, mostrando un cupcake, questo dolce assume altri significati, diventa sinonimo di “persona moralmente troppo buona”: Vi ha sostituito la problematica e aggressiva Jinx con la perfetta e dolce Caitlyn. Tramite le azioni di Jinx ritroviamo anche l’idea di dessert come qualcosa di opzionale, non importante e non necessario, una “perdita di tempo” contrapposta alla prima interpretazione sessuale-emotiva, legata al punto di vista di Vi. Il cupcake diventa perciò metafora non solo delle emozioni di Vi, ma anche di quelle di Jinx, personificate
entrambe nel personaggio di Caitlyn.
Col tempo si sta lasciando spazio a rappresentazioni che non si limitano alla donna manipolativa o seducente, o alla donna “personaggio forte”, ma mostrano scene d’azione ricche di “forza femminile” piuttosto che “bellezza femminile”.
Nella scena della doccia dell’ottavo episodio Caitlyn potrebbe essere resa oggetto, ma non accade: l’inquadratura dall’alto sul corpo della donna, poi sull’acqua e sul sangue, accompagnata dal suono del violino che anticipa l’arrivo di Jinx, nascosta tra il vapore, porta la scena a concentrarsi sui pensieri del personaggio che vengono effettivamente spettacolarizzati, non sul corpo.
Nell’ambigua rappresentazione delle relazioni tra personaggi, Arcane rappresenta quelle che erroneamente vengono indicate come “donne forti”, e sono invece esseri umani indipendenti e donne sicure di loro stesse, pur mostrando il personaggio più “forte” tra tutte, Jinx, completamente dipendente dalla sua relazione con Silco, il padre adottivo. Questo non costruisce solo un rapporto con Jinx, ma compie un consapevole cambiamento di ruolo, allontanandosi dallo stereotipo non solo maschile e paterno, ma anche a livello narrativo di antagonista: è un padre in post-trasformazione, riprendendo le tipologie di Elisabetta Ruspini e un antagonista vittima della società. Caitlyn è invece l’opposto di Jinx: ha scelto la sua posizione nella lotta per la giustizia e rappresenta valori etici e morali nel suo non essere mai resa oggetto, anche quando inquadratura e dialogo ne avrebbero l’occasione.
La sceneggiatrice ha specificato l’inutilità del termine “gay” in un mondo inventato come quello della città di Piltover. Se in un gioco ci si identifica in un personaggio, in Arcane e nel rapporto tra Vi e Caitlyn non ci sono rappresentazioni predefinite della relazione omosessuale (ci sono altri stereotipi).
Confrontando le Vi e Caitlyn del gioco e le Vi e Caitlyn della serie, si evidenzia proprio una rappresentazione narrativa dell’esperienza videoludica: l’esplorazione di sé, tra juissance e crescita laterale. Arcane è stata capace di trasportare nella serialità televisiva la caratteristica videoludica della scelta dell’avatar in un modo non interattivo: con una “anonima” rappresentazione dei generi, si ritrova quella caratteristica e possibilità del videogioco di rappresentare e rappresentarsi. Sono tutti tentativi di colmare e costruire la propria identità, quale modo migliore per farlo se non raccontando delle storie.
in un giardino, affacciato su di un prato
attende un sepolcro vuoto
e la gente che passa per la via accanto
curiosa guarda la lapide spoglia
cerca con gli occhi la terra smossa,
ma il sepolcro aspetta, a braccia aperte
solitario con nulla da poter stringere
e io con lui, con la terra e con i passanti
che si scavi il mio nome sulla pietra
e lentamente, come in sogno
mi scivoli sulle palpebre un sonno profondo
vorrei ritornare a quel luogo segreto
dove ancora la mia voce mi risponde
e i miei pensieri sono intimi e familiari
senza forestieri ad invaderli,
vorrei tornare nella mia stanza
isolarmi in un silenzio violento
e invece prepotente il frastuono
non mi lascia mai il tempo
per un piacevole intermezzo
ecco
ora che non c’è più speranza qui
nella mia stanzetta buia
e non c’è tormento nelle mie orecchie
ora che fingo, mi trastullo, indugio
pronuncio il tuo nome di rado
allora adesso c’è silenzio, c’è quiete
nulla si agita più
non c’è paura, non esiste tremore
ora che sono di nuovo guarita
da questa malattia fastidiosa
torno invincibile
a un mare piatto e lucente
ad una calma di sale
ad un silenzio invincibile
10/07/2024
Meglio parlare o morire?
Una frase che in qualche maniera è rimasta stretta nella mia gola dalla prima volta in cui vidi Chiamami Col Tuo Nome (2017), ormai più di sei anni fa.
Una pellicola che ha glorificato Guadagnino, rendendo la sua opera già un cult.
Un film decisamente noto nella nostra generazione, che vanta, oltre, per l’appunto, la regia di quest’ultimo, l’adattamento per lo schermo di un maestro come James Ivory e la penna del libro originale di André Aciman.
La trama, bene o male, è nota: estate del 1984, da qualche parte nel Nord Italia, l’adolescente Elio nella villa di famiglia è costretto ad accogliere l’americano Oliver, studente invitato dal padre, professore di archeologia.
Quella di Elio è quasi un’educazione sentimentale: i dialoghi nel film sono pochi, ma le sensazioni che ne emergono sono così palpabili che per lo spettatore è quasi impossibile non sentirsi travolto a sua volta nel primo amore del protagonista.
Timothée Chalamet dimostra una capacità incredibile nel non detto: i suoi movimenti, i suoi sospiri, i suoi sguardi comunicano tutto quello che serve per capire quanto sta nascendo nell’animo del suo personaggio. Entrambi gli attori, anche Armie Hammer, sembrano essere un parallelismo delle statue greche studiate dal padre di Elio. I loro corpi tesi sotto il sole estivo, esprimono il desiderio che cresce in noi che osserviamo, ma che sentiamo anche in loro, ancora una volta in un non detto, che rimane sospeso nell’aria: Elio ed Oliver vogliono toccarsi, baciarsi, ma sono trattenuti da emozioni, dubbi, non capaci di farli cedere.
Elio, in quanto protagonista, rimane al centro della pellicola, con le sue emozioni e con i suoi tormenti. Il desiderio tanto temuto, che cresce nei confronti di Oliver, viene impiegato nelle sue solite attività: leggere, suonare, trascrivere musica, fare il bagno, trascorrere il tempo con la sua famiglia, in quella villa e quei dintorni di Crema che ancora di più rendono così delicato e cinematograficamente immenso il soggetto.
Dunque si ritorna a <<Is it better to speak or to die?>>, la frase che contiene il fulcro dei tormenti del protagonista. Parlare o morire? Rivelare quel desiderio che lo attrae sempre di più verso Oliver o rimanere soffocato dalle proprie emozioni?
È la questione che sorge anche in noi spettatori che, inevitabilmente, ci ritroviamo a domandarci se sia meglio parlare o morire e quante volte siamo morti piuttosto che esprimere i nostri sentimenti per paura; eppure parlare: Elio lo fa, delicatamente, ancora una volta.
I dialoghi della pellicola sono misurati, le parole pesate e ognuna di esse rimane viva.
La colonna sonora di Sufjan Stevens, integrata da pezzi di musica classica e vecchie canzoni italiane, non è un sottofondo musicale, è personaggio, è fondamentale per il ruolo che ha assunto il film nell’immaginario collettivo. La delicatezza delle melodie, dei testi, sono complementari alla trama, sono come uno specchio interiore dell’anima di Elio, fino ad arrivare, con Mistery of Love, ad essere un carezza per provare a farci immaginare l’amore tra lui ed Oliver. Guadagnino è stato capace di ricreare il primo amore con una maestria incredibile, sia che lo spettatore lo abbia già vissuto, sia che lo debba ancora vivere, è impossibile che non venga trascinato nel vortice di emozioni e sensazioni del protagonista, che non senta quel desiderio di toccare l’altro, senza sapere come fare; se fare.
Parlare è meglio che morire quindi, anche il dolore va vissuto per non strappare via l’essenza di sé stessi: Chiamami col tuo nome è un’educazione sentimentale che serve ad ogni età e che ogni volta che si rivede lascia una nuova sensazione, una nuova emozione, un nuovo insegnamento.
10/07/2024
La democrazia moderna si fonda saldamente sul diritto al voto, un pilastro cruciale per garantire la rappresentanza e promuovere il cambiamento sociale. Tuttavia, recentemente, alle elezioni europee, meno della metà degli elettori ha partecipato, segnando un triste record nella storia repubblicana. Questo solleva una domanda essenziale: quali sono le conseguenze quando il popolo non vota?
Il voto non è solo un atto pragmatico per determinare la composizione delle istituzioni politiche, ma anche un mezzo per proteggere i diritti individuali e influenzare le decisioni pubbliche. John Stuart Mill, filosofo del XIX secolo, sosteneva che "la parte più importante del bene generale è il buon governo, e particolarmente il buon governo democratico". Secondo Mill, la partecipazione politica informata è essenziale per garantire che le politiche pubbliche rispondano ai bisogni e alle volontà della popolazione, promuovendo così una giustizia sociale più equa.
Nel dibattito filosofico, però, alcuni autori hanno sollevato dubbi sulla capacità universale dei cittadini di partecipare in modo informato. Platone, ad esempio, suggeriva che non tutti possiedono la saggezza necessaria per prendere decisioni politiche informate, proponendo un governo guidato da filosofi per preservare la stabilità e l'efficacia governativa al di là degli interessi particolari.
Oggi, ci troviamo di fronte a una bassa affluenza alle elezioni, alimentata dalla crescente disillusione politica, dalla mancanza di rappresentanza significativa e dalle disparità socio-economiche che limitano l'accesso al voto, come nel caso del voto fuori sede garantito solo agli studenti e non ai lavoratori. Secondo Jean-Jacques Rousseau, "l'amore per la patria si affievolisce, e la politica dovrebbe limitarsi a gestire le tasse, la difesa e la sicurezza".
Immaginando un futuro in cui la partecipazione politica continua a diminuire, c'è il rischio concreto che il diritto al voto venga minato. Secondo Joseph Schumpeter, economista del XX secolo, la democrazia moderna funziona attraverso la rappresentanza elettorale: i cittadini non decidono direttamente ogni aspetto politico, ma eleggono periodicamente i loro rappresentanti. Tuttavia, se sempre meno persone partecipano attivamente alle elezioni e al dibattito politico, la democrazia potrebbe diventare inefficace. Schumpeter avvertiva che questo scenario potrebbe aprire la strada a forme di governo meno rappresentative, o addirittura a regimi autoritari, dove i cittadini diventano spettatori passivi anziché attori principali del processo politico.
In conclusione, nonostante le valide critiche filosofiche alla partecipazione universale, l'importanza del voto nel contesto democratico rimane imprescindibile. La bassa affluenza alle elezioni non è solo un segno di disinteresse, ma una sfida esistenziale per la nostra democrazia. Affrontare questa sfida richiede un impegno collettivo per educare, motivare e superare le barriere che impediscono ai cittadini di esercitare il loro diritto democratico. Solo attraverso una partecipazione politica informata e responsabile possiamo garantire un futuro in cui il popolo continua a essere il vero sovrano delle proprie decisioni.
10/07/2024
La cultura dello stupro nel mondo latino
LA CULTURA DELLO STUPRO
Con cultura dello stupro si fa riferimento ad un sistema sociale e culturale in cui la violenza sessuale viene NORMALIZZATA e GIUSTIFICATA. In questo sistema, sia gli uomini che le donne assumono che la violenza sessuale sia INEVITABILE.
Il termine nasce dagli studi di genere e dalla letteratura femminista e postmoderna. La ‘’rape culture’’ in inglese è infatti un concetto coniato a partire dal 1970 nell’area della sociologia.
LA STORIA DI APOLLO E DAFNE, DAL MITO AI DATI
Prima di parlare di dati e statistiche e spostarci sul problema attuale è però necessario capire come questo possa essere collegato a Dafne ed al celebre mito latino. Per farlo, è conveniente riassumerne la trama:
Nella versione attribuita ad Ovidio, una delle più note, ci viene raccontato di Dafne come di una ninfa dall’aspetto SELVAGGIO, devota alla dea Diana (ricordata per la sua devozione alla verginità. In nome di Amore aveva fatto voto di castità, amava la solitudine ed era nemica dei banchetti.) e protettiva nei confronti della sua verginità. Proprio per questo motivo vuole vivere come Diana, rimanendo ninfa della selva, lontana dai piaceri sessuali.
Uno screzio fra Apollo e Cupido fa sì che il primo si innamori perdutamente di Dafne, bramandone il corpo e sognando di unirsi a lei. Quest’ultima viene colpita da una freccia che porta l’effetto opposto, ed ecco che al potere FACIT (che induce all’amore) si contrappone quello FUGIT, che porta la Ninfa a scappare senza sosta rifiutando aspramente di assecondare il desiderio del dio Apollo. La storia viene ricordata come quella dell’amore non corrisposto, di fatti il tema principale è quello di un Dio innamorato perdutamente di una Ninfa che ha ormai DECISO un altro destino per lei.
Ma come possiamo trovare una correlazione fra MITO e CULTURA LATINA? I miti nel mondo antico erano utilizzati come portatori di virtù e valori, intrinsechi nella loro cultura. Basti pensare a Odisseo, ricordato come l’uomo poliedrico dalle mille qualità, esemplare nella sua eroicità. Per questo motivo quando parliamo di storie latine è bene ricordare che per quanto possano essere avvolte nell’atmosfera magica e mitica, esse nascondono un ‘’fondo di verità’’ e ci aprono ad uno scorcio sulle idee che componevano il pensare latino.
LA STUPRO NELL’ANTICHITÀ E ORA - UN PARELLELISMO
La violenza nel mondo latino era vastamente diffusa e accettata: per questo ho deciso di parlare di ‘’cultura dello stupro’’. A onor del vero, con il termine stuprum, si intendeva un concetto molto diverso dall’attuale stupro. Lo stuprum, nel diritto romano, è l'unione carnale temporanea fra un uomo e una donna che non hanno vincoli matrimoniali fra loro.
La violenza sessuale per come la intendiamo noi era invece normalizzata per certi versi, soprattutto quando si parlava di donne libertine, esterne al matrimonio. Ecco perchè sono numerosi i casi di Dei che hanno rapporti sessuali con ninfe, stupri da parte di Giove, documentazioni di violenze avvenute a seguito di guerre ai danni del popolo conquistato.
Proviamo ad azzardare ora un confronto direttamente con il mito di Dafne ed approfittiamone per discutere di alcuni termini utilizzati dai movimenti femministi moderni per parlare di stupro e violenza.
● LA COLPEVOLIZZAZIONE DELLA VITTIMA
Con victim blaming si identifica quel comportamento che porta a spostare il focus dal comportamento dell’aggressore a quello della vittima. Mina la credibilità della vittima, come a dare per scontato che ‘’qualcosa di male lo deve pur aver fatto per meritarsi questa violenza’’. Anche se non esplicitamente, tutti i commenti e tutte le dinamiche (intrinseche nella nostra cultura) che mirano a ipotizzare una colpa della vittima quando si parla di stupro, danneggiano la sua causa e alimentano la cultura dello stupro.
In Italia per esempio i dati parlano chiaro: I dati Istat del 2019 riportano che il 39,3% della popolazione pensa che una donna sarebbe in grado di sottrarsi a un rapporto sessuale se davvero non lo volesse, il 23,9% è convinto che le donne possano provocare la violenza sessuale con il loro modo di vestire. Il 15,1%, ritiene che una donna che subisce violenza sessuale quando è ubriaca o sotto l’effetto di droghe sia almeno in parte responsabile dell’accaduto. Il 7,2% sostiene che di fronte a una proposta sessuale le donne spesso dicono “no” ma in realtà intendono “sì” e il 6,2% dichiara che “le donne serie” non vengono violentate.
Questi dati mettono in luce le credenze alla base della nostra società e ci fanno capire quanto intrinsechi siano certi modi di pensare.
E forse quella di spostare l’attenzione dal commettitore della violenza è una tendenza tutta umana, forse derivante dalla società antica: di fatti non è nuova questa visione (che ora potremmo definire distorta secondo i nostri standard morali) delle cose, che troviamo anche nella letteratura latina.
Ricordando Tito Livio, che nei suoi Annales vuole riscrivere la storia romana (citando anche quella più antica e di conseguenza avvolta nel mito), possiamo parlare di Lucrezia, moglie di Collatino. La celebre matrona romana arriverà ad uccidersi, in stile perfettamente didoniano, come ci racconta il poeta, perché sporca di un peccato
imperdonabile. Essere VITTIMA di uno stupro. Sebbene il marito cerchi di consolarla e confortarla circa l’accaduto, Lucrezia compirà l’estremo gesto e verrà ricordata come un’eroina. Essere vittima di uno stupro ti rendeva macchiata di un peccato imperdonabile, e questo era un VALORE imprescindibile che i romani (e Tito Livio!) volevano trasmettere al popolo latino.
● IL MANUALE ANTI-STUPRO
Le donne, in una società patriarcale, vengono cresciute pensando che ci sia un manuale anti-stupro da seguire che le salverà dall’essere vittima di violenza.
I dati però, ci mostrano come tutto questo sia falso e solo l’ennesima credenza figlia di una cultura che nella violenza ci è immersa. Non camminare sola per strada, non indossare abiti corti o in cui mostri la pelle, non bere, non andare alle feste: la lista è infinita. E inutile.
La verità è che le donne vengono stuprate anche quando sono sobrie, in casa loro, nelle case dei loro familiari e fidanzati, a lavoro o quando sono coperte dai piedi fino al collo. La spiegazione è semplice: non c’è nulla, nessun comportamento o tattica che una donna possa mettere in atto per difendersi o evitare uno stupro. Perchè? Perchè la violenza sessuale è causata unicamente dalla decisione della persona che decide di commetterla.
Anche qua ci è concesso tentare un altro azzardo, volgere nuovamente lo sguardo su Dafne. La ninfa definita SELVAGGIA, dedita completamente alla verginità e volta a proteggerla a costo della vita, verrà bramata e lodata da Apollo anche dopo la sua morte. Anche da semplice foglia di alloro.
É bello vedere in questo un messaggio molto romantico e passionale: un amore che non muore e che continua anche oltre al corpo. Forse però, volgere lo sguardo alla povera Dafne, che in vita ha cercato di rifiutare nella maniera più decisa possibile il Dio messaggero, ci aiuta a capire qual è il grande problema della nostra cultura.
Una cultura che è, appunto, dello stupro.
Ad Apollo non interessa che i vestiti di Dafne siano curati, i capelli ben pettinati, la figura seducente. Ad Apollo, schiavo della freccia di Cupido, non interessa l’opinione di Dafne. Ormai la vuole, farà di tutto per averla.
Nella mente di uno stupratore non esistono ragioni. Dafne ha fatto il possibile per scappare da Apollo ma il possibile non è stato abbastanza.
Queste storie, come tante altre, provenienti dal mondo antico e non solo, hanno inevitabilmente costruito un immaginario intriso di racconti in cui il sesso è affermazione di forza e sopruso.
LE CONCLUSIONI
Sebbene il parallelismo sia a tratti forzato, e questo va riconosciuto, ritengo che sia utile riflettere su questi importanti temi attuali anche guardando al passato.
Sono numerose le caratteristiche culturali che attingiamo dai latini, così le positive come le negative. Per questo motivo mi sono dilettato nello scrivere questo breve testo: per dare forma ad una riflessione che sembra superficiale ma che può scavare nel profondo.
Una forma senza dubbio breve e con molte lacune, ma che possa servire da spunto per uno studio più approfondito sulla questione. Spero di aver trattato l’argomento con il dovuto rispetto, seppur con una superficialità dettata dal tempo e dagli strumenti a mia disposizione.
Spero di aver fatto informazione nei limiti del possibile, di aver suscitato una qualche riflessione. Infine, ringrazio per la lettura.
10/07/2024
Storie di donne che hanno portato sul grande schermo il proprio dolore
Riferendosi a Frances McDormand, Michela Murgia, nel suo podcast Morgana, disse: “Frances è perfettamente consapevole che ci sono poche storie cinematografiche adatte alle donne; scherzando, in un'intervista, un giorno ha detto che dipende dal fatto che 90 minuti non sono il tempo ideale per raccontare la storia di una donna”.
Quello che hanno detto le due non è per niente falso, ci sono anche dei dati che lo dimostrano: lo studio condotto dal Center for the Study of Women in Television and Film dell’Università di San Diego rileva come il numero dei personaggi femminili protagonisti sia sceso ancora di più quest’anno (da un 33% nel 2022 a un 28% nel 2023).
Tutto ciò dipende notevolmente dal basso numero di registe donne, le quali, sempre secondo lo studio, scelgono altre donne come protagonista quasi la metà delle volte, mentre spesso, i registi uomini tendono a preferire protagonisti maschi.
Con questo non si sta dicendo che facciano male, anzi, così come si dice che nessuno può raccontare una donna meglio di un’altra donna, allo stesso modo potrebbe valere per l’altro sesso. A questo punto quindi il problema sembra essere una bassa percentuale di rappresentazione nei leading role, dal momento che di donne nel cinema ce ne sono all’infinito, ma solo un numero percentualmente ridottissimo ricopre ruoli determinanti (un po’ come accade nel mondo del lavoro). La frase della McDormand, analizzata un po’ più a fondo, ci porta a domandarci come mai ci vuole così tanto tempo e lavoro per raccontare al meglio la figura di una donna; e a questo interrogativo ha risposto la stessa Michela Murgia, sempre nel suo podcast: ciò che differenzia le storie degli uomini da quelle delle donne è che l’epica maschile è un’epica dei fatti (un uomo fa una cosa, quella cosa si evolve, poi viene risolta), mentre l’epica delle donne è un’epica delle relazioni.
Il concetto sembra complicato ma non lo è: in tutti gli esempi che porterò oggi per raccontare le mie protagoniste femminili preferite, si capisce che la trama non si basa su una successione di eventi fini a loro stessi, ma è ogni volta una trama intricata di emozioni, relazioni, sentimenti di odio, di amore, di rancore, di solitudine e di perdizione.
Pochissimi di questi film durano appena 90 minuti, forse perchè la battuta iniziale così tanto ironica non era.
Tutti però nascono con l’intento di raccontare qualcosa di profondo, qualcosa che porti negli spettatori un briciolo di quella femminilità logorata che stanno osservando.
Vi faccio infatti un piccolo spoiler: nessuna delle protagoniste è felice.
Alcune iniziano con l’esserlo, altre finiscono col divertarlo, ma nessuna di loro sarà esente dall’oblio del sentirsi sole al mondo, schiacciate dalla vita di tutti i giorni, anche se ognuna a modo suo.
Tre manifesti a Ebbing, Missouri (di Martin McDonagh, 2017)
Il primo titolo è lo splendido racconto di una madre che perde la figlia per omicidio in una cittadina americana in cui nessuno sembra avere l’intenzione di aiutarla a trovare i colpevoli. La reazione di Mildred (non lasciatevi intenerire dal nome, il suo carattere vi farà cambiare idea) è più che comprensibile: dopo sette mesi di silenzio, la cosa più banale da fare è scatenare l’inferno. E’ con la pubblicazione di tre cartelloni autostradali alle porte del paese, con una chiara provocazione agli agenti di polizia indisturbati dall’avvenimento, che ha inizio la fine di tutto.
“Tutta questa rabbia genera solo ancora più rabbia”, le viene detto da un suo compaesano dopo tutti gli scompigli che la donna ha creato in città; la sua risposta? ancora più rabbia, ancora più scompiglio. Siamo stati abituati a vedere episodi di female rage in vari film horror, da Carrie a Pearl, ma mai ci era capitato di vedere una donna di mezza età, in possesso di tutte le sue facoltà mentali, calma fino all’ultimo, incazzarsi come il diavolo quando ne ha abbastanza di essere invisibile. Il ritratto di una delle classiche donne-poco-femminili, che insulta, si infuria, spacca tutto e non le manda a dire quando c’è la memoria della sua bambina in ballo.
Nomadland (di Chloé Zhao, 2021)
Qualcuno lo ha definito un film del tipo “What you give to it, it gives to you”.
E’ proprio così: potresti guardarlo con gli occhi di chi si aspetta qualcosa di nuovo e rivelatore, ma rimarresti deluso; oppure potresti guardarlo con gli occhi di chi non si aspetta nulla e viene colpito dalla naturalezza e dalla semplicità della vita da nomadi.
Fern è una donna che ha perso il marito e il lavoro, non sa più dove stia casa sua o dove dovrebbe stare lei, così sceglie di non avere una casa e vivere ovunque.
Il fallimento del sogno americano ci viene rappresentato attraverso il ritratto di una piccola comunità di uomini e donne che cercano un nuovo senso per la loro vita, andando ogni giorno alla ricerca di un nuovo motivo per essere felici (non sempre riuscendoci).
Il messaggio, comunque, è solo uno: quando intorno a te sembra non essere rimasto più niente, forse è proprio in mezzo a quel vuoto che devi trovare la libertà.
Sick of Myself (di Kristoffer Borgli, 2023)
Se avete visto e amato The worst person in the world, probabilmente questo farà al caso vostro (anche se non credo superi il primo).
Siamo in Norvegia, Signe è una normalissima ragazza sulla ventina che, terrorizzata dal fatto di perdere il fidanzato e insoddisfatta della sua vita da “persona qualunque", decide di avere bisogno di qualcosa che la renda speciale per gli altri (e forse anche per sé stessa).
L’escamotage che adotta è quello di assumere, più che consapevolmente, delle droghe che le sfiguereranno il viso in maniera irreversibile e degenerativa, così da attirare l’attenzione che ha sempre desiderato.
Da barista fidanzata con un artista di medio successo, Signe diventa il caso medico per eccellenza del paese. Nessuno si sta spiegare quale sia la sua malattia, da dove sia arrivata e dove la potrà portare, eppure a tutti, meno che a Signe stessa, sembra importare.
Il grottesco qui padroneggia lo schermo, dal fidanzato che rimane per pietà agli amici che non riescono a trattenere il disgusto, persino il business della moda marcia sulla “pornografia del dolore”. Insomma, un concentrato di tristezza che insegue una felicità malata e fasulla, spinta dall’insoddisfazione nell’era dei social media.
Documenteur (di Agnès Varda, 1981)
Tornando un po’ indietro nella storia, troviamo uno di quelli che reputo il capolavoro della regista francese Agnès Varda.
Già dal titolo si può capire l’originalità della pellicola: la traduzione letteraria del gioco di parole sarebbe “Documentitore”, perché quello in questione potrebbe sembrare un documentario filmato nelle strade dei sobborghi di Los Angeles, eppure il magnifico gioco tra fantasia e realtà mescola delle riprese reali con la narrazione di una donna separatasi da poco che vive cercando di arrancare ogni giorno fino a sera insieme al figlio.
Il dolore di questa Emilie giace nella sua incapacità di ritrovarsi come donna e come individuo, prima che come madre e scrittrice, e dopo che come moglie.
Felicità (di Micaela Ramazzotti, 2023)
L’opera prima di Micaela Ramazzotti si concentra sul dolore di una sorella e di una figlia troppo innamorata del fratello minore per accettare la sua tossicodipendenza e concepire la noncuranza dei suoi genitori di fronte al rischio di perderlo.
Desirè è una donna fortissima e molto coraggiosa che combatte da quando era piccola per la propria indipendenza, eppure c’è sempre quella catena che la lega al suo passato e alle sue origini: i genitori. Questi sono fortemente invalidanti per la salute mentale dei figli, tanto da non riuscire a vedere la disperazione nel tentativo di suicidio del figlio.
Desirè, dal canto suo, sarà l’unica a capire il fratello e a salvarlo dal loro passato di amori tossici e soffocanti, ma non senza sbattere contro il muro della diffidenza genitoriale.
Non è altrettanto facile riuscire a salvare sé stessa, però.
L’amore che la lega ai suoi affetti, infatti, non sarà in grado di lasciarle prendere quella spinta che invece ha salvato Claudio (o quasi).
Pieces of a Woman (di Kornél Mundruczó, 2020)
Dulcis in fundo, il film che è valso la Coppa Volpi alla straordinaria attrice Vanessa Kirby, il cui stesso regista descrive come “se avesse sempre un segreto dentro di sé che riesce comunque a mostrare” perché “anche il suo silenzio è ricco”.
Nato dal lavoro del regista Kornél Mundruczó e della sceneggiatrice, sua moglie, Kata Wèber, racconta la tragica storia di una gravidanza andata nel peggiore dei modi.
La prima mezz’ora di film si concentra sul parto in casa della donna, un parto fortemente problematico che, tra l’assenza dell’ostetrica prescelta e la superficialità della sostituta, ha causato la morte della neonata.
La storia sembra essere realmente accaduta ai due autori, non è da stupirsi dunque che la sceneggiatura sia magistralmente realistica e cruda, nonostante questo però, l’immensa bravura della Kirby e di colui che interpreta il marito, Shia LaBeouf, rendono la narrazione un concentrato di sofferenza anche per chi non si è mai trovato a fare i conti con una tragedia del genere.
10/07/2024
Negli ultimi anni con l'avvento della transizione digitale e dei processi di innovazione tecnologica, scientifica e informatica, il mercato del lavoro ha assunto via via un assetto sempre più esigente verso nuove abilità tecniche e scientifiche: le cosiddette hard skills. Infatti le competenze legate a questi ambiti sono diventate tra le più richieste e remunerate incrementando anche i percorsi di studio per discipline simili. In tale ambito, in Italia, emerge la grave insufficienza di donne, prima ancora che nell’occupazione, nell’interesse recato nei confronti di queste materie considerate maschili dalla società. A sostegno dell’affermazione è efficace osservare dei recenti dati ISTAT: le alunne che scelgono di frequentare un liceo scientifico sono il 19% rispetto al 26% degli alunni, mentre solo il 22% delle ragazze sceglie un istituto tecnico contro il 42% - quasi il doppio - dei ragazzi. Inoltre, tra i laureati, solo il 16,5% delle donne consegue la fine degli studi universitari di facoltà STEM, contro il 37% degli uomini.
Constatando dei dati da una prospettiva lavorativa si evince che, nel mondo del lavoro italiano, il tasso di occupazione femminile sia per l’area “scienze e matematica” che per l’area “informatica, ingegneria e architettura” è inferiore a quello maschile di 10 punti percentuali. Per stimolare l’interesse delle giovani ragazze verso le materie STEM, quest’anno in Italia è stata celebrata la “Settimana STEM”, la prima di tante, a seguito della “Legge 187” promulgata nel 2023.
“La fisica è stata inventata e costruita dagli uomini, l’ingresso non è su invito.
La fisica? Non è donna”. Queste le parole del fisico Alessandro Strumia che non ci lasciano di certo indifferenti.È pressoché evidente che alla base della sua pesante discriminazione si celino stereotipi di genere e convenzioni sociali, compresi gli orientamenti tradizionali all'interno della famiglia, senza inoltre dimenticare gli svantaggi sul luogo di lavoro che sviliscono ancora oggi le donne. Oltre alla retribuzione mediamente più bassa, a parità di impiego, prevale ancora l’idea che la popolazione femminile debba occuparsi della sola attività casalinga e del solo mantenimento dei figli. Questa situazione riduce il loro potere contrattuale sul mercato del lavoro, anche per promozioni interne ed esterne. Oltre a ciò è ancora più spiacevole constatare che questo è solo un esempio tra tanti altri interventi inopportuni che fanno capire che ancora, nel 2024, ci sia da lavorare sulla parità di genere.
Le personalità femminili che si sono distinte nell’ambito scientifico-tecnologico sembrano essere sempre più nascoste di quello che pensiamo, eppure sono le stesse che hanno scoperto la struttura del nostro DNA, la teoria della relatività del tempo e dello spazio e che hanno contribuito ai primi lanci in orbita e alla conquista dello spazio. Rosalind Franklin, Mileva Maric, Katherine Goble Johnson, Mary Jackson e Dorothy Vaughan sono solo alcuni dei grandi nomi della storia, delle hidden figures a tutti gli effetti. Ed è proprio su Katherine, Mary e Dorothy che il regista Theodore Melfi ha voluto porre l’attenzione con il suo film Il diritto di contare che racconta la storia di queste tre donne scienziate che hanno lavorato alla NASA e che hanno collaborato a una delle più grandi operazioni della storia: il lancio in orbita dell'astronauta John Glenn. La loro è una storia di ribellione di fronte all’ingiustizia: ribellione che però non è fatta di violenza, piuttosto di resistenza.
10/07/2024
Nel corso della sua opera Studi sull’Isteria, Freud descrisse un fenomeno curioso: la sua paziente era spaventata dalla sua tendenza a trasferire sulla persona del medico le rappresentazioni penose che emergevano dall’analisi. Infatti, questa – attraverso il metodo delle associazioni mentali – pare si accorgesse che alcune situazioni a lei precedentemente accadute si riproponessero nel rapporto che aveva con il neurologo tedesco durante le sedute. Allora il padre della psicoanalisi teorizzò uno dei più importanti concetti della sua scienza: il transfert. Ovvero, un fenomeno che consiste nell’attaccamento del paziente all’analista e che si manifesta o con amore e sentimenti positivi o con odio e sentimenti negativi; tale relazione si presenta, nei confronti dello psicologo, come una ripetizione del primitivo attaccamento al padre o alla madre. È, quindi, un processo utile alla consapevolezza del paziente di come i propri sviluppi infantili abbiano ripercussioni sull’individuo adulto. Ecco perché, durante l’analisi, la persona sente il bambino che è in sè emergere, e poi finire in contrasto con l’individuo adulto, così da riprodurre il conflitto tra conscio e inconscio, che, stavolta, sarà sotto gli occhi dell’analizzato, il quale potrà acquisire coscienza – con l’aiuto dell’analista – dei propri problemi irrisolti.
Nel corso del tempo molte variazioni di questo fenomeno psichico sono emerse, sostituendo la versione originaria di Freud o semplicemente ottimandola con modifiche. Un aspetto comune a tutte le successive revisioni è l’ambito sulle quali queste si siano focalizzate. Questo punto comune è proprio il rapporto che lega il paziente al medico, in modo tale che il processo di transfert funga da strumento attraverso cui compiere l’analisi. Di conseguenza si può affermare il carattere funzionale con cui il transfert è stato generalmente indicato.
Un aspetto che, invece, è bene porre in risalto è il vedere lo stesso processo psichico applicato alle relazioni umane. Strachey, uno psicologo inglese, osservò che, se il paziente proiettava le sue immagini primitive e ormai introiettate1 sull’analista, esso diventava come una qualsiasi persona incontrata dal paziente nella vita reale.
È perciò possibile ravvisare tale processo psichico ovunque, in qualsiasi rapporto interpersonale e non limitato a uno studio a quattro pareti.
Viene allora la questione principale: quale ruolo può avere esso nella società?
Da ciò che ho evidenziato precedentemente si può affermare che il transfert sia un rapporto di dipendenza in cui il nostro “essere bambino” si affida in tutto e per tutto, o almeno quasi, al medico, e dunque, estendendo il fenomeno alla quotidianità possiamo identificare il nostro affezionarci o distaccarci come un trasferimento del nostro rapporto con i genitori – a sua volta tradotto come una ricerca di sicurezza, dipendenza al fine di fronteggiare i pericoli della vita – a quella persona. È così dimostrato che quella sensazione di ammirazione, di appartenenza verso un individuo, un personaggio di una serie TV o di un film, un leader politico nient’altro è che la proiezione del proprio bisogno di sentirsi sicuri. Riporto alcuni passi di uno psicologo tedesco, Erich Fromm, il quale sostiene tale tesi:
«Anche l’adulto è debole e, al pari del bambino, è alla ricerca di qualcuno che lo faccia sentire deciso, sicuro, in salvo, ed è per tale ragione che desidera ed è proclive a venerare personaggi che sono, o che volentieri si prestano a essere considerati, salvatori e protettori anche se magari sono degli squilibrati». (da Grandezza e limiti del pensiero di Freud, Mondadori, Milano 1979)
Sia l’adulto che il bambino, afferma Fromm, vivono in una condizione di instabilità e di pericoli dai quali tentano di fuggire. Questo meccanismo di transfert, quindi, provoca dipendenza, poiché affida la propria autonomia a chi, all’apparenza, pare poter soddisfare i nostri bisogni facendoci sentire protetti. È chiaro come una persona non potrà mai svolgere questa mansione per nostro conto e, dunque, nemmeno potrà assicurarci la salvezza dai pericoli che la vita inevitabilmente ci pone davanti.
È necessario, obbligatorio, cardine prendere consapevolezza dell’esistenza di questo processo psichico che può rendere estranea a noi la sopravvivenza e la convivenza nel mondo conducendoci alla subordinazione. La conseguenza più grave di un simile attaccamento è che nel momento in cui si perde la figura di riferimento, si perde anche se stessi giungendo, così, a uno stato di estrema confusione e disorientamento.
1con questo termine Strachey si riferisce alle prime immagine che abbiamo dei nostri genitori
L’arma per rispondere a questa minaccia interna è il rendersi conto della presenza del transfert e dubi tare dell’ammirazione o dell’odio a priori verso una persona, nella maggior parte dei casi, ancora poco conosciuta.
10/07/2024
A te
Di questi versi
Non frega un cazzo.
Non ti cambieranno, forse
Non li leggerai nemmeno, è così
Non cambieranno me.
Il tempo
Li divorerà, passerà poi a noi
Nulla resisterà, nemmeno la bellezza immortale
Avrebbe dovuto salvare il mondo la bellezza
Nessuno, ahimè, ha salvato lei.
Dio ha creato piccoli giochi e
Ce li ha messi nel petto
Marchingegni d’amore, non funzionano da soli.
È la dolce condanna di giocare con l’altro
Che tu chiami resurrezione, non si rivive uscendo da un sepolcro
Basta questo, un gioco d’amore
Perciò rivivi con me, fai il bagno nel sole
Risorgi anche tu, nei giochi del cuore.
LA DOLCE GUERRA
Il mio cuore era giornalmente
condannato a morte d’improvviso
prolungavi inaspettatamente la sua pena
ma a lui, piaceva
viveva ogni istante della sua vita in pienezza assoluta
ora è un vecchio generale
che ha abbandonato la guerra
non ce la fa più a camminare
e di se non sa che fare.
Si vive per combattere
Si combatte per amare.
10/07/2024
Inferno è una delle parole più ricche e complesse della nostra lingua. Di origine latina, l'aggettivo infernus racchiude al suo interno la sfumatura inferus, stando quindi a indicare una zona piuttosto bassa rispetto allo spettatore, addirittura nascosta, fino a identificarsi con la dimora dei di inferi, la terra promessa dei cadaveri, la prigione dei dannati. Col trascorrere del tempo, insomma, la parola Inferno ha sprigionato una forza immaginifica tale da lasciarci spesso attoniti dinnanzi alle sue personificazioni letterarie, cinematografiche, artistiche e via discorrendo.
Nello sconfinato panorama letterario italiano, tuttavia, non è ancora apparsa un'opera tanto evocativa, profonda e viscerale da superare, quanto meno scalfire, quella rappresentazione dell'Inferno, capace di influenzare l'immaginario dei paesi circostanti (e non solo) senza dominando sulle piaghe del tempo.
Lasciata ogni speranza e superata la celebre porta, l'Inferno di Dante Alighieri si apre a noi come uno scrigno oscuro che custodisce non soltanto le cruente punizioni a cui i peccatori sono sottoposti per aver rifiutato la luce di Dio. Qui ha luogo una delle più incantevoli contraddizioni della letteratura: nonostante le atrocità a cui assistiamo attraverso gli occhi di Dante, l'opinione pubblica non accenna a cambiare: il regno dei dannati è ancora oggi la cantica più apprezzata, perché l'umanità trasuda da ogni verso. Anche quando assumono forme demoniache, ci raccontano le loro colpe e poi ci restano a guardare, incattiviti, mentre noi proseguiamo con il viaggio, le creature che Dante incontra nell'Inferno sfiorano le corde della nostra empatia lasciando un graffio rosso dentro ognuno di noi. Un tocco che il Purgatorio e il Paradiso, per quanto siano luoghi certamente più sacri e "vivibili", è in attesa di compiersi senza mai arrivare al finale, come nell'affresco di Michelangelo La creazione di Adamo.
Il fascino terribile che l'Inferno dantesco esercita sin da sempre sui lettori, forse, non è solo frutto della tendenza, propriamente umana, al non resistere alle tentazioni. O meglio, non si tratta solo di questo. Una motivazione potrebbe risiedere nella natura stessa dell'Inferno, in quanto anche il regno dell'etterno dolore, nonostante tutto, è un'opera d'amore. Una dimostrazione magistrale della giustizia divina che si compie, progettato in origine per gli angeli che si ribellarono insieme a Lucifero, una creazione che sancì la fine delle cose eterne e l'inizio di quelle periture.
Da quel fatidico giorno rifiutare Dio, e quindi servirsi in malo modo del libero arbitrio, è un peccato che va patito per l'eternità.
Tutto esiste in virtù di questo Primo Amore.
Ma si può dire lo stesso delle cose compiute dall'uomo in nome di Dio?
Esiste un punto oltre il quale operare per Lui non è più accettabile? Se l'Inferno stesso è un luogo di sofferenza, sarà forse quest'ultima il baluardo della giustizia divina?
Questi sono solo alcuni degli innumerevoli interrogativi che sorgono nel lettore quando si addentra nella lettura di "Dopo di noi venne l'Inferno". Nello scenario apocalittico descritto da Andrew Joseph White, di cui altri due romanzi sono previsti in uscita quest'anno, sono molteplici le riprese dantesche, più involontarie che volontarie, ma sono altrettante le divergenze, com'è giusto che sia.
La verticalità non è la caratteristica principale dell'avventura di Benji, il protagonista di Dopo di noi venne l'Inferno. Come sarà proprio lui a dichiarare, "l'Inferno ci ha seguito sulla Terra e io sono il mostro che gli ha aperto la strada".
La storia non si sviluppa nell'oltretomba, ma affaccia su un futuro dove è stata presa una decisione estrema, che ha comportato la scomparsa di buona parte dell'umanità, una sorta di primo giudizio universale innescato da altri umani per "volere di Dio". Il piano non è ancora giunto al termine, ed è proprio su Benji che grava un dovere superiore, "il colpo di grazia" potremmo definirlo. A differenza di Dante, tuttavia, Benji si sottrae con tutte le sue forze alla sorte impostagli, opponendosi a tutti coloro che vogliono figurarsi come sua guida, arrivando a tentare la fuga e, fallita questa, a essere accusato di miscredenza.
Ma siccome Benji rappresenta il punto cruciale per il compimento del piano, nessuno può sbarazzarsi di lui: il ragazzo deve essere assolutamente riportato sulla diritta via.
Così Dante definisce l'allontanamento dall'ortodossia religiosa, come una strada smarrita in seguito a uno stato di dormiveglia. Va anche detto che Benji è additato come peccatore soprattutto per un altro motivo: perché non è un ragazzo vero, ma dice di sentirsi tale sin dalla nascita. E le persone facenti parte della comunità queer, specialmente negli ambienti fortemente religiosi, sono accusate di sfregiare l'ordine naturale delle cose, "così come lo ha voluto Dio". Ciò, purtroppo, è dimostrato ancora oggi dalle atroci terapie di conversione che si effettuano in diversi stati del mondo.
Già accennato prima, uno dei temi portanti della Divina Commedia è quello della guida. Sia Virgilio che Beatrice, così distanti eppure legati dalla necessità di accompagnare Dante nel suo cammino, sono permeati da una premura, un'humanitas, che nel canto II li spinge a dimenticare persino leggi fondamentali dell'oltretomba.
Sono molte di più le persone che cercano di ricoprire questo ruolo nella vita di Benji, ma senza successo. A cominciare dalla madre, dal viso angelico quanto spietato, il cui amore sembra orientato più verso il ruolo che spetta a Benji ("mamma aveva detto che sarei stato venerato come il vero strumento della volontà di Dio, santo quanto i cherubini, i troni, i regni e le virtù") che verso Benji stesso. Prima di lei c'è stato suo padre, l'unico a non condannarlo per il fatto di essere un ragazzo transgender, deciso più che mai a sottrarlo al suo destino anche se non sembra esserci altra via di fuga per Benji. Sebbene lasci la storia troppo presto, e anche in maniera alquanto brutale, le parole di suo padre sono una costante nell'avventura di Benji, una voce che gli risuona in mente durante le notti più buie e dolorose. C'è una promessa che legherà per sempre padre e figlio, anche se resta solo uno di loro a compierla attraverso l'Inferno terrestre. Infine, c'è Nick, il ragazzo a capo della resistenza, tacito e serio, consapevole che il potere di Benji sia "terrificante come quello del Diavolo e doppiamente giusto", e tuttavia disposto ad accettarlo nel suo gruppo, rifugiato nel centro di accoglienza LGBT+ di Acheson, nella speranza di vivere fino a diventare grandi, insieme.
Alla fine di tutto, è interessante osservare come per Dante l'idea di Inferno esista e persista principalmente come aldilà, restando quindi più legata al significato originale della parola. Non stupisce che il lavoro dantesco risulti insuperabile, in quanto rappresenta anche la più grande ripresa mitica greco-romana mai attuata, seppur filtrando tutto attraverso il messaggio cristiano.
L'Inferno di White, invece, è più vivo che mai, come la rabbia che vive avvinghiata all'autore. Lui stesso, nella breve lettera che apre il libro, dichiara che il tema principale è la sopravvivenza contro le atrocità che vengono commesse nel nome della fede. Anche il suo Inferno è popolato di mostri, di umani che mettono al primo posto gli umani anche voltando le spalle a Dio; e altri, quasi tutti adulti, che scelgono sempre se stessi e la propria salvezza.
L'aspetto più inverosimile del romanzo potrebbe essere il fatto che tutto si ritrova nelle mani di ragazzini, ma è in verità il tratto più solido. Perché quando non si è ancora "nel mezzo del cammin di nostra vita", lottare per la salvezza è un dovere morale per poi "uscir a riveder le stelle".
10/07/2024
“Esistono tre modi efficaci di educare: con la paura,
con l’ambizione e con l’amore. Noi rinunciamo ai primi due.”
Rudolf Steiner
Non esiste un solo modo di fare scuola. Guardandomi intorno vedo molti studenti che soffrono, eppure nel corso della storia tante menti brillanti si sono dedicate alla pedagogia e all'insegnamento nel tentativo di educare meglio. Tra questi maestri, è secondo me degno di essere conosciuto Rudolf Steiner, un pedagogo tedesco che cercò di creare una nuova scuola, aperta a tutte le classi sociali, in cui l'individuo potesse formarsi e crescere libero.
Per la pedagogia steineriana (detta anche Waldorf), l'obiettivo è crescere degli individui liberi ma responsabili: non bisogna né abbandonare il bambino a se stesso né forzarlo a percorrere un sentiero prestabilito, bensì mostrargli quante più strade possibili lasciandogli la scelta di quale percorrere.
Questo avviene con un'educazione basata sull'esperienza diretta e la curiosità, che preferisce evitare aride nozioni e ore passate sui libri. Per esempio, nelle materie scientifiche (come fisica o chimica) invece di spiegare le varie leggi e nozioni, l'insegnante cerca di farle ricavare dagli studenti mediante esperimenti fatti in classe, in modo che la comprensione del fenomeno avvenga sempre dopo la sua osservazione.
Un altro modo di allenare le capacità creative del ragazzo avviene invece con l'arte. Mentre nel tradizionale percorso di studi l'arte ha un ruolo marginale, nelle scuole Waldorf vengono dedicate molte ore a pittura, scultura, cucito, teatro, musica o altre attività simili, facendo lavori via via più complicati nel corso degli anni (a 7 anni per esempio si realizzano porta-flauto a maglia, mentre a 17 anni si rilega un libro o si scolpisce il marmo). Steiner riteneva infatti che le scuole dovessero far crescere l'alunno anche da un punto di vista artistico, e mostrargli quanto potesse fare con le sue stesse mani.
Il rapporto tra studenti e docenti poi, è molto particolare. Specialmente nei primi anni, i ragazzi hanno principalmente a che fare con il “maestro di classe”: questi prende una classe in prima elementare e la porta avanti fino alla “dodicesima” (la nostra quarta liceo), lasciando via via spazio agli specifici maestri di materia col proseguire degli studi. Naturalmente già alle medie il maestro di classe insegna solo ciò su cui è abbastanza preparato, ma rimane pur sempre una figura di riferimento centrale: organizza le gite, coordina i suoi collaboratori, lavora alle recite ed è in stretto contatto con i genitori. I ragazzi quindi rimangono molto attaccati al loro maestro di classe, ma anche questi si lascia profondamente influenzare da loro: in questa filosofia, sono prima i bambini che insegnano qualcosa al maestro. Non si deve credere però che i maestri siano amiconi dei loro studenti: devono comunque rimanere al loro posto, sebbene senza chiudersi in una fortezza di autorità (non sono tanto distanti da quello che potrebbe essere un “terzo genitore”).
I maestri hanno anche il duro compito di motivare gli studenti. Mentre nelle nostre scuole ciò che sprona a studiare è quasi solo il voto (il programma è scandito da verifiche e interrogazioni, siamo premiati per una media alta e se il voto è insufficiente veniamo puniti con altre prove di recupero), la pedagogia Waldorf guarda con diffidenza questi strumenti.
Verifiche e interrogazioni sono quasi assenti: vengono introdotte solo nelle classi più grandi così da abituare i ragazzi alla scuola successiva, ma sempre mantenendo un ruolo marginale; infatti non ci sono voti e non c’è un registro. Per accertarsi che gli alunni non rimangano indietro quindi, i maestri li seguono molto da vicino (piuttosto che aspettare un compito insufficiente per intervenire). Questo approccio è aiutato da un modo diverso di affrontare il programma nel corso dell’anno: in periodi di 3 o 4 settimane chiamati “epoche”, le prime due ore vengono dedicate alla stessa materia. Ciò aiuta soprattutto gli studenti in difficoltà con quella disciplina, che possono dedicarcisi senza essere appesantiti dal resto del programma, ma permette anche a chi è già interessato di approfondirla e di godersela con tranquillità. L’immersione è anche favorita da un’assenza quasi totale di libri scolastici: ogni alunno lavora al suo quaderno per ogni materia, creando così il suo personale compendio di quella disciplina, mentre i maestri forniscono del materiale scritto che è stato raccolto (o creato) da loro appositamente per quella classe. Nonostante distribuzione di orari diversi, attività extra, assenza di libri e metodi molto differenti, i ragazzi seguono comunque il "programma" scolastico, perciò non si deve pensare che questi studenti non siano al pari delle altre scuole sotto questo punto di vista. Infatti tra quelli che lasciano le scuole Waldorf alle medie, quasi nessuno riscontra difficoltà a stare al passo con il programma delle scuole pubbliche superiori, forse sono anzi più avvantaggiati in certi ambiti per via del loro approccio più propositivo e la loro capacità espressiva.
Tra le varie pedagogie alternative che ho incontrato, questa è quella che più mi sta a cuore. Restituire vita al sapere, accogliere i ragazzi e mostrar loro il bello del mondo; sono convinto che una migliore educazione migliorerebbe la nostra società.
In tutte le cose, per quanto a primo impatto antipatiche, ci deve essere qualcosa che ci può affascinare: una buona educazione deve mostrarcelo.
10/07/2024
“La tua carne è la sua fantasia”.
— The Human Centipede.
L’horror è il genere corporeo per eccellenza: un linguaggio senza eguali per la rappresentazione dei terrori del corpo, dei sentimenti più contorti e radicati, tendente a sottolineare e a sradicare valori e tradizioni becere a cui siamo troppo fusi per poterne riconoscere le sfumature — in momenti come questi l’arte oltre a essere un mezzo espressivo diviene anche un mezzo di riconoscimento e di consapevolezza, tanto da riuscire a ricoprire un ruolo fondamentale non solo per l’intrattenimento, ma anche per la scoperta di sé e del mondo circostante.
Tale rappresentazione, nei giorni odierni, rientra nei sottogeneri dell’horror e prende il nome di “body horror” o “horror biologico”. Erede del gotico, il body horror è intrinsecamente grottesco, richiamando le atmosfere più tenebrose e al contempo alimentando l’analisi psicologica del decadimento (horror psicologico) dei personaggi attraverso mutilazioni o trasformazioni, rendendo così il corpo del soggetto in questione “mostruoso”. È importante notare, a questo punto, che per la creazione di un mondo gotico si necessita un’alterità mostruosa e il modo più facile per individuarla è attraverso la corporeità. I film appartenenti alla sfera del body horror si propongono di esplorare le paure radicate dell’uomo nei confronti del corpo, soprattutto dopo l’evoluzione scientifica e tecnologica, che hanno determinato rilevanti scoperte riguardo le capacità e i limiti dell’essere umano. Gli aspetti spettrali e inquietanti dell’horror ottengono sempre una grande considerazione, a differenza degli aspetti somatici e corporei, i quali, basandosi sulla consapevolezza dello spettatore del proprio corpo, giocano con la possibilità dell’esistenza di qualcos’altro, qualcosa che non possiamo vedere e che, di conseguenza, temiamo. La paura dell’ignoto è un movente perfetto, sempre attuale, con una storia culturale e sociale (in)espressa nelle arti: in quest’articolo, prendendo in esame la settima - ovvero l’arte del cinema -, mi prospetto di analizzare i messaggi inviateci dai film «body horror», con l’aspettativa di trovare corrispettivi con la società odierna.
Un punto saldo del cinema horror è sicuramente occupato da Rosemary’s Baby (1968), film diretto da Roman Polanski. Questa pellicola è una delle prime ad avere caratteristiche body horror, trattate con un surrealismo e un realismo incredibile, tantoché influenzerà opere successive come l’Esorcista (1973) di William Friedkin, altro classico indimenticabile.
La storia verte su due giovani, Rosemary e Guy Woodhouse, che vanno ad alloggiare a New York nell’American Gothic Dakota Building, esperienza che col passare del tempo si trasforma sempre più in un incubo. Infatti è qui, nel Dakota, che risiede una setta decisa a generare il figlio di Satana. Ergo, i temi centrali del film saranno la procreazione e la maternità, argomenti che vengono inquadrati proprio dalla protagonista Rosemary, seppure in modo semi soggettivo. L’horror s’intreccia dunque al quotidiano e poi al sacro, toccando la generazione che è divina, ma al contempo malvagia. La paura femminile di procreare si plasma nella constatazione che generare non è altro che l’ennesimo meccanismo conformista per controllare la donna e il suo potere riproduttivo ingestibile. Ed è infatti il marito di Rosemary, Guy, a vendere il figlio al Demonio, testimoniando quanto sia integrato in quel meccanismo; mentre la protagonista lotta, portando lo spettatore a vagare fra paranoia e realtà fino alla fine del film, che si conclude con l’accettazione da parte di Rosemary del figlio, ossia un “mostro”. Una volta presa coscienza della mostruosità del corpo, non si teme più soltanto il pericolo dell’essere misterioso, ma anche delle caratteristiche umane di quest’ultimo, poiché la presenza di queste prevede anche una dose di mostruosità riservata agli umani. La maternità di Rosemary, non controllata e scelta da lei, rappresenta la repressione della femminilità, di una società che regolarizza la famiglia e la sessualità delle donne, così da non far crollare il patriarcato. Il corpo della protagonista muta nel film, appare inizialmente come lucente e adolescenziale, fino a diventare
smagrito e incavato; questa metamorfosi è il passaggio da figlia a madre, da un soggetto controllato dalla società ad un altro, forse più spaventoso. «La gravidanza è una trasformazione del corpo così estrema che ha come risultato un’altra persona. In questo non somiglia a nulla, eccetto, forse, al cambio di sesso» dice la teorica Andrea Long Chu.
Uno dei maggiori esponenti del body horror è David Cronenberg, regista inimitabile e indimenticabile: caratteristiche che ci vengono dimostrate fin dall’inizio della sua carriera, ma che ricevono il giusto riconoscimento solo dopo molto tempo. Ricordiamo, pertanto, Videodrome (1983), pellicola in cui Cronenberg più che mai disegna la sua poesia della carne, creando una dimensione mai vista prima, nella quale entra a far parte anche la tecnologia. Ma come ci riesce? Codificando e plasmando le fantasie più desuete dell’essere umano, giocando con le loro menti e con i loro corpi. La storia riguarda Max Renn, presidente di un programma televisivo che imbattendosi in “Videodrome”, show incentrato sulle torture carnali, si ritrova in un vortice di allucinazioni e deliri. Il protagonista è talmente affascinato dal canale che il virtuale e il reale inizieranno a fondersi, riuscendo a rappresentare meravigliosamente il rapporto tra uomo e immagine multimediale. Ma prima di questo ci viene presentata un’ideologia innocua, dove l’obiettivo è solo soddisfare le pulsioni incontrollabili e calmare le frustrazioni. Eppure è proprio l’innocenza di questi stimoli a portare all’eccesso. Con il mondo della tecnologia, e soprattutto attraverso il mondo della tecnologia, si scopre che c’è sempre qualcosa in più che si può sopportare. Il film è proprio questo, una valanga d’informazioni, che portano a quello stato confusionale, non permettendo più di riconoscere, per esempio, la violenza finta, dalla violenza vera. Cronenberg mediante il corpo parla della mente, del suo decadimento al seguito di uno stimolo come la tecnologia, che si propone di sostituire la realtà stessa, riuscendoci. La trasformazione di Max in un organico videoregistratore, pronto ad accogliere nel suo ventre una fetale videocassetta, è una manipolazione, un modo per trasformare il corpo e portarlo a nuovi stimoli sensoriali. Una pellicola dove l’annullamento dell’umanità e della libertà di pensiero avviene sadicamente e in cui l’unica salvezza è la morte (rinascita), un’ennesima alterazione della realtà. Ed è quindi un “lunga vita alla nuova carne”.
Tutte rappresentazioni che riflettono ancora la società, dalla donna-madre, all’uomo tecnologico. Tuttavia, ce n’è ancora una di cui vale la pena parlare: questa tratta un aspetto che ha sempre, in un modo o nell’altro, caratterizzato l’umanità, ed è quello dell’incomunicabilità, che potrebbe in ogni caso essere analizzata come conseguenza della tecnologia. Il film in questione è The Human Centipede: First Sequence (2009) di Tom Six, primo di una trilogia. Storia alquanto classica, che si apre con il Dr. Josef Heiter, chirurgo specializzato nella separazione di gemelli siamesi, che rapisce tre turisti e li rinchiude nella sua casa con l’intento di trasformarli in un millepiedi umano, cucendo la bocca di uno sull’ano dell’altro. Col suo sadismo disgustoso, la pellicola fin dall’inizio, tramite pianti soffocati e violenze lasciate all’immaginazione, ci fa comprendere che la disperazione è l’elemento portante, enfatizzando la vulnerabilità della carne e della sua complessità. È evidente che il film faccia riferimento alla Seconda Guerra Mondiale: il dottore, tedesco, col nome richiama a Mengele e col cognome a Hitler, mentre le vittime (due ragazze americane e un ragazzo giapponese) completano il quadro, che è chiaramente ben radicato in un contesto altrettanto specifico. Non è un riferimento approfondito, ma sicuramente non banale, poiché ci porta direttamente al tema principale: l’incapacità di comunicare; infatti le vittime parlano lingue diverse e due di loro hanno la bocca cucita. Nel finale del film, Katsuro (il ragazzo giapponese), inizia un monologo affermando d’essere un insetto e che il dottore invece, è Dio, andato a punirlo per aver lasciato la sua famiglia. Egoisticamente, Katsuro infine, decide di tagliarsi la gola; assieme a lui muore anche la ragazza che conclude il Millepiedi, a causa di un’infezione, lasciando così sola l’amica, intrappolata fra i due corpi e destinata a perire — la sua condizione potrebbe riferirsi alla solitudine e, di conseguenza, riportare al centro del discorso l’assenza di comunicazione.
Queste opere, seppure molto diverse, hanno in comune il mezzo col quale comunicano i propri messaggi e disturbano lo spettatore. Questo mezzo è il nostro corpo, dove tutto nasce e tutto muore, artefice di miracoli, ma al contempo carnefice di peccati.
Il sottogenere del body horror si contraddistingue perché non distrugge, bensì trasforma.
10/07/2024
L’altro giorno ero in macchina con mia madre; in radio passava Come as You Are dei Nirvana. Mi sono voltata verso di lei e le ho detto in tono divertito:
«La canzone dice “I swear i don’t have a gun” ma non era proprio così alla fine, no?»
E lei con la proverbiale prontezza dei boomer mi ha fatto:
«In che senso?»
«Che Kurt Cobain si è ucciso, con un fucile, ti ricordi?»
«Io sapevo che lo avevano assassinato. Quando io e papà ci stavamo per sposare giravano mille teorie.»
«Ma erano complotti?»
«Non saprei dirti».
A Seattle, in Lake Washington Boulevard East 171, alle 08:40 di mattina dell’8 Aprile 1994, nella veranda sopra il garage della villa il corpo senza vita di Kurt Donald Cobain giaceva con un fucile tra le gambe. E intorno a lui, sparsi, cucchiaini e siringhe, 120 dollari in contanti e la sua nota d’addio, infilzata con una biro nera. E fin qui tutti d’accordo. Il corpo viene trovato da un elettricista entrato per fare lavori di manutenzione. Kurt era scomparso da qualche giorno, dopo solo 24 ore nella clinica di riabilitazione a Marina Del Rey, California. Proprio in quella stessa villa, una settimana prima, si era svolta una riunione; insieme avevano tutti concordato (Kurt compreso) che fosse necessario ricoverarlo per via della sua dipendenza dall’eroina. Era dunque entrato volontariamente e poi ne era fuggito, prendendo un aereo e facendo perdere le sue tracce. Qui ci inoltriamo nella nebbia.
Courtney Love, moglie di Kurt, ingaggia subito un investigatore per ritrovare suo marito: Tom Grant. Non un investigatore privato qualsiasi, ma un uomo con un curriculum da far spavento che si era addirittura occupato dell’impeachment di Clinton. Grant si mette sulle tracce di Kurt, ma pur visitando la casa due volte non gli viene in mente di controllare la stanzetta sopra al garage. Passano tre giorni prima che il corpo del cantante venga ritrovato. Quando arrivano sulla scena del delitto agli inquirenti la situazione sembra chiara: suicidio con un fucile Remington M-11; un colpo in testa e morte istantanea. Ma da una collina poco lontana un giovane giornalista di nome Richard Lee scatta dei fotogrammi che saranno il punto di partenza per le speculazioni sul caso. Lee sosterrà che la quantità di sangue intorno al corpo non sia abbastanza da confermare l’ipotesi del suicidio, ma verrà presto smentito dagli esperti. In ogni caso ormai la strada delle teorie di complotto è stata aperta. Da quel giorno il Seattle Police Department sostiene di ricevere almeno una richiesta a settimana di riaprire il caso. Lo stesso Tom Grant solleverà una serie di incongruenze nella versione ufficiale dei fatti: nel corpo di Kurt si trovava tre volte la quantità letale di eroina, non sarebbe quindi stato in grado di sollevare il fucile e spararsi. Inoltre sul fucile si trovavano tracce di impronte digitali, come se si fosse tentato di cancellarle e non ci si fosse riusciti, e viene anche detto che ci fossero stati dei tentativi di usare le carte di credito nei giorni successivi alla morte. E infine la nota di suicidio di Kurt, che pareva scritta con due grafie differenti e con pressione diversa. La parte ambigua sarebbe stata proprio il commiato finale. Quest’ultima opposizione si ricollegherà all’accusa di Grant nei confronti di Courtney Love, nella cui borsa verranno ritrovati dei tentativi di imitazione della calligrafia di Kurt. A insospettire ulteriormente Grant sarà la grande fetta di investigatori assegnati al caso che erano amici, stretti o meno, di Courtney. A questo punto la stampa si scaglia contro la Love; saltano fuori interviste a suo padre dove (causa i rapporti difficili con la figlia forse?) la accusa di essere un’assassina e una mente diabolica. E poi esce la versione della storia di Hoke (leader della band Mentors) durante un’intervista per un documentario sulla morte del frontman dei Nirvana, che evidentemente alterato sostiene che gli siano stati offerti da Courtney 50.000 dollari per far fuori Kurt. Il movente? La paura di essere diseredata dopo il divorzio, ormai imminente. Due teorie principali finora dunque: il suicidio, per quanto poco accreditato dai fan, e l’omicidio con mandante Courtney. Infine salta fuori la più assurda delle ipotesi: che Courtney fosse ancora legata a certe frequentazioni di una base militare USA in Alaska? E che Kurt fosse vittima di chissà quali losche faccende? Grant partecipa alla stesura di molti libri, lavora al caso per quindici anni gratis. Nel corso del tempo saltano fuori interviste, ipotesi, nomi che vengono poi rapidamente insabbiati. Eppure la versione ufficiale, sebbene il fascicolo sia stato riaperto, rimane quella del suicidio. L’opinione di molti ha poco a che fare con la realtà della morte effettiva: si riconosce a Kurt Cobain una solitudine immensa, un veleno inflittogli da chi gli stava intorno che seppur non provati assassini, rimangono complici di un suicidio che segna la storia della musica.
22/05/2024
Yorgos Lanthimos ci trascina nel mondo di Bella, o meglio, un mondo che Bella, in Poor Things, vuole scoprire.
La giovane donna, riportata in vita, dal medico Godwin Baxter, si presenta come tale, ma ha la mente di una bambina.
Lo spettatore spia, prima attraverso le immagini in bianco e nero e con l’uso ricorrente del fish- eye, nell’”infanzia” di Bella, nell’immensa villa della Londra vittoriana, costellata da strani incroci di animali e esperimenti del medico God, fino a poi venire a conoscenza di nuovi ed eccentrici personaggi.
Ma è lo sviluppo sempre più rapido di Bella e la sua fame di vita che vogliono dare il ritmo alla pellicola, ed è così che Godwin Baxter, non può tenere la figlia chiusa nelle sue mura più tanto a lungo.
Nonostante la giovane sia promessa all’aiutante di God, Max McCandles, decide di partire per conoscere il mondo con l’avvocato Duncan Wedderburn, un uomo libertino e pieno di donne, che però sembra poter saziare la fame di vita e di conoscenza di Bella.
Lo spettatore riscopre il mondo attraverso gli occhi di Bella: il bianco e nero viene abbandonato dando spazio a colori pastello, sgargianti, avvolgenti, a scenografie oniriche e costumi eccentrici, che rappresentano lo sviluppo e il carattere della protagonista.
La sua scoperta è prima sessuale: di fatto le sequenze che mostrano amplessi non si dimostrano essere un problema né per il regista né per gli attori; quello di Bella, si può dire sia, un vero e proprio risveglio, seguito da un desiderio implacabile di conoscere il suo corpo e il suo piacere. La protagonista nella prima parte del suo viaggio, specie a Lisbona, si dedica proprio al piacere, senza quell’occhio malizioso che una donna adulta e impostata nell’alta società di quell’epoca dovrebbe avere; conosce quindi, il sesso, i sapori, il cibo, la musica, la danza, senza freni e senza regole, ma la sua fame per la libertà e l’ignoto riesce ad essere saziata da un mondo di soli lussi e privilegi.
L’essenza di Bella, la sua mancanza totale di conformismo alle regole, al costume, priva di interesse per i pregiudizi imposti dalla società, portano il personaggio di Duncan Wedderbun, da donnaiolo e disinteressato, ad essere sempre più geloso e possessivo, tanto da condurre la ragazza su una nave crociera, dove è certo che non possa sfuggire da lui.
Lo sviluppo della protagonista a questo punto è sempre più rapido: Bella abbandona frame dopo frame, gli atteggiamenti da bambina, che rendono la pellicola così ironica a tratti, per acquistare ancora di più la sua libertà, attraverso la cultura.
Da questo momento del viaggio, il mondo di Bella, non è più solo fatto da sesso, pasti prelibati e una fotografia pastello.
La giovane donna si scontra con idee, pensieri, dolore, filosofia, storia, libri fino ad avere completo disinteresse per l’uomo che l’accompagna.
Il viaggio si complica fino a Parigi, dove Bella, lavora come prostituta, riscoprendo il sesso, gli uomini e la società, da come pensava di averli conosciuti, dedicandosi allo stesso tempo, alle lezioni di anatomia e alle riunioni socialiste.
Bella è un’esploratrice, è anche un’eroina, ma essendo così umana sbaglia, è vulnerabile; grazie al suo viaggio, siamo noi spettatori i primi a riscoprirci, a mettere in discussione noi ed una società che ci fa crescere sotto un velo fitto di regole, pregiudizi e costumi.
Attraverso gli occhi puri ed innocenti di Bella, donna, giovane, bambina, tutto è concesso: il mondo che pensiamo di conoscere meglio di lei, ci si presenta come nuovo.
Poor Things mette in discussione la morale, affidata fin dagli albori nelle mani degli uomini, fino a condurci in quello che sembra un folle sogno, ma che poi non si discosta così tanto dalla nostra realtà odierna.
La pellicola compie un’iperbole della realtà, così che lo spettatore possa vivere il viaggio di Bella, sentire le catene di cui ella per prima si vuole così disperatamente liberare e conoscere il mondo. Lo conosciamo davvero quindi, il nostro mondo?
E forse, quindi, siamo noi ad essere le povere creature, schiacciate in una società che ci intrappola nelle sue norme fin dalla nascita, senza possibilità di rinascere come Bella.
22/05/2024
Sofia Coppola si contraddistingue ormai da più di vent'anni per via dei suoi film esteticamente perfetti in cui analizza e disseziona la femminilità. Tra i suoi titoli più conosciuti troviamo “Maria Antonietta” e “Il giardino delle vergini suicide” che , al tempo della loro uscita, divisero la critica in 2 fazioni nette: chi detestava la vuotezza dei dialoghi e vedeva soltanto la cura dell'estetica e chi invece notava quanto quei silenzi fossero in realtà carichi di significato. Questo stesso problema si è riproposto anche con l’uscita del suo ultimo film, “Priscilla” , presentato lo scorso settembre alla Mostra del cinema di Venezia dove Cailee Spaeny ha vinto la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile.
“Priscilla”, tratto dall'autobiografia di Priscilla Presley intitolata "Elvis and Me", narra la storia della moglie del "Re del Rock". La trama comincia in Germania quando Priscilla (Cailee Spaeny), figlia quattordicenne di un generale dell'aviazione, conosce Elvis (Jacob Elordi), un ventitreenne già diventato celebre per la sua musica ed i suoi passi di danza rivoluzionari, e ci accompagna per tutta la loro storia d'amore fino al divorzio. Nel corso del film ci vengono mostrati tutti i lati più problematici della coppia; ci viene offerto un ritratto di Elvis molto diverso (e più credibile) rispetto a quello fatto qualche anno fa da Baz Luhrmann e vengono sottolineati maggiormente i comportamenti tossici nei confronti della moglie. Infatti un elemento fondamentale del film è proprio il potere soffocante che Elvis esercita sulla vita della protagonista. Scegliendo tutto ciò che indossa, costringendola a passare la maggior parte della sua gioventù in solitudine e portandola a drogarsi, la presenza del marito fa diventare Priscilla un personaggio secondario non solo nella vita degli altri, ma anche nella sua. Con questo personaggio la Coppola è riuscita a dipingere un ritratto magistrale di una donna che osserva passivamente la propria vita esser completamente rimodellata in base ai gusti ed alle necessità di un uomo. Tutto ciò viene trasmesso anche grazie ai dialoghi carichi di silenzi (un tratto distintivo della Coppola) che ci costringono a notare la solitudine e l’impotenza di Priscilla. La scrittura è uno dei punti più forti del film non solo per la costruzione dei personaggi, ma anche per la struttura molto particolare formata da vari segmenti che rendono la trama incredibilmente scorrevole. Alla base della narrazione non vi è solo un'eccellente sceneggiatura, ma anche un uso molto intelligente delle scenografie e dei costumi. Come la maggior parte delle opere della Coppola, "Priscilla" è un film esteticamente perfetto. Ogni elemento visivo viene utilizzato meticolosamente rendendolo parte integrante del racconto. Nel corso della storia Priscilla vive una profonda metamorfosi passando dall'essere un'adolescente ad essere una donna e, grazie all'uso pazzesco di trucco e costumi, si potrebbe quasi pensare che Cailee Spaeny sia effettivamente cresciuta durante le riprese. L'evoluzione dei costumi da un contributo enorme al film e la stessa cosa viene eseguita in parallelo con le scenografie. L'intima cameretta della vecchia casa in Germania e la fredda e claustrofobica Graceland sottolineano nuovamente la transizione dall'ingenuità adolescenziale alla maturità intrisa di solitudine vissuta dalla protagonista. Infine, non si può parlare di “Priscilla” senza commentare il casting eccezionale per i due attori protagonisti. Cailee Spaeny ci riporta una performance a dir poco spettacolare dimostrando una variabilità incredibile. Personalmente sono rimasta molto colpita dalla scelta di far interpretare Elvis a Jacob Elordi dato che, nonostante inizialmente non mi convincesse troppo, si è rivelato esser perfetto per il ruolo. Elordi è infatti riuscito a ritrarre Elvis in modo estremamente umano, a differenza di Austin Butler che invece aveva dato un forte tono caricaturale al personaggio.
Ma allora qual'è il vero problema di questo film? Il problema di "Priscilla" è proprio lo stesso che accomuna la maggior parte dei film di Sofia Coppola: la tematica ripetitiva. Il filo rosso che unisce tutta la sua filmografia è il concetto di solitudine e, per quanto lei lo possa affrontare in maniera formidabile, sta rendendo il suo repertorio estremamente monotono. Infatti il problema non è il tema in sé, ma il fatto che lo affronti sempre nello stesso modo; una donna (solo in "Somewhere" e “Lost in translation” si tratta di un uomo) bianca altolocata vive rinchiusa in una bolla che la aliena dal mondo esterno. Quindi che ha da dirci questo film? Cosa ci dice che non abbiamo già sentito in “Maria Antonietta” o negli altri film della medesima regista? Onestamente niente. Se preso singolarmente, può sembrare una pellicola dallo stile molto particolare, ma se si considerano le altre opere della sua filmografia ci si rende conto che è solo un copia e incolla di tutti i suoi altri film. Sofia Coppola sta esaurendo le sue idee? Stiamo assistendo al tramonto di una grande regista? Per fortuna, non possiamo ancora rispondere a queste domande, almeno non fino all'uscita del suo prossimo film…
22/05/2024
Savoy Ballroom, Harlem, 1937. Sul palcoscenico della sala da ballo si stagliano le sagome di tredici eleganti figure in abito da sera, l’atmosfera è carica di eccitazione. Improvvisamente dei colpi sulla batteria squarciano il silenzio con una travolgente introduzione, gli ottoni della Benny Goodman Orchestra irrompono con una trascinante melodia a cui è impossibile resistere: i giovani che gremiscono la sala si scatenano sulle note di uno dei brani più famosi della Swing Era, “Sing, Sing, Sing”, e nell’aria si respira tutta l’euforia dei ritmi incalzanti del Jazz degli anni Trenta. Quasi cent’anni dopo, lo stesso brano viene ancora eseguito con lo stesso arrangiamento, i musicisti sono nuovi, gli spettatori anche ma lo spirito è immutato: l’energia e la vitalità spumeggiante dello Swing sono ancora capaci di infiammare gli animi.
Ho scoperto questo genere qualche anno fa, quando ho deciso di dedicare la mia vita allo studio del Jazz ed ho avuto la fortuna di entrare a far parte di due orchestre italiane che si dedicano al repertorio del cosiddetto jazz classico: gli Hot Gravel Eskimos, specializzati nella Swing Era, ed i Chicago Stompers, che riportano in vita la musica degli albori del Jazz, le orchestre degli anni Venti. Sono incappata nella piacevole scoperta di una musica straordinariamente vicina allo spirito giovanile, ingiustamente considerata stantia e morta dalle nuove generazioni. Mi sono dunque ritrovata a domandarmi cosa muova alcune persone a voler suonare, ascoltare o ballare questo genere ancora e ancora e perché a distanza di quasi un secolo, continui ad esercitare un fascino così irresistibile.
Innanzitutto è immediatamente comprensibile nella sua complessità, anche per un ascoltatore meno esperto, ogni brano è sapientemente arrangiato per risultare limpido nella sua simplicitas, melodioso ed accattivante, le complesse architetture nascoste nella scrittura concorrono alla resa di brani che difficilmente lasciano indifferenti. È inoltre un genere caratterizzato dalla presenza di solisti che spiccano per carisma ed estro, musicisti che grazie ad un’assoluta padronanza della tecnica strumentale sono soliti lanciarsi in virtuosismi mozzafiato, esibizioni di maestria, gusto e musicalità.
Cimentarsi nello studio del repertorio del jazz classico presenta notevoli sfide dal punto di vista esecutivo, ma altrettanti vantaggi: lo sforzo richiesto per imitare il sound di un’altra epoca in primo luogo permette al musicista di scoprire le diverse potenzialità del proprio strumento, a partire dall’evoluzione della tecnica a livello storico, abitua inoltre l’orecchio ad un ascolto attento e meticoloso spostando l’attenzione su aspetti musicali che sarebbero di norma ignorati. Per un musicista poi, è imprescindibile lo sviluppo di un senso d’insieme orchestrale, di reciprocità dell'esecuzione e dell'importanza del singolo in relazione all’altro, elementi su cui le Big Bands pongono le proprie fondamenta.
Dal punto di vista della voce, strumento a cui mi dedico personalmente, costringe a spogliarsi di tutti i virtuosismi del canto moderno e mettere in discussione gli stilemi del gusto contemporaneo, lasciando spazio ad una distensione che apre il cuore e lo spirito verso un'espressione più naturale e sincera del proprio sentire. Nondimeno, per uno strumento è notevole la dedizione richiesta per assimilare il linguaggio del jazz classico ed esprimere il proprio pensiero musicale attraverso uno stile tanto lontano da quello attuale. È in conclusione un genere che, da musicisti, vale la pena praticare, da appassionati di musica, ascoltare, da ballerini, danzare, dunque, nella speranza di essere riuscita a comunicare il mio entusiasmo nei confronti di questa musica, vi invito a concedervi il piacere di gustare un concerto dal vivo di travolgente jazz.
22/05/2024
Il profumo della mia elegante accompagnatrice mi guida fin sul mio palchetto riservato.
Ma non sarei rimasto sveglio a lungo.
Stanotte ho sognato che il pubblico era finzione e il palcoscenico era reale. Gli attori si muovevano, correvano come cani, saltavano, strappavano la vita via dai fiori e strappavano i petali lungo il fondale nero della notte che ingoiava il mondo.
Il pubblico era immobile, fermo nel nero della morte.
Nero tinto di rosso, il nero è la morte e il rosso è vita che fugge, rosso sangue, sorge la luna e la mia pelle bianca si congela.
Sono fermo nel mio palco che osservo, non so se dormo o se sono sveglio, non so se mi ghiaccia la luce bianca della luna o lo sguardo color ghiaccio della mia accompagnatrice. So solo che non posso muovermi, perché sono parte del pubblico e posso solo guardare il palcoscenico che vive e respira, il ritmo del respiro sono le mille corde tese nel bianco della sua luce.
Ora siamo in due nel palco, io e la luna. ma “io” esiste sempre meno, è solo una delle tante ombre che si spengono tra il pubblico.
E ancora una volta s’illumina la notte.
Nessuno ci aveva avvisato che il protagonista era il buio. Se da sempre, a teatro, le luci e il loro gioco regnano sulla scena, in “S’illumina la notte” appaiono poche volte, e mai per caso: l’intero spettacolo si svolge in un universo notturno in cui lo spettatore non si aspetta mai la luce, e perciò quando la vede sa che sta per succedere qualcosa; questo è l’ingrediente principale dell’opera, un ensemble della poetica del grande drammaturgo siciliano Franco Scaldati, eseguito da Livia Gionfrida e portato in scena da teatro metropopolare, una compagnia di origini sicule, ma da anni operativa anche a Roma e Prato, dove fra il 20 e il 25 febbraio si è svolta la prima nazionale.
Lo scopo di Gionfrida è presentare al pubblico un grande contemporaneo come Scaldati, drammaturgo e soprattutto poeta, che in questo spettacolo rende la poesia, nella sua irrazionalità, narratrice a tutti gli effetti. Ci riesce, grazie a due elementi tradizionali del teatro: la scena, allestita con corde, petali bianchi, un centinaio di stivali e poco altro, ma completa in questo binomio fatale tra buio e luci; gli attori, che si calano nei panni di personaggi “gobbi e deformi”, irrazionali, con abiti e gestualità fuori da ogni luogo e tempo, eppure così esperti nel parlare al nostro pubblico del terzo millennio.
Con la loro gestualità accesa, le loro voci concitate e qualche espressione dialettale di tanto in tanto, i personaggi parlano in siciliano, ma sono immersi in un mondo di tenebre in cui l’uomo ha ormai distrutto ogni appartenenza e ogni capacità di relazione: lo si capisce dal modo in cui i personaggi più disparati e diversi per abito e classe sociale comunicano, provano terrore nel guardarsi a vicenda e poi corrono da tutte le parti; e come nel più terribile dei sogni, non esistono forme stabili, e il bellissimo principe della notte un momento dopo abbaia come un cane. Siamo in un universo tragicomico, distante dal quotidiano, in cui le musiche di carillon, le danze e le voci dei personaggi ci divertono, ma il mondo in cui sono immersi ci mette terrore. “S’Illumina la notte” è un carillon da incubo che vuole svegliarci in preda al fiatone per farci incontrare la poesia vera e propria, il logos degli antichi che crea amicizia e uguaglianza tra tutte le creature e che rischia di essere spento per sempre.
22/05/2024
Tra il 1892 e il 1894 il pittore francese Oscar-Claude Monet dipinse ben cinquanta volte lo stesso soggetto: la Cattedrale di Rouen. Scelta curiosa e assai insolita considerato l’amore dell’artista per la rappresentazione dei paesaggi naturali. Probabilmente questa sua insolita decisione fu presa a seguito di una forma acuta di reumatismi che gli resero difficile lavorare all’aperto, a causa di ciò optò per raffigurare un monumento che poteva tranquillamente osservare da una finestra rimanendo al chiuso. L’artista si impegnò a raffigurare ripetutamente sempre la facciata frontale della chiesa, riportando su tela in maniera semplificata le sue intricate forme, e a utilizzare per quasi tutti i dipinti uno stesso punto di vista obliquo. Monet dipinse queste Cattedrali osservandole da vari luoghi; prima dal suo appartamento in piazza, poi dal cortile d’Albane e persino dal camerino di un ex negozio di lingerie. Pur presentando sempre il medesimo soggetto, queste cattedrali sono spiccatamente diverse tra loro; il pittore francese ha infatti deciso di mostrarcele al variare del tempo, del clima e delle condizioni atmosferiche. Questa ripetizione quasi ossessiva dello stesso soggetto ha consentito all’artista di studiare attentamente il monumento e di rielaborarlo continuamente nelle sue tele.
Monet stesso spiegò che all’inizio aveva programmato di dipingere la Cattedrale solamente due volte: una illuminata da un sole splendente, un’altra durante una giornata nuvolosa. Notò, poi, che il cambiamento della luce era costante e così decise di registrare sulle sue tele tutte le espressioni che la Cattedrale di Rouen assumeva ogni qualvolta la luce cambiasse.
Monet non era interessato alla complessa architettura del monumento gotico, il suo scopo non era infatti quello di riuscire a riprodurre fedelmente la chiesa. Il pittore desiderava cogliere i mutamenti della luce e imprimerli per sempre su una tela in modo tale da farli sopravvivere attraverso i secoli. Il suo interesse era unicamente rivolto verso lo studio delle varie problematiche relative all’utilizzo del colore e delle ombre. Monet fece particolare attenzione alle sfumature e alle zone di penombra che solcavano la cattedrale come rughe su un viso. “Il colore è la mia ossessione quotidiana, la gioia e il tormento”, queste sono le parole del pittore. Il colore non è più unicamente un mezzo per riportare la realtà su tela, esso diventa il vero protagonista dei dipinti. È proprio grazie a lui che l’artista riesce a catturare i mille volti della luce. Nella Cattedrale di Rouen in pieno sole vediamo come la qualità della pittura e del colore utilizzata da Monet arrivi quasi a dissolvere completamente la solida durezza della pietra in una specie di foschia luminosa. Notiamo così come il suo magistrale uso del colore assuma un ruolo fondamentale permettendoci di percepire le variazioni climatiche, le ore del giorno e tutto ciò solo grazie ad un sublime lavoro di parti in luce e in ombra.
Ma quanto è importante la luce? Quanto cambia il nostro modo di vedere le cose? La luce è tutto, così come il colore. Ci consente di vedere le cose da un’altra prospettiva; cambia il nostro volto, il colore dei nostri occhi e le forme delle città. Questi due elementi sono di straordinaria importanza nelle nostre vite, anche se spesso non ce ne rendiamo davvero conto. Ogni cosa, ogni persona, ogni creatura esistente su questo pianeta muta a seconda del colore e della luce che la colpisce, che la illumina. Monet ha voluto registrare proprio questo: lo straordinario valore della luce e del colore, elementi che hanno il potere di cambiare ogni cosa e che riescono ad arrivare direttamente al nostro cuore.
22/05/2024
Carrie non è il primo romanzo di Stephen King. O meglio, è il primo che sia stato pubblicato, ma non il primo che ha scritto. King infatti si è dedicato alla scrittura sin da adolescente, scrivendo sui giornali del liceo e dell’università. Quando nel 1974 Carrie viene pubblicato per la prima volta, King aveva già scritto molti racconti (qualcuno di questi uscito per pochi dollari in delle riviste, e poi sono stati raccolti per la maggior parte in Night Shift) e diversi romanzi (alcuni di questi rifiutati dalle case editrici) fra cui The Long Walk. Quando King si ritrova a dover scrivere Carrie quindi, non è un giovane scrittore alle prime armi che vuole intraprendere la sua prima opera, ma è già un uomo che ha dovuto superare precedentemente tutti gli ostacoli si presentano davanti a uno scrittore alla prima stesura di un libro. Alla luce di ciò, non stupiscono l’organizzazione, lo schema e la fluidità della narrazione.
Attraverso la storia di Carrie, una ragazzina bullizzata da tutti sin da quando era piccola e che vive con una madre fanatica religiosa, King riesce a dipingere e a restituire la realtà della vita nelle cittadine americane. Il romanzo è ambientato a Chamberlain, una piccola città nel Maine, in cui tutti i cittadini vivono tranquilli le loro vite e sembrano apparentemente felici. Ciò che King riesce a far risaltare con grande abilità è la caratterizzazione dei personaggi, senza mai tuttavia cadere nella generalizzazione più estrema. È proprio attraverso i personaggi che King analizza e critica tutte le componenti della vita in America.
Innanzitutto, la maggior parte dei ragazzi che frequentano il liceo di Chamberlain sono figli di borghesi benestanti, non hanno nessun problema sociale e/o familiare e trascorrono sereni la loro adolescenza. Fra questi c’è il classico gruppetto di ragazze viziate (la cui cattiveria viene mostrata in apertura di romanzo), il belloccio della scuola, il ragazzo violento pluribocciato tutto macchine e gelatina ma senza cervello. Sebbene questi possono sembrare (e lo sono) i classici stereotipi ormai noiosi, ognuno di questi personaggi vive invece un travaglio personale interiore dopo l’atto di bullismo con cui inizia il romanzo. È interessante notare come venga dato molto spazio anche agli adulti: nel libro ci sono infatti ampi dialoghi che mostrano come consciamente o inconsciamente anche loro subiscano i comportamenti dei propri figli e le ripercussioni del “caso White”.
King riesce a mostrare questo grande affresco senza mai entrare con voce giudicante all’interno del racconto, grazie al continuo cambio di narratore. Il romanzo infatti è strutturato in modo tale che ogni porzione del racconto sia estratta da fonti scritte composte in precedenza sul caso White (è un espediente narrativo dell’autore, che attraverso questa composizione riesce a mostrare i punti di vista della comunità scientifica, dei magistrati, e dei sopravvissuti al massacro che hanno scritto libri o sono stati intervistati al riguardo). Se il lettore riesce a filtrare tutte queste informazioni riconducendole ad un unico e solo grande tessitore (Stephen King), vede il punto di vista dello scrittore. King si pone come un regista con il solo intento di mostrare, e non attacca nessun personaggio moralmente. Si percepisce però l’intento da parte di King di voler mostrare l’ipocrisia di queste cittadine e dei loro abitanti, e le pressioni che la sua generazione ha subito in quell’America devastata dall’esperienza in Vietnam e di una politica noncurante dei propri cittadini. Emblematico di questo aspetto è il personaggio di Thomas Quillan. Figura che compare solo verso la fine del romanzo, e che non ha un ruolo nemmeno secondario ma terziario (se non ancora inferiore); è un onesto lavoratore che il giovedì (giorno di paga) va a sbronzarsi al pub locale. Tuttavia, ha la “sbronza cattiva” e sa che quando l’alcol sale deve andare direttamente al commissariato così da passare la notte in cella a dormire e non commettere guai. Quando Thomas racconta del suono della sirena partito a causa dell’incendio provocato da Carrie, dice: “non avevo mai sentito suonare la sirena di notte da quando è finita la guerra del Vietnam.” Ora, noi non sappiamo se Thomas Quillan abbia partecipato o meno alla guerra del Vietnam (è probabile considerando che non è sicuramente un ragazzino; ed è anche probabile che sia proprio per quei traumi che ha bisogno di ubriacarsi settimanalmente) sta di fatto che questa esperienza è stata per lui, e per la generazione di King, traumatica. Questo semplice esempio ci ricorda che il talento di un grande autore sta nei dettagli, la grande critica nelle cose non dette, e la letteratura nell’ambiguità.
Fino ad adesso non ho mai parlato della protagonista, Carrie White, se non tratteggiandola appena, e accennando solamente qualche cosa anche riguardo al massacro che compirà. Questa cosa avviene anche nel romanzo. Carrie non viene presentata subito, ma si scoprono tratti di lei man mano che si va avanti con la lettura. Carrie è una protagonista molto atipica, sappiamo il suo punto di vista ma raramente è lei a raccontarcelo. La sensazione che il lettore ha di Carrie non proviene soltanto dalle azioni e dai pensieri di Carrie, ma anche e soprattutto dalle impressioni che ne hanno i vari narratori. Nonostante questo, è ben chiaro chi sia Carrie: una ragazzina che ha solo bisogno di qualcuno che le voglia bene, ma che non l’ha mai avuto. Durante il massacro finale diversi personaggi che entrano nell’area dove Carrie sta sfogando il suo potere sovrannaturale percepiscono che lei sia Carrie White, anche se non l’hanno mai conosciuta, intuiscono che quella carneficina sia opera sua, anche ne avrebbero potuto avere idea. Carrie, persino nel momento in cui ha perso la ragione e si è lasciata dominare dal potere, fa quello che ha sempre fatto sin da piccola: ha chiesto aiuto. Aiuto da parte di chiunque passasse, di chiunque fosse disposto a immetterla correttamente nella società (e Carrie fa sempre di tutto per essere ammessa). Per questo motivo va in chiesa a nonostante le ferite, perché questo è quello che sua madre le ha insegnato: quando si deve chiedere aiuto lo si chiede a Dio.
King in Carrie si dimostra uno scrittore conscio di ciò che vuole comunicare e che sa comunicarlo. La dimostrazione di ciò si dà dal fatto che il lettore, immerso nel racconto, riesca ad empatizzare e rivedere un pezzo di sé in quasi tutti i personaggi. King sa che noi essere umani (e noi borghesi) siamo pieni di contraddizioni. Ed ecco allora che diventiamo Carrie White: persone comuni che non sono mai state ascoltate ma che in realtà dentro celano un intero mondo (fatto anche di bellezza, come è la stessa Carrie alla notte del ballo studentesco quando decide di trasgredire le regole della madre e di vestirsi da sera e di truccarsi); ma siamo anche Sue Snell: membri del branco che per mantenersi deve trovare il capro espiatorio, ma che ad un certo punto rifiutano questo modello e capiscono la giusta strada; siamo Tommy Ross: stronzi ma buoni; e infine siamo anche Christine Hargensen: non ci importa se sappiamo di essere nel torto, quando ci levano da sotto il naso ciò che abbiamo sempre avuto, vogliamo vendetta. Ed è nel finale di Carrie che King dimostra di conoscere la più grande delle lezioni che la filosofia di Schopenhauer ci ha insegnato: l’uomo non impara, e la storia si ripete.
22/05/2024
E’ il 1940, in piena seconda guerra mondiale, e nelle sale esce il primo film sonoro di un’icona mondiale, tale Sir Charles Spencer Chaplin, per gli amici solo Charlie. “The Great Dictator” (Il Grande Dittatore). Questo film non solo rappresentò un atto di coraggio artistico, ma anche un potente appello per la libertà e la dignità umana.
"Il Grande Dittatore" è una commedia satirica che narra la storia di due personaggi: il dittatore del fittizio paese di Tomania, Adenoid Hynkel, e un semplice ebreo barbiere. Hynkel, un chiaro riferimento a Hitler, è un despota folle ossessionato dalla conquista del mondo. Nel frattempo, il barbiere ebreo, che ha servito come soldato durante la Prima Guerra Mondiale, si ritrova coinvolto in una serie di eventi che lo portano a incrociare il cammino del dittatore. Nonostante la somiglianza fisica con Hynkel, il barbiere è l'antitesi morale del dittatore, rappresentando i valori dell'umanità, della gentilezza e della compassione.
In questa pellicola, Chaplin utilizza l'umorismo per smascherare l'assurdità e la brutalità dei regimi dittatoriali, mettendo in ridicolo i loro leader e le loro ideologie. La scena in cui Hynkel danza con un mappamondo è diventata un'icona della satira politica, rappresentando la megalomania e la follia dei dittatori.
La produzione di “Il Grande Dittatore” non fu priva di difficoltà. Chaplin finanziò il film con i propri fondi, di fronte al timore che il contenuto potesse essere troppo controverso. Inoltre, la pellicola fu realizzata in un momento in cui gli Stati Uniti non erano ancora entrati in guerra e mantennero una posizione di neutralità, il che rendeva il film ancora più audace e rischioso.
Nonostante le sfide, “Il Grande Dittatore” divenne un successo sia di critica che di pubblico, consolidando la fama di Chaplin come uno dei più grandi artisti del suo tempo. Il film ricevette cinque nomination agli Oscar, inclusi miglior film e miglior attore per Chaplin stesso.
Ciò che rende "Il Grande Dittatore" così potente e rilevante è il suo fervido appello alla libertà e alla dignità umana.
Nella toccante sequenza finale del film, il barbiere ebreo prende la parola in un discorso appassionato che risuona ancora oggi:
«Soldati! Non cedete a dei bruti, uomini che vi comandano e che vi disprezzano, che vi limitano, uomini che vi dicono cosa dire, cosa fare, cosa pensare e come vivere! Che vi irregimentano, vi condizionano, vi trattano come bestie! Voi vi consegnate a questa gente senza un'anima! Uomini macchine con macchine al posto del cervello e del cuore.
Ma voi non siete macchine! Voi non siete bestie! Siete uomini! Voi portate l'amore dell'umanità nel cuore. Voi non odiate. Coloro che odiano sono solo quelli che non hanno l'amore altrui. Soldati, non difendete la schiavitù, ma la libertà! Ricordate che nel Vangelo di Luca è scritto: «Il Regno di Dio è nel cuore dell'Uomo».
Non di un solo uomo, ma nel cuore di tutti gli uomini. Voi, il popolo, avete la forza di creare le macchine, il progresso e la felicità. Voi, il popolo, avete la forza di fare si che la vita sia bella e libera.
Voi che potete fare di questa vita una splendida avventura. Soldati, in nome della democrazia, uniamo queste forze. Uniamoci tutti! Combattiamo tutti per un mondo nuovo, che dia a tutti un lavoro, ai giovani la speranza, ai vecchi la serenità ed alle donne la sicurezza. Promettendovi queste cose degli uomini sono andati al potere. Mentivano! Non hanno mantenuto quelle promesse e mai lo faranno. E non ne daranno conto a nessuno. Forse i dittatori sono liberi perché rendono schiavo il popolo.
Combattiamo per mantenere quelle promesse. Per abbattere i confini e le barriere. Combattiamo per eliminare l'avidità e l'odio. Un mondo ragionevole in cui la scienza ed il progresso diano a tutti gli uomini il benessere. Soldati! Nel nome della democrazia siate tutti uniti!»
Anche se sono trascorsi più di ottant'anni dalla sua uscita, "Il Grande Dittatore" continua a essere una pietra miliare del cinema e un monito contro i pericoli del totalitarismo e dell'intolleranza. Il film ci ricorda che la lotta per la libertà e la giustizia è un impegno eterno, che richiede il coraggio di alzarsi e difendere ciò in cui crediamo. In un'epoca segnata dal razzismo, dalla xenofobia e dalla crescente polarizzazione politica, le parole di Chaplin risuonano con una forza e una chiarezza straordinarie.
22/05/2024
Nell’essere madri c’è solitudine, sofferenza, insicurezza. Dall’altra parte, le figlie rispondono con astio, ribellione e prepotenza alla mancanza di un rapporto che dovrebbe essere biologico e inesorabile. Come possiamo guarire la cicatrice lasciata da queste mancate connessioni?
Greta Gerwig ha abbracciato una delle tematiche più palpabili e vibranti agli occhi di una generazione di figlie incomprese quando nel 2017 ha fatto il suo debutto con Lady Bird. Acclamato e discusso dalla critica, il film è in realtà di una semplicità e banalità incredibile, ma in qualche modo ha colto perfettamente il rapporto teso e conflittuale tra Christine “Lady Bird” McPherson, in piena fase adolescenziale, e la rigorosa madre Marion. Tra le due c’è incontenibile attrito che si declina quotidianamente negli scontri tra le due. Ladybird, interpretata dalla talentuosa Saoirse Ronan, è un’adolescente a tratti detestabile ed egoista; si trova in uno stato di totale idealizzazione del futuro e della vita in generale, desidera profondamente una via di fuga da Sacramento. Si ritrova però a soccombere di fronte alla madre aspramente critica e delusa, che non manca mai di riflettere le sue ansie e frustrazioni nella figlia. Mentre Ladybird cerca di ricostruire un’identità tutta sua e del tutto svincolata dalla madre (partendo dal ribattezzarsi con un nuovo nome, colorandosi i capelli…), quest’ultima è del tutto incapace di esprimere affetto nei suoi confronti. Il forte carattere delle due porta a continui scontri passivo-aggressivi.
La Gerwig inquadra un rapporto che è al perfetto limite tra personale e universale; è una storia che ha funzionato bene per la sua autenticità, e perché tante adolescenti sopraffatte si sono facilmente immedesimate in quest’opera, dove madre e figlia sono incapaci di convivere l’una con l’altra. Alla fine, il nodo tra le due inizia a sciogliersi, e non appena le due donne affrontano la loro vulnerabilità, l’amore profondo sotteso tra le due riesce ad emergere.
Se quello di Greta Gerwig è un film in cui i rapporti interpersonali vacillano sui complessi psicologici dei personaggi, l’antecedente pellicola “È arrivata mia figlia!” della brasiliana Anna Muylaert verte invece intorno alle barriere conflittuali tra classi che hanno sconvolto gli equilibri del rapporto tra la madre Val e la figlia Jessica. Val lavora come badante presso una ricca famiglia i cui componenti sono detestabili e arroganti, e cresce il loro figlio con genuino amore materno. Paradossalmente, la figlia Jessica è rimasta invece a vivere in provincia con dei famigliari, e solo a 18 anni si recherà dalla madre; la vicenda segue le due nei giorni di visita della figlia, che si catapulta come un razzo, ingenuamente, in questa magione dove i confini tra status sociali sono chiaramente delineati. Così, la madre Val si ritrova in bilico tra l’ingenua e spensierata figlia, che ribadisce di non sentirsi inferiore rispetto ai padroni, e la consapevolezza di essere solo una badante in una reggia che non le appartiene.
È una pellicola, a mio parere, di un’artisticità incredibile, armoniosa ed equilibrata che rappresenta in modo crudo la polarizzazione del Brasile filtrata attraverso gli occhi di una madre estenuata che fa fatica a non criticare la figlia per i suoi eccessi.
Spesso, i nuclei familiari si ritrovano scissi tra adolescenti esuberanti, ma al tempo spesso incomprese e velleitarie, come Ladybird o Jessica, e madri tanto sofferenti quanto desiderose di comprendere in qualche modo le figlie.
Il dramma di essere una madre e il dramma di essere una figlia sono costantemente sovrapposti e in contraddizione; è un rapporto di due solitudini che si abbracciano e si allontanano continuamente, oscillando tra amore e odio, dolcezza e avversità. Greta Gerwig e Anna Muylaert lo sanno bene, e hanno dato entrambe una chiave di lettura di queste dinamiche personale e apprezzabile, lasciando un'impronta indelebile nella storia della cinematografia.
22/05/2024
Diego - ciclabile senza musica
sei silenziosa di pomeriggio
nel timpano non ho più
un filo di scossa
non più la musica
mi incanta nel passeggio
si rivela il mondo nel silenzio
e cammino sul tuo corpo fatto a pezzi
dove sorgono fili d’erba e fiori grigi
piante tenaci
vincono sulla tua tetra corazza
il metallo dei cancelli e dei mezzi
abbandonati, è vivo come mille insetti
sulla pelle, morsi di mille braci
mille odori nuovi si alzano perfetti
e suona il fiume, ti lambisce il fianco,
ora che la musica non mi risponde
senza parole, mi sento stanco
eppure mai così bene
la strada si mostra d’un tratto
nel rovo intricato che serra le catene
Nicole
piove di su noi
su quello che c’è stato di segreto
piove e sciupa i boccioli
la grandine frusta i frutti
piove sulle mie speranze cangianti
piove sul mio affetto
pioverà forse per sempre
su questo silenzio corrotto
piove forte, ora piove piano
presto bisognerà trovare riparo
lacrimano su di noi gli alberi, le fronde
mi schiaffeggiano i rami e le spine
tutti mossi dal vento, turbati
perché piove sul non detto, sull’affetto
piove sulla volontà di omissione
pioverà ancora e ancora sul tuo inganno
Martina
morirò senza rendermene conto,
immersa nel cielo cobalto.
questa morte sarà musica:
inno alla libertà.
l’ossigeno non avrà più importanza,
perché di morte io sarò viva,
ballando sulle teste umane,
anima schiusa dal peso di nascere.
22/05/2024
Recentemente si è svolto a Milano il Salone Internazionale del Mobile, uno degli eventi riguardanti il campo del design e dell’arredamento più influenti al livello mondiale, divenuto ormai imperdibile per tutti gli appassionati e i professionisti del settore.
Artisti, creativi, designer, progettisti ed ormai anche influencer giungono da tutto il mondo per assistere agli innumerevoli eventi all’interno della fiera e nel fuorisalone, rendendo Milano, una volta in più il centro del mondo.
La fiera del Mobile nasce nel 1961 grazie a tredici mobilieri italiani, riunitisi sotto la sigla Cosmit “Comitato organizzatore del Salone del mobile Italiano”, che decisero di realizzare un salone legato all’arredamento e al design. Questa prima edizione, alla quale parteciparono 328 aziende italiane, ebbe inizio il 24 settembre e si svolse nei padiglioni 28 e 34 della vecchia Fiera Campionaria con lo scopo di promuovere le esportazioni di mobili italiani. Da subito la fiera riscontrò un grande successo, al punto che già nella seconda metà degli anni 60, grazie al boom economico e a un Italia che si avvicinava sempre di più al mondo del design, riesce a diventare un evento di portata internazionale. Dal 1967 oltre al Salone vero e proprio, viene organizzata una mostra sul design del mobile Italiano dal 1945 in poi e questo sarà l’inizio di un progetto culturale che accompagnerà il salone negli anni futuri, rendendolo sempre più un fenomeno culturale oltre che una semplice fiera espositiva.
Nel decennio successivo, anche grazie alla grande diffusione di elettrodomestici e arredi tecnicamente più avanzati, prendono vita le prime due sezioni dedicate a settori più specifici: EuroCucina nel 74 ed EuroLuce nel 76.
Negli anni 80, simbolo di un capitalismo sempre più presente e con l’avvento dei primi computer, il Salone si dota anche di uno sguardo specifico verso il mondo dell’arredo da ufficio: nasce Eimu. Nel 1987, il percorso di crescita culturale, oltre a quello economico, vede riconosciuti gli sforzi ed il Cosmit viene premiato con il prestigioso Compasso d’Oro.
Il successo del Salone sembra non avere fine e la manifestazione che fino ad allora aveva cadenza biennale, nel 1991 passa ad essere un appuntamento annuale. Parallelamente si celebrano i grandi designer italiani: Castiglioni, Ponti, Colombo, Sottsass, Magistretti. Il fenomeno Salone del Mobile continua a crescere nei numeri dei visitatori, dei partecipanti e degli spazi ad esso dedicati, nasce, in questi anni il Salone Satellite, ideato per permettere ai nuovi designer di esporre i propri progetti. Nel 2005, forte di numeri in continua crescita, il Salone cambia finalmente casa e si sposta dagli spazi della fiera campionaria al nuovo polo Fiera Milano Rho, su progetto dell’architetto romano Fuksas. I nuovi riuscitissimi spazi, consentono in questi anni di aprire il salone anche a visitatori e curiosi, oltre che agli addetti di settore ed ai giornalisti. Il Salone del Mobile Milano, o come ormai è conosciuto in tutto il mondo, Milano Design Week, è ormai un evento di portata globale e la sua formula di successo viene addirittura esportata a New York e Mosca nel 2005 e nel 2016 a Shanghai.
Nonostante la pandemia ne abbia rallentato la crescita esponenziale, quest’anno con la 62esima edizione si è arrivati alla cifra record di 316.000 visitatori, ben il 17% in più della passata edizione.
Con ormai oltre 1000 espositori di cui oltre 300 esteri, il Salone rappresenta forse il simbolo più importante del Made in Italy.
C’è da domandarsi come potranno progettisti designer e produttori continuare a reggere il ritmo di una produzione stagionale (sempre più in linea con i ritmi del frenetico mondo della moda) senza correre il rischio di entrare in conflitto con un mondo che da più parti chiede sostenibilità e attenzione alle risorse.
22/05/2024
“Vorrei essere libero, come un uomo
Come un uomo appena nato
Che ha di fronte solamente la natura
Che cammina dentro un bosco
Con la gioia di inseguire un'avventura
Sempre libero e vitale
Fa l'amore come fosse un animale
Incosciente come un uomo
Compiaciuto della propria libertà”
“La libertà” del signor G., Giorgio Gaber per i meno avvezzi, nasce nel ‘72 dalla penna di G. e Sandro Luporini come cavallo di battaglia dello spettacolo di Teatro canzone “Dialogo tra un impiegato e un non so” e che verrà in seguito inserito nell’album “Far finta di essere sani”.
È un testo che ha fatto la storia della canzone italiana, partorito da una mente brillante che nella sua ironia, nell’actio e nell’interpretazione della realtà rimane una pietra miliare del secolo scorso. Gaber è pieno di riferimenti alla cultura europea, ispirato dalle grandi voci e dalle minori, caratterizzato da quel suo frenetismo sul palco, quel sudare e interpretare che catturava e trasportava. Ma “La libertà” è forse un testo unico tra mille gemme variopinte e cangianti, il diamante di un album che dirompente cercava di raccontare il disagio di un uomo in costante adattamento. Già il titolo “Far finta di essere sani” punta il primo dito contro una “normalità” e una “follia” fittizie, invenzioni fantasiose della società di ieri e di oggi. E così come la normalità risulta essere un sottile equilibrio tra benessere e malessere, così la libertà si rivela essere una chimera.
Gaber ci parla dapprima di una libertà fraintesa, che dovrebbe essere assoluta, quasi primitiva, e unicamente individuale:
“Come un uomo appena nato
Che ha di fronte solamente la natura
Che cammina dentro un bosco
Con la gioia di inseguire un'avventura
Sempre libero e vitale
Fa l'amore come fosse un animale”
La libertà quindi di un uomo selvaggio, che vive come un animale. Provocatorio, ci presenta la definizione più immediata di libertà, un’idea onnipresente nelle nostre menti. Emerge poi la libertà legata a doppio filo con la politica, la libertà che l’uomo trova solo nella sua democrazia:
“Che ha il diritto di votare
E che passa la sua vita a delegare
E nel farsi comandare
Ha trovato la sua nuova libertà”
Muta la sua forma proprio come una visione, un animale mitologico. È concreta? È coerente? Possibile che si trovi la propria libertà nella sottomissione, addirittura nella deresponsabilizzazione? La libertà di lasciare indietro la mente e le sue catene, l’abbandonare l’obbligo di essere animali pensanti, evoluti, coscienti, è questo che l’uomo insegue nel concetto di autonomia e autogoverno? L’essere governati diventa un lusso, una vacanza per una mente che non sopporta il peso della sua intelligenza. Gaber è capace di guardarsi intorno, la realtà che dipinge è ancora attualissima.
Nel ritornello della canzone emerge il messaggio dell’autore, l’idea di una libertà individuale che è frutto della collaborazione collettiva, del rispetto reciproco.
“La libertà non è star sopra un albero
Non è neanche avere un'opinione
La libertà non è uno spazio libero
Libertà è partecipazione”
Per Giorgio Gaber dunque la libertà è il far parte di qualcosa, derivante proprio da una necessità umana. Non è il vivere in solitudine, ma si manifesta piuttosto nella caratteristica più fondamentale dell’uomo, ovvero il suo essere un animale sociale. Non è quindi un’invenzione tale mito di sovranità ma una cosa reale, concreta. La libertà di Gaber si tocca, ma soprattutto, si costruisce insieme.
E infine il suo invito, a tutti gli uomini, a riporre cieca fiducia nella propria ragione, a servirsene e a compiacersene.
“Come l'uomo più evoluto
Che si innalza con la propria intelligenza
E che sfida la natura
Con la forza incontrastata della scienza”
La libertà dunque non è stare sopra un albero, non è farsi comandare, non è neanche ritrovare la nostra natura di animali, ma neanche un’invenzione fantasiosa delle nostre menti. La libertà è fatta, creata e mantenuta dagli uomini nella loro volontà di rispetto reciproco e dialogo. È una nostra necessità, un bisogno che va oltre il costrutto sociale del rapporto interpersonale, è un istinto che si tramuta in azione, e che nel nostro tempo e nella nostra costruzione sociale viene rimodellato a seconda delle necessità.
06/03/2024
Gli scoppi della rivolta, le urla dei manifestanti, le luci, i botti, gli echi della piazza risuonano lontani nella testa innocente dei liceali e degli universitari:
gli stessi che prima del famigerato Coronavirus scioperavano per il clima, simpatizzavano per le proteste operaie, rovesciavano intere scuole e presidi per un trattamento migliore.
Perché la maggior parte dei giovani, pur simpatizzando per le cause dei manifestanti, oggi ha abbandonato ogni forma di protesta e partecipazione attiva?
Per rispondere, bisogna dare per assodato che il nostro spazio generazionale riconosca i valori per cui un tempo si combatteva, i diritti civili e sociali che dovrebbero essere riconosciuti da tutti, da destra e da sinistra. E sembra che sia così davvero: ogni studente, che sia progressista o conservatore, vive ormai in un mondo globalizzato, dove ogni cultura è meritevole di rispetto e dove eventi come il matrimonio tra omosessuali non dovrebbero più destare alcuno scandalo. Per molti appartenenti alle generazioni più “antiche”, supportare i diritti dell'uomo è “da comunisti” o comunque, troppo a sinistra; per un giovane al contrario, a meno che non ci sia stata una pesante influenza familiare, supportare i diritti dell'uomo è perfettamente normale e funzionale alla società di oggi: più che di sopportare si tratta infatti di accettare tacitamente, di rendere parte della normalità le differenze che un tempo destavano tanto sospetto.
Ma perché allora quando questi diritti ormai assodati vengono messi a rischio sono sempre meno i giovani che alzano la testa e “lottano”?
La risposta si trova proprio nel termine “lotta”: per Marx era lotta di classe, e tutti i gruppi studenteschi del XX secolo ne hanno fatto l'emblema della loro protesta, una vera “lotta” contro un nemico tirannico, il mostro del capitalismo e poi del globalismo, poi i leader politici stranieri che spingevano verso la guerra e poi ancora contro la crisi. L'economia era onnipresente, e le politiche sociali del tempo miravano a formare una gioventù che si percepisse “attiva” e pronta alla lotta. Per la generazione X, a cui appartengono i genitori dei giovani di oggi, “lotta” era un termine di grande significato, perché significava alzare la testa, mostrare la propria presenza e riscattarsi contro un oppressore, e soprattutto era un enorme componente identitario per una generazione che aveva vissuto all'ombra dei loro genitori, i più fortunati e numerosi “boomers”, che hanno sempre fatto sentire “impotenti” i giovani della generazione X , privi di identità comune come la dovrebbe avere ogni generazione dai tempi del Romanticismo e permeati da un senso di vuoto come mostra anche Andrea Pazienza nel suo fumetto “Zanardi”. E così gli anni 80 sono ricchi di sottoculture che incitano al disinteresse politico, come gli yuppies, i paninari e i metallari: tutti giovani che crescendo sentiranno il bisogno di riprendersi il protagonismo perduto; protagonismo che spettava invece alla generazione Z di oggi. Le guerre del nostro tempo, prima in Ucraina e poi in Palestina, come anche la grande crisi del terzo millennio, sono l'ennesimo evento provocato dalla generazione dei nostri genitori, e anche i mezzi per mostrare il nostro dissenso appartengono alla cultura della generazione X.
I volantini, i vestiti retrò dello studente barbuto che ci invita alla lotta, il colore rosso onnipresente, i graffiti sui muri e le canne, gli slogan e le urla, le bandiere in alto e una comunicazione tutta basata sul rumore: questi sono i mezzi che ancora oggi vengono usati nelle proteste, che sono gli stessi delle proteste degli anni 80-90, e che non sono più invitanti per la nostra generazione.
Che la generazione Z abbia un grande messaggio da dare è ormai appurato: abbiamo dato per assodati i diritti umani, abbiamo dominato l'internet, abbiamo scosso il mondo con gli scioperi per l'ambiente, i famosi e lontani “Fridays for Future”; tuttavia, siamo anche una generazione pacifica e amante della tranquillità, della musica rilassante, dei film sotto la coperta, delle frasi poetiche di qualche cantautore, della placida routine scolastica e della compagnia, un lato che è emerso ancora di più dopo il 2020, con la pandemia.
Tutti questi valori, mai sentiti prima di adesso, sono in netto contrasto con quelli dei nostri genitori, e ci sembrano lontani anni luce dalla partecipazione attiva, che però è necessaria per mantenere quei diritti che siamo abituati a dare per scontati. È molto importante che i Millenials e la generazione Z insieme abbiano il coraggio di ripartire, di studiare una nuova forma di comunicazione per rendere “attivi” i giovani, senza fossilizzarsi su una cultura obsoleta che apparteneva ai nostri genitori e che non fa altro che allontanare i ragazzi di oggi dalla politica.
06/03/2024
Siamo in grado di riconoscere il male anche quando non lo vediamo? La zona d’interesse ci pone questo grande quesito
Il 29 gennaio 2024, al cinema Astra di Parma veniva proiettata in anteprima nazionale La zona d’interesse, il nuovo film di Jonathan Glazer, il quale è stato in grado di regalarci un’esperienza a dir poco terrificante oltre ad un forte mal di stomaco.
La trama della pellicola è di poche pretese.
La storia assume la sua forma in una ridente casa di campagna, posta appena oltre il muro di un campo di sterminio, in cui ci viene mostrata la vita quotidiana di una famiglia tedesca borghese.
si tratta della famiglia Höß, il cui pater familias è il comandante delle SS Rudolf Franz Ferdinand (interpretato da Christian Friedel), passato alla storia per essere stato il primo comandante del campo di concentramento di Auschwitz.
Al suo fianco la moglie Hedwig (interpretata da Sandra Hüller) insieme ai loro figli. Insomma, poche pretese per essere un film sulla Shoah, il che va apprezzato.
Meglio limitarsi a mostrare le crudeltà di quel periodo storico, senza troppi giri di parole. Soprattutto perché, di parole, ne sono state dette in ogni forma.
Che sarebbe stato un film non convenzionale lo avevamo capito e ne abbiamo la conferma nei cinque minuti iniziali, in cui ci ritroviamo a fissare uno schermo nero, contornati da un sonoro al limite del sopportabile e a tratti disturbante, in grado di trasportarci indietro nel tempo.
Glazer, con il sonoro, ha fatto un lavoro magistrale, ed è proprio questo che rende unica la pellicola.
È un film che ci permette di essere accecati dalle immagini o assordati dai suoni, percependo il medesimo ed esecrabile senso d’impotenza.
Disgusto, rabbia e angoscia. I dettagli fanno da padrone, il costante rumore fuori campo degli inceneritori in funzione, gli spari di pistola o, peggio ancora, le urla umane.
Non deve essere stato facile per Glazer aggiungere questi dettagli alla pellicola, ma dopotutto è il rischio che bisogna prendere se si vuole mostrare la verità.
Molti di voi penseranno che il protagonista del film sia Rudolf, in quanto comandante del campo, altri di voi penseranno invece che sia Hedwig, con la sua freddezza; mi dispiace deludervi, ma la vera protagonista è l’indifferenza.
L’indifferenza degli Höß, i quali non si fanno problemi a vivere accanto alla più grande macchina di sterminio mai creata, o a sfruttare delle persone per soddisfare le loro anime viziate, ma soprattutto, non si sentono minimamente in colpa a crescere dei bambini inculcandogli l’idea di come esista una sola razza superiore a tutte. Tutto questo ci pone davanti al grande quesito che Glazer ha voluto proporre: come facciamo a riconoscere il male quando non lo vediamo? Al contrario della domanda, la risposta è molto semplice. Non possiamo. Il male è in ogni dove.
Può essere in ognuno di noi, può essere in qualsiasi parte del mondo o in qualsiasi momento storico, ma ciò che è certo è che non possiamo sapere come si manifesterà.
Ormai, di film sull’olocausto, ne abbiamo visti, alcuni fatti bene e altri meno, ma come questo, penso che sia difficile ricercarlo.
L’unico che è in grado di farci sentire in pericolo dentro una sala cinematografica, facendoci riflettere su chi siede accanto a noi e, allo stesso modo, anche di noi stessi.
Glazer ha deciso un giorno di entrare nella storia con La zona d’interesse, entrandoci a gamba tesa e per questo verrà ricordato. Come verrà per sempre ricordata l’oscurità di quella guerra. Un’atrocità ingiusta, scatenata da un pazzo megalomane con complessi di inferiorità, che ha contribuito a rendere il Novecento uno dei secoli più bui della storia dell’umanità. La zona d’interesse di Glazer deve essere soprattutto il nostro interesse, ora e per sempre, per non dimenticare mai.
06/03/2024
Quella delle streghe è una storia lunghissima e travagliata: da Circe nell’Odissea alle fiabe per bambini, passando per pagine buie della storia come la famosa “caccia alle streghe” che per 300 anni dilagò in tutta Europa; tuttavia durante la seconda guerra mondiale ci fu un gruppo di streghe davvero particolari. Invece di volare su scope incantate, queste streghe volavano su piccoli e agili biplani, invece di scagliare maledizioni e sortilegi colpivano con ordigni esplosivi e invece di indossare strambi cappelli e lunghi vestiti neri, indossavano uniformi dell’Armata Rossa.
Streghe della notte, Nachthexen in tedesco, fu il nome attribuito dai soldati della Germania nazista alle aviatrici del 588º reggimento bombardamento notturno sovietico.
Nel 1941, con i tedeschi alle porte di Mosca, l’eroina sovietica Marina Raskova ebbe un colloquio privato con Stalin in cui, grazie al proprio carisma e popolarità tra le giovani sovietiche, riuscì a ottenere la promulgazione dell’ordine 0099, che decretava l’immediata creazione di 3 reggimenti di aviazione a composizione esclusivamente femminile.
Ad aderire alla chiamata per “giovani donne desiderose di combattere per la patria” furono in molte e, dopo tre mesi di addestramento nell’accademia militare di Engels, furono inviate al fronte. Inizialmente le streghe vissero momenti di difficoltà: nei primi mesi del ‘42 l’Armata Rossa era in ritirata rotta e, in aggiunta, le giovani donne erano vittime di soprusi e scherno da parte dei compagni maschi.
Nonostante le difficoltà, il 588º divenne progressivamente più efficiente fino ad essere, alla fine della guerra, tra le unità con più voli effettuati (23.000 in 3 anni).
La straordinarietà delle “streghe” fu quindi ampiamente conosciuta, e a metà 1943 il loro reggimento fu ribattezzato a titolo onorifico 46º Reggimento bombardamento leggero notturno delle guardie “Taman”, con conseguente attribuzione di un’insegna militare e un breve inno; inoltre ben 23 di loro ricevettero la stella d’oro di Eroe dell’Unione Sovietica.
L’ultima strega, Irina Vjačeslavovna Rakobol'skaja, è purtroppo morta nel 2016, poco dopo di aver raccontato la sua storia a Ritanna Armeni, che la narra nel libro “Una donna può tutto. 1941: volano le Streghe della notte.”
06/03/2024
In un universo musicale come quello italiano, negli ultimi anni sempre più tendente all’omologazione e all’appiattimento, sempre più lontano dalle sonorità cantautoriali sostituite dalla ricerca e l’utilizzo di musicalità pop e casse dritte, Marco Castello cantautore siciliano si rivela come una vera e propria scoperta. Nato a Siracusa, musa ispiratrice, più che semplice città natale, lascia la Sicilia per laurearsi a Milano in tromba jazz, ma è proprio nella sua regione che conosce Erlend Øye, fondatore dei Kings of Convenience, con il quale nascerà una collaborazione che lo porterà a seguirlo nel suo tour mondiale e ad entrare nella sua casa discografica con la quale produrrà il suo primo album Contenta tu, per poi proseguire la sua esperienza dando vita alla propria etichetta indipendente “Megghiu Suli” con la quale darà vita al suo secondo album Pezzi Della Sera.
Contenta tu
L’album d’esordio è un manifesto della musica di Marco Castello, un’ode alla quotidianità, alla sua infanzia e vita siciliana, una penna schietta, irriverente sin dai primi pezzi Porsi e Cicciona, dove le sonorità ricordano un po’ Brunori, un po’ Battisti e Carella.
Luca canzone dedicata al fratello e alla sua testardaggine “non mi viene di fidarmi di chi vuol farsi pagare per fare al mio posto quel che lui fa di mestiere” e poi Torpi dove la formazione jazz e l’aggiunta di ritmi funk alla Nu Genea creano un mix irresistibile tutto da ballare.
Palla “bloccata con la catena a una caviglia mentre tu provi a saltare” ipnotizzante ed avvolgente. Marchesa e l’utilizzo sapiente del basso di Lorenzo Pisoni che con Villaggio e Contenta tu segna un trittico di storie d’amore estive e leggere.
Il canto popolare in siciliano di Addiu e Avò a sottolineare ancora il suo viscerale legame con Siracusa e la Sicilia.
Questo album ci lascia un autore ironico, sottile e sapiente, utilizzatore (burattinaio?) delle parole e del loro senso, ma soprattutto un musicista che si fa influenzare, ma che mai cade nell’imitazione, capace di creare uno stile tutto suo, riconoscibile ed originale.
06/03/2024
Capelli neri, Cassandra, lunghi, Cassandra, pelle d’avorio, Cassandra, luccica di riflesso, Cassandra, forma spigolosa, Cassandra, pungente, Cassandra, parole di ghiaccio, Cassandra, occhi artici, Cassandra, espressione marmorea, Cassandra, labbra dure, Cassandra, voce nera, Cassandra, maledetta Cassandra.
Mi fisso le dita troppo affusolate, aghi per filare, sbagliate rispetto alle mani di soffice delicatezza delle altre donne. il piatto d’argento mi mortifica rinviandomi l’immagine spiritica, inveisce al mio orgoglio, le altre brune ed io di neve sono tinta; la bellezza non mi appartiene, non come alle mie sorelle.
Mi giro, schiocca il legno della porta, entra Ecuba, forse dovrei chiamarla madre. No, la sua bellezza non mi appartiene, la chioma di terra non è la mia, la pelle ambra non mi si accosta, le forme abbondanti ed accoglienti non si riflettono nelle mie: mi è sempre stato fatto notare. Elegante, regale anche nel feroce passo domestico, viene verso di me col pettine intarsiato. Vorrei urlare ma non mi è permesso aprire la bocca. Vorrei scappare ma sono assediata.
Dita, tanto fini quanto violente, mi stringono tenendomi da sotto la nuca: la mia testa è ribaltata, i capelli notturni sfiorano il pavimento. Si accanisce. La tortura quotidiana inizia: tira, strappa, risale, riscende:
Quanti capelli perdi. Mah, almeno se diventi pelata ti metto una parrucca di un colore normale.
io ci sono nata così. Ne ho colpa. Strappa ancora, il dolore è soffocante, velenoso, tagliente.
Io Cassandra maledetta, con le parole distruggo e da parole non mi lascio narrare, blocco e porto sfortuna, errori di distrazioni ma poi maleficio, distruggo quel che mi riguarda perché di me niente si sappia, perché di me niente rimanga.
Le mura della mia cella sono decorate, fini di donne ben posate, donne giuste dai sorrisi lucenti, calde nei seni e nei caratteri. Propiziatorie. Le guardo, il cuore si ferma, sono errata, la macchia nera sulla stirpe di Priamo. La mia morte è auspicabile e lo so bene. Mi viene ripetuto sempre:
Che gli dei prendano te prima che chiunque condivida la tua aria muoia.
L’amore mi ripudia, quello dei genitori sempre negato, tramutato in odio che ormai mi scorre nelle vene. L’amore di fratelli e sorelle congelato nell’attimo in cui dissi le prime parole funeste, fingono ora che io non esista, ma la mia esistenza effettivamente è effimera, esisto solo nella condizione di esistenza datami da queste quattro mura che mi rilegano. Gli uomini mi fuggono, non vogliono morire nel talamo né condividere la casa con un rigurgito dell’Acheronte, figlia illegittima delle melme dell’Ade.
Lentamente, mentre assorbo quelle immagini, il mio cuore ricomincia a battere: dei tonfi irregolari, tuffi nel vuoto che risalgono dal profondo dello stomaco, stomaco nel quale Paride doveva infilare una lama lucente; sale e il cuore ci si tuffa, dolore che piange dalle mie viscere, silenzioso serpeggia levandomi il respiro, bloccandomi ogni pulsione vitale. Le donne davanti a me vivono più di me, sopravvivo vanamente per dispiacere la mia terra; loro dipinte nella pietra sono morbide, invitanti, io scolpita nella carne, repellente. Hanno uomini, hanno amore: ricordo a palazzo ambasciatori che apprezzavano la meraviglia di queste donne danzanti, la amavano come la bravura canora delle mie sorelle, parole d’oro e fiumi d’ambrosia dalle loro gole dicevano, abissi di morte e aliti d’inferi dalla mia bocca, dicevano.
Sono contrapposta ad un mondo che rovino, sono estranea nella bellezza della terra, terra che non mi è mai stata mostrata, l’avrei distrutta con il mio passo.
La luce è fuggita dalle nostre terre, abbandonato disertando la mia stanza. Non ho candele, ceri né qualsiasi altro tipo di fonte di luce. L’unica scelta è quella di mettersi nel letto, sprofondare in una tomba oscura di disperazione stratificata. Sono pietra. Con movimenti rapidi rimbocco e sistemo il giaciglio nel quale anche questa notte morirò con la speranza di non resuscitare, di tornare nell’Ade dal quale sono stata sputata fuori.
Tremo leggermente, tutto tace, le cicale non suonano più. Sento delle risate, le palpebre iniziano a tremolare, come un tic nervoso. Mi agito. Sta per succedere. Il mio corpo scatta, lo sento aprirsi a stella, non risponde ai miei comandi. Gli occhi si spalancano. Tutto è nero, gli occhi non vedono. Il rumore risorge dal profondo del mio animo, boati e fiamme, legno che arde nelle mie orecchie. Vorrei strapparmi i timpani. Vorrei strapparmi il cuore. Le ombre si manifestano, prendono limiti, confini. Si muovono. Urlano distruggendo la mia razionalità. Sono in un’estatica tortura sulla quale non ho potere. Troia è assediata, mio padre morto, mia madre schiava. Mio fratello solca il la circonferenza delle mura con il cranio spaccato. Il sangue sgorga dalla trachea di Eleno, corre giù per le mura annaffiando le terre aride. Troia brucia, un rogo di legno equino, il cranio di Paride è infilzato su una lancia, i muscoli del collo penzolano sbrindellati. Mi alzo di botto, urlo, vomito, il cranio mi sanguina per le ciocche di capelli che mi sono strappata.
È tornato tutto nero. Calmo. Piango.
Sono risorta anche questa mattina. Sono stanca, il cuoio capelluto è coperto di sangue raggrumato, la mia linfa è stata bevuta dalla maledizione di Apollo: maledetta dal giorno in cui mi negai al Dio. Sbatto le palpebre e in quel millisecondo rivedo tutto, le fiamme e la morte. Sono perseguitata. Arida dentro dalla consapevolezza che le mie parole non sono ascoltate, solo un malaugurio destinato all’avversarsi.
Mi alzo e vado davanti lo specchio d’argento, voglio farmi mortificare, voglio essere giudicata. Mi guardo e la mia immagine è tanto distrutta quanto le mie viscere: la pelle sotto gli occhi irritata e spaccata dalle lacrime e lo strofinio per asciugarle, lo scalpo pieno di capelli solo in alcuni punti, impastato di marrone sanguigno; gli occhi artici spenti, non riflettono più, pieni delle ombre della morte, pieni della guerra. Sono pazza. Ho l’aspetto di una pazza. Sono rinchiusa e nonostante questo la mia follia riesce a rovinare l’esistenza idilliaca disegnata dagli dei. Ha ragione Ecuba, nella mia anima corrotta serpeggia il soffio di follia instillatomi dalle anime dannate, sono dannata e dannatrice, peccato e peccatrice.
Rido e rido di gusto, una risata essenziale e primordiale. Continuo a ridere guardando il cadavere nello specchio. Gli occhi sono spalancati più del normale, il dolore sta scappando nero dal mio corpo. Mentre rido si riversa nella stanza, quando guardo fuori dalla finestra si riversa sul mondo. Continuo a ridere perché mi sta salvando, gli occhi continuano ad aprirsi; sto inondando il mondo della mia sofferenza. Voglio guardarmi. Corro avanti e indietro per la camera: cerco quel che riflette, ogni superficie che possa sdoppiarmi. Rido, rido, rido perché non trovo niente, non ho mai avuto diritto a nessun oggetto non essenziale:
Sarebbe sprecato per te.
Allora continuo a ridere perché ora lo vedo, il dolore mi abbandona e la lucidità di un’esistenza schifosa si palesa sempre di più. Salto, urlo euforica ed in preda all’estasi più totale. Trovo l’unico oggetto che possa sdoppiarmi, ma ha anche il pregio di liberarmi.
Mi allungo saltando verso il letto. Afferro una daga affilata e lucente, regalo e messaggio di quel che avrei dovuto fare anni fa. Mi devo liberare. La sollevo e un raggio la fa riflettere di speranza e vendetta. Rido con tutto il cuore in festa, letizia pura. Lo abbasso. Lo punto dritto sull’unica uscita disponibile in quella stanza. Lo spingo con tutta la forza che ho, giro la lama tanto fredda quanto affilata per aprire la fessura il più possibile, intanto rido.
Non rido più. L’uscita è spalancata. Sono libera.
Mi guardo il ventre: la veste bianca è inzuppata di sangue zampillante, socchiudo gli occhi e non sorrido neanche più; godo della libertà, godo della vendetta. Tutto il mondo ora sarà conquistato e distrutto dal mio sangue nero, tortura liquida a cui mai nessuno ha voluto dar retta. Ora tutti se ne pentiranno.
06/03/2024
Lo sguardo docile dell’uomo ha dovuto da sempre ricercare compromessi contro le intenzioni guerrigliere del mondo.
Siamo abituati a combattere; nonostante questa parola appaia a tutti noi, o almeno alla maggior parte di noi, distante e impregnata di un odore acre che difficilmente riusciamo a sopportare. Combattiamo fin dal primo momento in cui le nostre consapevolezze divengono l’essenziale respiro di ciò che ci permette di tracciare, irreversibilmente, il sentiero che scegliamo di navigare. Combattiamo per modellare le nostre idee, difendere i nostri sogni dalle strette giudicanti di chi ha deciso di barattare quest’ultimi per un incubo addolcito dall’indifferenza, per esalare quei respiri affannosi che rallentano la voracità dei nostri pensieri, quando le acque taglienti d’un oceano sconfinato cominciano ad annegarci.
Combattiamo poiché la resa sarebbe il modo più semplice per abbandonarci alla follia del vuoto. Combattiamo per il fervente timore di vederci sconfitti.
Per quanto questa parola sia vicina e al contempo privata dei suoi lineamenti, resi amorfi da una foschia di perbenismo, tutti noi, abbiamo scelto di battagliare perché l’altra possibilità, aveva le medesime sembianze di una morte, privata dei ricordi, che le concedono il valore del suo significato.
Impariamo a guerreggiare, non nasciamo impavidi e ricolmi della certezza che si erge sul piedistallo dei vittoriosi.
Imparando, ci feriamo.
Alcuni smettono di armeggiare per la paura di trovare cicatrici che non saprebbero come lenire. Altri piangono, gioiosi per una vittoria, o solcati da lacrime di consapevolezza, intimoriti dallo scatenio di una sconfitta.
Le lacrime allagano ogni nostra battaglia, riflettono la luce speranzosa che traspare da ogni passo che riemerge da una melma inconfondibile.
Piangere è la lampante dimostrazione che la cruda narrazione della nostra storia è riuscita a trafiggerci, ma ci ricorda, con ogni vitrea lacrima, che siamo ancora vivi per poter riesumarci dal terreno arido che ci ha sepolto.
Proprio per questo, non mi ferisce osservare una persona che piange rimembrando le sue battaglie o descrivendo i fendenti che la stanno ferendo, però mi strazia, soffocando le mie speranze, il volto di un innocente macchiato dalle lacrime di chi è stato designato colpevole, ancor prima che potesse decidere con quali colpe sporcare le proprie notti.
Mi inquieta lo sguardo appassito di chi ha perduto l’ingenuità per colpa di certezze acerbe.
I pianti, stretti tra i denti, di coloro che non avrebbero motivi per poter piangere con coscienziosità e nemmeno l’età per poter farsi assalire dalla coscienza.
Le braccia, marchiate a fuco da bruciature di sigaretta, di coloro che hanno perso la vista offuscati dal fumo persistente della miseria.
Quegli innocenti non sono combattenti, ma sconfitti, che hanno deciso con inimitabile coraggio di riscrivere una storia, la loro audace storia, in cui l’epilogo è tristemente confuso, scarabocchiato dalla penna di un destino bisbetico.
Victor Hugo, nel suo capolavoro ottocentesco “I miserabili”, descrive in modo minuzioso la sofferenza scaturita dalla miseria.
Una miseria dipinta non solo come condizione sociale ed economica, ma come cappio che stringe, senza indulgenza, il collo di chi desidera salvarsi, rubando un futuro più roseo.
La miseria non sopravvive solamente nelle stanze occupate di un angusto appartamento che, invisibile, contribuisce ad alimentare l’ombrosa imponenza del cemento che regna egemone nei contesti in cui, anche il sole, sembra intimorito dal donare i suoi raggi.
La miseria è uno stridio che irrompe la complessa sinfonia suonata da un musicista che, stonando le note, ha imparato a giostrarsi tra le armonie del pianoforte.
La miseria è una condizione che perseguita i corpi dei sopravvissuti, privandoli dell’idea di una quiete perpetua.
La miseria, anche se si riesce a fuggire da palcoscenici fatiscenti in cui i colori sbiadiscono ancor prima di poter essere sognati, rimane una sfumatura rossastra che difficilmente si riesce a diluire. Le notti di chi ha provato a colorare il suo mondo, dileguandosi dalle ombre che lo rincorrevano instancabili, ne sono l’esempio.
Non sono notti sollecitate dal ristoro e dal tepore del fuoco di casa, ma ore, scandite dal perforante tonfo delle lancette, dove ogni ricordo e ogni rimorso danzano, come pitture riesumate da un’accecante e fioca luce, sulle pareti che tagliano lo sguardo di chi vorrebbe osservare il cielo. Vi esorto a guardare con ammirazione la perseveranza, che ogni virtuoso vincitore utilizza come unica arma di cui servirsi, in ogni duello in cui, le circostanze, sembrano sgambettare decise contro la vittoria; ma disperatevi osservando i fangosi vincitori, gettati in duello già vinto dalla vita, in cui tutto ciò di cui possono servirsi è la speranza di poter brandire i propri sogni e i propri successi, per potersi vedere, prima o poi, ripuliti dai solchi scarlatti, scavati sul volto, dalle lacrime degli innocenti.
06/03/2024
Conosco un tempo in cui tutto fu e niente sarà
neanche le anime più tormentate vagano in pena
Inorridite da frontespizi conditi d’acidità
Scivolate di soppiatto dalla vitale altalena
Riflessi nei bulbi non son più paesaggi
Ma ragnatele di pensieri intrecciate al buio
Penelope che con cura sfiorava i suoi telaggi
è ora intrappolata nella rete dei proci come anobio
Scendono lenti i ricordi sulle gote pallide
Che tanto agognano le risate di un tempo passato
Le lancette al muro sembrano però perfide
Costringendoci a percorrere una via di cui abbiamo abusato.
Pensavamo di poter volare, nessuno l’ha notato e siamo morti
Caduti a picco come Lucifero nel cuore della terra,
Rimasti però sospesi nel limbo fluttuando assorti
Pagando pene di un residuo dopoguerra
06/03/2024
Negli ultimi anni, nella cinematografia e nella serialità più recente, la figura di Lady Diana Spencer ha assunto un ruolo preponderante. La sua tragica scomparsa e il forte amore e affetto che il pubblico prova ancora nei suoi confronti, ha portato nell’arte la necessità di indagare nel profondo una figura chiave per la storia della monarchia britannica. Un’analisi svolta sotto diversi aspetti, da diversi registi, al fine di rappresentare al meglio la vera anima della cosiddetta “Principessa del popolo”.
Tra i risultati più brillanti ed apprezzati, da pubblico e critica, si annoverano le performance di Emma Corrin e di Elizabeth Debicki, rispettivamente nella quarta e nelle stagioni cinque e sei della pluripremiata serie Netflix The Crown, di Peter Morgan. Le due attrici riescono sapientemente ad interpretare i panni della Principessa del Galles in diverse fasi della sua breve vita, prima all’inizio del suo burrascoso matrimonio con il principe Carlo e poi, nel corso degli anni Novanta, quando i due decidono di comune accordo di separarsi, affrontando il caos mediatico che ne conseguì, fino ad arrivare al tragico incidente dell’estate 1997 sul Pont de l'Alma a Parigi. Per le loro performance, sia Corrin che Debicki sono state premiate con il Golden Globe alla miglior attrice in una serie tv.
Per quanto riguarda la cinematografia, invece, il film Spencer, del cineasta cileno Pablo Larraín, appare come l’opera che, più recentemente, ha saputo catturare al meglio l’essenza di Lady D, grazie anche al grande apporto fornito alla pellicola dalla sua protagonista, l’attrice Kristen Stewart (nominata agli Oscar 2022).
Il film, scritto da Steven Knight, è ambientato nella tenuta reale di Sandringham durante le vacanze natalizie del 1991. In questo periodo, Lady Diana inizia a prendere pienamente coscienza della sua completa incompatibilità ed estraneità nei confronti della famiglia reale. I dubbi della donna, riguardanti il suo infelice matrimonio con il principe Carlo, si fanno qui sempre più persistenti, acuiti anche dalle difficoltà legate alla bulimia e alla relazione extraconiugale di quest’ultimo con Camilla Parker Bowles.
In questa pellicola, Larraín riprende la strada già tracciata all’uscita del suo acclamatissimo Jackie, nella sua volontà di raccontare le vicende di alcune donne che hanno avuto un ruolo centrale nel costume, nella storia e nella cultura recente. L’idea di Larraín si fonda sull’esigenza di rappresentare il rapporto tra vita pubblica e personale di personaggi cardine del nostro tempo, attuando parallelismi tra la donna privata, rispetto al proprio ruolo istituzionale.
Tutto ciò, in attesa di scoprire come il regista rappresenterà in Maria (il suo prossimo lungometraggio le cui riprese sono iniziate nell’autunno 2023) un altro personaggio iconico del Novecento: la cantante lirica Maria Callas (interpretata da Angelina Jolie), di cui lo scorso dicembre si è celebrato il centenario dalla nascita. Si tratta, infatti, del film che forse andrà a chiudere questa sua ideale trilogia di biopic al femminile, intervallata da altre due pellicole di grande successo Ema (2019) ed El Conde (2023), entrambi accolti con successo alla Mostra del Cinema di Venezia.
Già nel 2016 (anno di uscita di Jackie), il regista cileno era riuscito brillantemente nell’analisi intima ed autentica di una grande figura femminile del XX secolo, Jacqueline Kennedy (interpretata superbamente da Natalie Portman, nominata all’Oscar), all’indomani degli avvenimenti di Dallas del 1963. Anche in Spencer, Larraín realizza un film che si regge pienamente sulla potente interpretazione fornita dall’attrice protagonista.
I punti di contatto tra le due pellicole appaiono notevoli. In primo luogo, sotto un punto di vista formale e stilistico, in quanto la regia e la gamma cromatica appaiono molto simili, quasi come se i due film volessero essere l’uno la continuazione dell’altro. In secondo luogo, le due donne protagoniste risultano più simili di quanto si possa, inizialmente, pensare. Entrambe incastonate in un universo patinato, nelle stanze del potere, Jackie e Diana mantengono il loro status di donna stando dalla parte dei loro uomini, ma, all’occorrenza, non si tirano indietro nel momento in cui sono chiamate, per motivi diversi, all’azione. Nell’ambiente in cui sono immerse, le due donne riescono quindi a mantenere una sorta di indipendenza, prendendo decisioni autonome e consapevoli, nonostante la diffidenza generale.
Nel corso delle vicende, sia Jackie che Diana, perdono i loro uomini secondo modalità differenti. Jackie vive il trauma della morte violenta, improvvisa, del marito Jack nel celebre attentato del 22 novembre 1963. Invece, Diana acquista la consapevolezza che non sarà mai, davvero, la prima donna nel cuore del suo principe. Ogni Fred ha la sua Gladys e lei non lo è. In poche parole, una battaglia persa. (ndr. Fred e Gladys sono i nomi in codice utilizzati da Carlo e Camilla durante il loro periodo di clandestinità).
La perdita di qualcuno che si ama, è dunque un tema centrale delle due opere. Le due donne, tuttavia, non smarriscono mai la loro identità e la loro libertà. Si può presumere, che questo topos verrà ripreso da Larraín anche in Maria, in relazione all’abbandono della donna da parte dell’amatissimo armatore greco Aristotele Onassis, per il quale La Divina ha enormemente sofferto. Buffo pensare che, Onassis convolerà poi a nozze con Jacqueline Bouvier Kennedy, a cui il regista ha già dedicato un lungometraggio, costituendo un vero e proprio fil rouge tra cinema, arte e finzione.
Nei suoi film, dunque, Larraín pone l’accento sulla femminilità della donna e sulla sua enorme diversità rispetto all’universo in cui è rinchiusa, tanto in Jackie quanto in Spencer. In quest’ultima pellicola, in particolare, attraverso una regia fortemente intima che si concentra sul corpo e sull’umanità della protagonista, viene reso sapientemente l’ambiente angosciante e teso nel quale Diana è costretta a vivere. Ciò, attraverso una serie di elementi simbolici quali, ad esempio, una collana di perle, regalo del Principe di Galles alla moglie. La donna, ormai completamente apatica ed alienata dalla sua condizione, ha addirittura delle allucinazioni riguardanti sé stessa, Camilla Parker Bowles e Anna Bolena, “l’altra donna del re”, in una sorta di parallelismo temporale. In uno di questi sogni, Diana immagina di strapparsi di dosso, con forte veemenza, la collana regalo del marito, che durante una cena regale sembra quasi soffocarla. La Principessa arriva addirittura ad inghiottirne le perle, in un gesto fortemente provocatorio che segna l’inizio del suo percorso di riconciliazione con il suo essere interiore. In questo caso, la distruzione della collana assume il significato di estremo rifiuto del suo ruolo e degli obblighi da esso imposti, per poter finalmente vivere in armonia con la propria esistenza.
06/03/2024
Sin dall’Antichità, l’uomo è sempre stato argomento di discussione per filosofi e pensatori.
In particolare, una delle più frequenti questioni di dibattito che si protraggono, dalla Grecia di Socrate fino ad oggi, è la vera natura dell’uomo: in noi vige una tendenza altruista o, al contrario, egoista?
Sebbene, al giorno d'oggi, sia ormai ben diffusa l’opinione per la quale l'essere umano sia individualista e menefreghista verso gli altri, studi e pareri di importanti ricercatori e pensatori ne dimostrano il contrario.
Innanzitutto è bene sottolineare che l’uomo nasce come altruista, e varie analisi possono confermarlo. Secondo l’indagine effettuata dal dipartimento di Neurobiologia della Hebrew University di Gerusalemme, è rinvenuto che il genere umano dispone di un “gene altruista”, denominato “gene AVPR1A”, per cui ogni gesto altruista innesca una sensazione di gioia e benessere psicofisico. Si è giunti a questo risultato grazie ad un esperimento effettuato dal Professore Reut Avinum su 136 bambini e bambine di età compresa tra i tre e i quattro anni. Singolarmente, ogni bambino è stato fatto entrare in un’aula con svariati giochi e, l’istruttore in merito, ha proposto ad ognuno di tenere per sé tutti gli oggetti del divertimento oppure di poterne donare una parte al bambino che arriverà in seguito. L’esito è stato inequivocabile: due terzi dei bambini ha preferito donare una parte dei suoi giochi ad un bambino “immaginario” che sarebbe arrivato dopo di lui. La risposta più frequente alla domanda dell’istruttore, sul perché questi bambini avessero deciso di condividere, fu: “Perchè così mi sento felice”. Sulla base di quanto affermato, risulta chiaro che l’uomo non solo tende ad essere altruista, ma addirittura nasce altruista, in quanto sin da piccolo preferisce donare all’altro piuttosto che tenere tutto per sé.
In secondo luogo, l’uomo è altruista perché è un “animale sociale”.
Sono in tanti i saggi che seguono questa via di pensiero. Tra i più importanti, certamente, è d’obbligo citare David Hume, filosofo empirista scozzese. Egli sostiene che il sentimento di empatia sia innato nella specie umana perché iscritto nella sua natura. E così concorda anche il filosofo ed economista Adam Smith, che in un suo trattato afferma: “Per quanto egoista si possa ritenere l’uomo, sono chiaramente presenti nella sua natura alcuni principi che lo rendono partecipe delle fortune altrui, e che rendono per lui necessaria l’altrui felicità, nonostante da essa egli non ottenga altro che il piacere di contemplarla. Il fatto che spesso ci derivi sofferenza dalla sofferenza altrui è troppo ovvio da richiedere esempi per essere provato: nemmeno il più gran furfante, il più incallito trasgressore delle leggi della società è del tutto privo di sensibilità”. L’idea di Smith, infatti, è che l’uomo sia altruista perché vive in società ed è quindi costantemente giudicato da quest’ultima. Ogni persona, a suo avviso, immagina uno “spettatore imparziale” che giudica le sue scelte. Questo “io immaginario”, in realtà, va ad immedesimarsi con la persona stessa: l’uomo agisce con altruismo perché, innanzitutto, vuole sentirsi bene con se stesso. Il fine di tutto ciò, però, è la ricerca della propria persona: specchiandosi negli occhi degli altri si trova il proprio io. Questa è la sympathy, cioè il sentire comune che porta l’uomo a vivere in società.
Infine, è lecito citare uno studio compiuto recentemente dalla psicologa Silvia Bonino, che afferma l’altruismo dell’uomo sostenendo che sia tale perché l’essere umano tende a riconoscere l’altro come uguale a sé, e per lui prova quindi empatia e compassione, ciò lo porta ad essere incline a fare del bene verso gli altri. Come pensava già millenni prima Aristotele, il genere umano vede l’altro come estensione di sé, per questo si comporta in maniera altruista.
Sommando i pareri e gli studi di questi importanti personaggi, è ragionevole pensare che l’uomo sia altruista per natura.
Tuttavia, anche se non fossi riuscita a convincerti, immagina: invece di vivere in un mondo egoista, non sarebbe preferibile comportarsi al meglio per costruire un futuro più roseo?
06/03/2024
Mille baci e poi cento e poi altri mille, tutti quanti per il nostro amato Oscar Wilde.
La sua tomba, situata nel cimitero di Père-Lachaise a Parigi, è stata per molto tempo ricettacolo di grandi sentimenti. Le parole lasciate dall’autore irlandese hanno fatto breccia fra cuori di tutto il mondo, a tal punto da spingere migliaia di ammiratrici a ricoprire buona parte della sua tomba di baci. Esatto, avete capito bene!
La tomba dello scrittore fu proprio il luogo scelto dalle sue accanite lettrici per lasciare traccia del loro smisurato amore attraverso numerosissimi baci.
Fu verso la fine degli anni ’90 che apparve la prima impronta, impressa da un rossetto rosso proprio sopra la statua della Sfinge, divenuta per questo motivo un simbolo dal grande potere erotico. Così, in poco tempo, la tomba di Oscar Wilde si è trasformata in un monumento all’amore, un sentimento che trasuda da ogni bacio, da ogni scritta e da ogni cuoricino che le nostre ammiratrici provenienti da ogni parte del mondo hanno deciso di dedicargli. In questo modo le donne hanno scelto di ringraziare un autore, con le sembianze e la fama degne di una rockstar, per le sue magnifiche opere e divertenti aneddoti.
Un bacio può rovinare una vita, scrisse così Wilde; pensate se avesse saputo della quantità di baci che a lungo hanno trovato dimora sulla sua lapide!
La tomba è stata ripulita e ora si può nuovamente ammirare il suo candore originario. Le autorità hanno deciso di aggiungere di fronte ad essa anche un vetro protettivo, installato il 30 novembre 2011, in occasione del suo anniversario di morte, per cercare di proteggerla da ulteriori dimostrazioni d’amore da parte dei passionali fan.
Questa è stata una precisa richiesta da parte di Merlin Holland, nipote del grande scrittore, che ha lamentato la fragilità e la porosità della pietra a seguito dei vari interventi di pulizia.
Non sarà certo, però, un vetro protettivo a fermare l’amore folle delle ammiratrici che il nostro Oscar ha colpito nel cuore. La grandiosità di questo autore, come abbiamo potuto constatare, è tale da superare anche le barriere della morte e della memoria del defunto: mai potremmo dimenticarci di lui e delle sue parole. I baci sono simbolo di questa memoria e di questa devozione che durerà per sempre, che andrà oltre l’inesorabile scorrere del tempo. La sua è stata certamente una vita difficile ma ora, nel suo momento di riposo, migliaia sono le persone pronte a ringraziarlo per quello che ha fatto, per essere stato un personaggio che ha scaldato a tal punto i nostri animi e che, anche se solo per pochi istanti, ci ha fatto sentire bene.
Date alle donne occasioni adeguate ed esse saranno capaci di tutto.
06/03/2024
Questa sera mi sento rissoso. Stringo i polsi e attendo impietrito. Sono frustrato agli occhi di quello che mi tocca guardare: un bruco si sta mangiando una mela; prima la buccia, poi la polpa, il torso e il picciolo. Mangia così lentamente che forse la mela marcirà ancor prima che quello finisca di mangiarsela! Morirà di fame, insomma, ma la colpa è solo mia: -vedete- dovevo fare dei bruchi più grandi o delle mele più piccole; la fame più lenta o la bocca più veloce. Un completo disastro, mi toccherà rifar tutto daccapo, per l’ennesima volta.
Nel farsi della notte impastavo la terra.
Il mio desiderio era piuttosto semplice d’altro canto: già, ma cosa volevo? A stento ricordo ciò che ho sempre voluto.
Toccava lavorar di notte. Quando l’argilla se ne stava fresca ed il silenzio del buio mi aiutava a dipingere i corpi delle persone: li facevo coi vestiti, le camicie e le cravatte; persino con orecchini e gemelli. Ad alcuni facevo delle labbra più sottili delle mie, ad altri -forse- delle iridi più colorate e dei capelli più lunghi.
Ancora. Di notte. La terra.
Stupidamente credevo che il mondo avesse bisogno di compagnia, come se avesse avuto bisogno del respiro, dei passi e delle parole delle persone. In verità, io ne avevo bisogno. Per questo motivo faticavo e sudavo disperatamente; i miei desideri più profondi rantolavano nel buio e, coi palmi delle mie mani sudate, cercavo di portarli alla luce.
Allo sciogliersi dell’alba raccontavo una fiaba.
La terra era difettata. Ve lo giuro, credetemi: era rotta o bacata! Se ne stavano tutta la notte immobili e fisse altrove; fin su in alto nel cielo, là dove volano farfalle e rondini. E non appena i primi raggi del sole svelavano il mio egoismo, le mie fatiche si sgretolavano in mille ciottoli e polveri fino a coprirmi la vista e riportare la notte nel mondo intero. Dimenticavo qualcosa: già, ma che cosa?
Ancora. All’alba. Una fiaba.
Palpitava il mio cuore, mentre dalle macerie scricchiolavano voci e risate che mi facevano indietreggiare e sudare fin sotto i talloni; scivolare per terra e sbattere la testa su una corteccia di sughero -io sono un codardo e di farmi male non ne voglio mica sapere!
Dalla sabbia emersero delle creature estranee alla mia intenzione: le nottole. Proprio in quell’istante la mia Frustrazione si fece carne: proprio quella che stringevo quando fallivo. Erano la negazione del mio lavoro, del mio desiderio; avevano il manto fatto di Vergogna e il corpo di Lussuria. All’ombra del meriggio, il preludio della fine.
La pelle della nuca si scotta. Il sole del mezzogiorno brucia e arde la pelle: ero costretto così a fare ombra ai miei occhi, costretti a guardare dove le nottole si stavano cacciando. Vagavo senza direzione alcuna sulla sabbia calpestata solo dalle mie caviglie incrinate; le burrasche e i fulmini. Tu dove sei?
Ancora. Al meriggio. La fine.
Ve lo dico io! Quelle vedevano le cose a testa in giù: la speranza e il timore al contrario, il bene come se fosse il male; addirittura, come se le radici degli alberi fossero i rami e le frasche. Come se le nuvole fossero la terra e i prati.
La notte, l’alba e il meriggio.
Presto mi trovai costretto in una grotta e, nudo, dovevo subire le Loro cattiverie. Mi mostravano giochi di ombre, illusioni di viole e tulipani; bugie e frattaglie. Mi mentivano dicendomi che fuori -nel mondo- c’erano persone e cose proprio come io stesso me le ero immaginate. Ma io sapevo che nemmeno nei sogni la realtà poteva essere così perfetta, tantomeno qualcosa fatto da me.
Ancora.
Ma all’imbrunire balbettavo. Le nottole scappavano irretite dalle loro tane; la notte che le aveva concepite le terrorizzava e le faceva urlare maledizioni contro di me.
Solo, osservavo la luna mentre mi raccontava il vero: faceva chiaro sui miei dubbi e curava la mia pelle dalle bruciature. Riuscivo, per un momento del giorno, a sentire i Suoi mormorii: troppo lontani e silenziosi per essere ritratti. Schiariva la mia voce dai dubbi e immediatamente capivo dove sbagliavo, come se il cranio si fosse aperto ed avesse esposto la carne del cervello all’aria; le idee nocive e superflue erano volate via col vento della sera.
<<Ho fatto dell’uomo un mestiere e non un’arte; la vita una necessità, non un’opportunità! Ho deciso, voglio la Luna!>>.
La notte. L’alba. Il meriggio.
Provo per l’ultima volta con la terra: <<Questa volta senti le mie intenzioni, lo voglio a testa in su, e che guardi il mondo dal verso giusto; questa volta, dev’essere un uomo a regola d’arte!>>.
Attendo nudo nella caverna, sopportando i soliti spettacoli. Questa volta le ombre sono accompagnate da strilli, risate e versi blasfemi. Ma la Luna m’impedisce di soffocare e tiene vivo il mio corpo, oramai al limite.
La notte. L’alba. Il meriggio
Questa volta la sabbia si scioglie, cola per terra, bolle per poi evaporare. Sento dei colpi di tosse, la visione non è ancor nitida. Silenzio. Malapena respiro dall’ansia e perfino i miei pensieri balbettano alla sola idea di dover uscire, ma non ho più tempo per le domande.
La sagoma di un uomo mi si avvicina. Vedo dei colori. L’immagine sfocata s’infrange in un ghigno aberrante; stringo la mia carne. Era un giullare. Porta al collo una serpe e tutt’intorno alle braccia, delle catenelle. Fra i denti tiene una collana sporcata dal suo rossetto, lo stesso colore del naso. La serpe striscia fra la sua parrucca di mille colori e nessuno; sibila e mi mostra le fauci. Stringo la mia carne: questa è Paura.
Ancora.
<<Dammi la Luna!>>. Volevo gridagli a pieni polmoni, ma le catene di quel giullare mi strozzavano e sbavavo dalla bocca. Mi ha poi sbattuto fuori dalla grotta in pasto alle nottole. Mentre mi mangiano vivo piango. Prima, le lacrime bruciano i miei tagli poi, scavano la terra fino a inondarla del tutto: che fortuna, le nottole non possono finire di mangiarmi.
Il giullare cammina sul mare delle mie lacrime; s’avvicina con le sue meste danze mentre i miei fallimenti volano sopra di noi. <<Voglio solo che la Luna mi sussurri parole con cui raccontar delle fiabe, nulla di più>>. Mi ripeto mentre stringo la mia carne.
Ma il giullare non sente e con la collana sprofonda la mia testa nell’acqua. E con gli occhi a penzoloni sul gracidio delle sue menzogne; annego nella mia perdizione e il rimpianto di non aver potuto parlare con quelle mie creature. Avremmo potuto provare con gli specchi e col verde che fanno quando li metti uno di fronte all’altro; avremmo potuto usare i segni, i versi o le botte; avremmo potuto insieme piangere fuori dal tempo. Sto annegando.
La notte. L’alba. Il meriggio.
Infine, un pettirosso appoggia le zampe sulla mela oramai bacata da un pezzo e si mangia il bruco.
POESIE
nella notte
sentii la mia collera sbiascicare fra le mie braccia; ossia
mentre tentai di strapparmi il dubbio di dosso. Invano caddi a terra e tutto d’un tratto,
presi sonno in grembo
al deserto cocente.
di meriggio
vagabonda,
la mia mente sulle brune
Spiagge; si frantuma
in Silenzio.
all’alba
e come le spiagge
anche il cielo. i Suoi frammenti
han fatto le stelle, ed
io solamente
potei vederti fissa
lì
in alto.
06/03/2024
“L’uomo non ha fatto altro che inventare Dio per vivere senza uccidersi” : è la cruda affermazione 1 pronunciata da Kirillov, uno dei personaggi de I demoni, romanzo scritto da Dostoevskij e pubblicato per la prima volta nel 1873. Otto anni più tardi, il filosofo tedesco Friedrich Nietzsche scriverà ne La gaia scienza: “Dio è morto! Dio resta morto! E noi l'abbiamo ucciso!” 2 .
Dunque, non solo abbiamo creato Dio per non ucciderci, ma ci siamo sporcati le mani del suo sangue, partecipando in prima persona alla sua distruzione. Privata di quell’illusione che Sigmund Freud, padre della psicoanalisi, descriveva come una “cattiva scusa” , la vita appare spogliata del suo senso. Essa 3 diviene vita assurda. E se è vero che non c’è un senso, a quale scopo l’uomo, privato dei propri appigli metafisici, dovrebbe continuare a vivere?
A discorrere sull’assurdità della vita fu soprattutto Albert Camus, scrittore e filosofo francese nato nella prima metà del Novecento, nonché importante esponente dell’esistenzialismo. Per lui l’umanità si è illusa, attraverso la religione e quegli altri surrogati creati per colmare il vuoto lasciato dal loro abbattimento, che la vita avesse uno scopo preciso. Ma consegnare il senso della vita ad un’entità esterna e superiore è, per l’autore, un vero e proprio suicidio filosofico, una mera consolazione per sfuggire agli angoscianti dubbi che conseguirebbero dalla presa di coscienza dell’assurdità e del nonsenso. Accettare questa condizione significa accettare dunque l’assenza di un significato definito.
È proprio la dialettica tra il desiderio umano di ordine e sicurezza e la realtà caotica e indifferente che lo circonda a dare vita a questo assurdo che impregna la nostra esistenza. La nostra ragione pone delle domande al mondo, ma esso tace: in questo consiste l’assurdo. Camus non fu il primo a rendersi conto di questa assurdità, ma coloro che prima di lui vi arrivarono tentarono di sottrarvisi attraverso la speranza – come fece, ad esempio, Kierkegaard con la speranza e la fiducia in Dio –, il suicidio o dando un significato generico all’esistenza. Camus sostiene, opponendosi a questi altri pensatori, che tali tentativi non facciano altro che negare questa scoperta.
Che fare, dunque, di questa vita priva di senso? Camus sostiene che dall’assurdo non bisogna fuggire. Al contrario, esso dev’essere accolto e sopportato. Non si tratta di una visione nichilista e pessimista della vita; si tratta di scorgere, nell’assurdo, la strada verso la propria libertà. L’uomo deve accettare l’assurdità della vita, badando a non affidarsi a cieche vie di fuga consolatrici. Sopportando l’assurdo, l’uomo vi si ribella, ed è questa ribellione – che si esprime nell’arte, nella solidarietà, nella giustizia e nell’amore – il mezzo che lo rende libero. Una ribellione passionale e creatrice, quella dell’uomo assurdo, che per Camus deve vivere consapevolmente la propria condizione e creare il proprio senso, sfidando il mondo senza illudersi e godendo della propria libertà senza ignorare i propri limiti. Un senso, questo, che non deve essere preformato, già deciso e imposto dall’esterno, bensì un senso autentico e personale. La vita assurda è il destino finale a cui l'essere umano deve pervenire, e il punto di partenza di questo percorso risiede proprio nel riconoscere e accettare l’assurdo. Per Camus non è importante vivere bene, ma vivere il più possibile, ovvero intensamente e consapevolmente, spinti dalla “passione di esaurire tutto ciò che ci è dato” . Questo è 4 l’amor fati di Camus, il suo dire “sì” alla vita. L’unico ostacolo a questo vivere è la morte, intesa sia come morte fisica che metafisica – disconoscendo l’assurdo e rifugiandosi nella speranza. L’ ”uomo assurdo” sceglie la storia all’eterno, la fugacità della vita alla consolazione dell’infinito.
Camus individua la migliore personificazione dell' “uomo assurdo”in Sisifo, personaggio della mitologia greca, da cui deriva il titolo di una delle sue opere più conosciute e influenti, Il mito di Sisifo. Punito per aver offeso gli dei con la sua astuzia e la sua empietà, Sisifo è condannato da Zeus a spingere eternamente un masso su una collina, che rotola a valle appena raggiunta la cima. Camus non vede questa condizione come una condanna. Al contrario, Sisifo è padrone del proprio destino: il macigno gli appartiene; compiendo il suo lavoro privo di senso, egli diviene consapevole della sua condanna e silenziosamente vi si ribella, diventando un uomo libero. Un inno alla vita, quello di Camus, che può essere riassunto attraverso le ultime parole di questa illuminante opera: “Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice”.
1 Dostoevskij F., I demoni, Einaudi, Torino, 2014
2 Nietzsche F., La gaia scienza, Adelphi, Milano, 1977
3 Freud S., L’avvenire di un’illusione, Bollati Boringhieri, Torino, 2012
4 Camus A., Il mito di Sisifo, Bompiani, Milano, 1947
06/03/2024
A guardare con occhio critico i giganti dell’Ottocento e del Novecento, tra quelli che hanno scelto le donne come protagoniste dei loro romanzi, risalta subito una certa somiglianza in alcuni aspetti di queste eroine. Sembra esserci quasi un modello declinato che salta fuori ripetutamente, uno schema, una figura onnipresente e fastidiosa. Questa donna, la donna costruita, è una figura che non è altro che la metà complementare di un uomo idealizzato. Tratti di questa donna emergono anche in capolavori come Anna Karenina di Lev Tolstoj, Madame Bovary di Flaubert e Lady Chatterley di Lawrence. Ma chi sono queste donne, e come fanno a rappresentarne una sola, univoca? La donna di cui parlano Tolstoj e Flaubert si tratteggia nel tentativo di riempire il vuoto del maschio, a scapito dell'inverosimilità del risultato. Se l’uomo è razionale, controllato, corretto e integro, la donna sarà irrazionale, isterica, moralmente inconsistente. Per esempio, quando nel capitolo XXIX di Anna Karenina viene descritta la caduta da cavallo di Vronskij, Anna sembra essere fuori di sé. Vuole andare via ma non riesce a staccare gli occhi dalla scena, ignora suo marito, addirittura sembra insofferente alla sua presenza e disattenta alle sue parole. “Ella di nuovo voleva andar via. — Vi offro ancora una volta il braccio, se volete andare — disse Aleksej Aleksandrovic, toccandole il braccio. Ella si scostò da lui con ribrezzo e, senza guardarlo in viso, rispose: — No, no, lasciatemi, rimango.” Cosa emerge in questo scambio freddo e scostante tra i due coniugi è la distanza, provocata dall’amore di Anna per Vronskij e un’incapacità di controllarsi della donna, un istinto più forte della volontà e di ciò che sarebbe corretto fare in una situazione del genere. E dall’altra parte c’è suo marito che impassibile esternamente si controlla, non lascia che il dubbio serpeggiante che si sta insinuando in lui alieni i suoi comportamenti, la sua gentilezza o fermezza. Aleksej è saldo, Anna instabile. E come Anna del resto Lady Chatterley. Il romanzo di Lawrence che fece al tempo tanto scalpore da essere proibito fino al 1960 rappresenta una rivoluzione in letteratura, un testo passionale che racconta la vitalità dei sensi contrapposta all’atrofizzazione sempre più dilagante nella società inglese industrializzata. E se nel libro l’adulterio di Connie sembra essere simbolo di una ribellione profonda, i connotati di questa donna non sono poi così distanti dalla donna inventata di cui parlavamo prima. Lady Chatterley si dovrebbe distinguere per un’educazione più libera, aperta e innovativa, ma nulla sembra frenarla dal divenire un prolungamento del marito disabile. E sebbene lei si mostri una moglie paziente e disponibile, la sua natura animale, di creatura inferiore e istintiva la porta a tradire suo marito con un uomo sano e vitale. Ed ecco che riappare: la donna costruita. Da una parte sottomessa, materna e caritatevole, dall’altra animalesca, irrazionale e istintiva. Come queste esistono mille esempi di donne costruite. Potremmo nominare Carla, de Gli Indifferenti, facilmente abbindolata da Leo ma in fondo consenziente alla violenza. Oppure ancora la Andrée di Simenon de “La camera azzurra” che è così sensuale, primitiva nella sua ricerca del piacere e così priva di dignità. Naturalmente in capolavori immensi come Anna Karenina e Madame Bovary la psicologia di queste donne è talmente sviluppata e complessa da lasciare minimo spazio a questa costruzione, che però riesce comunque a baluginare in alcuni passaggi. Queste figure appartengono tutte a un’idea della donna che si è andata delineando nel tempo, un’incomprensione che si è trasformata in affermazione. È stato dato un nome a una sensazione: l’immenso dubbio che assale quando si entra nell’universo femminile. E non per difficoltà di comprensione, quanto più per la volontà di trascurare, di ignorare. Ad un occhio attento non può sfuggire come tutte queste donne siano identiche l’una all’altra nella loro indole annoiata e nel loro carattere malizioso. Sono uguali perfino nell’invenzione di un desiderio sessuale femminile, che sembra questa grande scoperta all’uomo ma che in realtà non descrive nulla della vera visione della donna sulla sessualità.
04/01/2024
"Siamo ridicoli, noi fortunati, quando ricerchiamo a tutti i costi l'esotica povertà:
tra selfie, freddi timori, dolcezze fuori luogo, un'autocritica sociale prova a indagarne il senso, la causa, lo scopo".
V’è pratica comune nel civilizzato vecchio continente e quest’è per certo la noia.
La ricchezza era, è e sempre sarà imperfetta. Il tutto è incompleto, incompiuto; la vera perfezione la troveremo solo nel nulla, nell'assoluta mancanza, nella purezza primordiale.
La povertà si suddivide in povertà d'animo e povertà materiale:
il concetto di povertà d'animo è, all'interno dell'assoluto, relativo.
Viviamo di emozioni assolute e irremovibili ripetute all'infinito, che saranno influenzate dalle nostre insignificanti azioni personali nel corso della nostra insignificante vita.
Il concetto di povertà materiale è, all'interno del relativo, assoluto.
La società cambia insieme al concetto di povertà, ma all'interno di questo relativismo possiamo trovare l'irreversibile assolutismo dei ricchi e dei poveri, degli sfruttati e degli sfruttatori.
La noia porta a riflettersi da dentro, a stringersi il cuore con cinte pungenti, con ami forati, estraendolo con vigore d’amante e divorandolo con gusto, perché s’è romantici, s’è bisognosi d’amore.
Ecco, s’immaginino ora vecchi signori, anziane signore, o giovani già vecchi per l’eccessivo contatto con la saggezza, per la pericolosa lontananza dalla follia adolescenziale. S’immagini la loro conforme necessità di allontanarsi dalla noia, che li divora soffocandoli, e insieme li affoga e dal forte, intrinseco bisogno di conformarsi alla morale che vige, ch’è fatta non sol di libri, di cinema, d’amore nelle mostre, nei musei, nelle scuole, ma anche d’azioni, di sguardi, di saluti e d’addii, sì utile, ma opprimente, perché non v’è cultura se non ve ne son per lo meno due, non v’è bellezza se non nello squilibrio della personale rivolta alla consuetudine. Ora si pensi al descritto gruppo d’anime involontariamente prive di vis. Questo parte per la prima meta trovata, con la prima organizzazione scoperta, alla ricerca di nulla, conoscendo già perfettamente quel che si ha lasciato e quel che si vuol fare (che l’esempio comune sia un paese dell’Africa sub sahariana, affinchè sia medesima la riflessione).
L’euforia accompagna il gruppo, anzi, la folla, non per la genuinità del voler far bene, ma per l’autenticità del mondo verso cui s’incammina, la falsità della vita da cui fugge. L’arrivo nel nuovo paese si può equiparare all’immersione in un mare, dove serve maschera per vedere ed esser visti, boccaglio o bombola per respirare, in cui tutto sorprende per la straordinaria rottura del confine che circonda il castello d’esperienze vissute. Ogni oggetto, bestia, persona, perfino, è causa e insieme fine di meraviglia e stupore e la folla lo fotografa, riprende, attraversando strade vedendo sentieri, parlando a uomini vedendo servi, come se fosse in uno zoo, come se il mondo intorno fosse grande comparsa e ragione di inconsapevole scherno, non per malizia, ma per cultura, ch’è radicalmente aggrappata al cuore e insieme alla mente, che ci àncora al pregiudizio della necessaria diversità verticale.
I compiti dalla folla svolti non solo sono inutili, ma dannosi. La pericolosità sta nella superbia di credere di poter educare sol perché si è bianchi e nella stupidità d’insegnare ai piccoli che la cultura ha un colore, una fisicità, che giunge all’improvviso da settentrione, per poi dopo poche settimane andarsene, stuzzicando, non sfamando di certo, illudendo, non convincendo. L’inutilità sta, invece, nelle poche opere create, nei disegni sui muri delle classi, nelle costruzioni di precarie fondamenta, svolte per pubblicità e ripetuto vagheggiamento, vantandosi d’aver cambiato la realtà, d’aver fatto la propria parte.
Che si abbandoni il vago, la spettacolarizzazione; si adottino concretezza, coraggio; che la nostra cultura sia mezzo, non scopo, sia aiuto, non obiettivo.
04/01/2024
“The importance of being idle” è un singolo del duo inglese Oasis estratto dall’album del 2005, intitolato “Don’t Believe The Truth”. Agli sgoccioli della loro carriera, sempre più minata da discordie e antipatie interne, i fratelli Gallagher rilasciano una potentissima canzone di disprezzo, di protesta e velatamente d’aiuto nei confronti di un sistema esasperante in cui si può trovare posto solo accodandosi alla lunghissima fila di lavoratori produttivi che, accecati dall'avidità e/o incalzati da un istinto di sopravvivenza, freneticamente marciano al ritmo comune scandito dal rullante.
Noel Gallagher esterna bene questa nausea, derivata dal senso di inadeguatezza rispetto a una società che lo obbliga “a vendere la sua anima” per pareggiare i debiti dell’affitto, che per bocca della sua ragazza lo addita come “pigro” e che lo esorta a spingersi al limite delle sue capacità umane; realizza infatti che “non può farsi una vita se non ci mette il cuore”. Dopo un attimo di riflessione, comprende che effettivamente a lui basta stendersi su un letto sotto la volta stellata, liquidando i suoi doveri con un laconico e indifferente “I don’t mind”.
In effetti, chi è che non vorrebbe vivere immerso nell’ozio più piacevole, libero finalmente dalle catene dei propri impegni sociali?
Attualmente si è abituati a giudicare la pigrizia come un tratto piuttosto negativo, vizioso, nel senso latino del termine piger, cioè lento, e quindi estremamente dannoso agli occhi del capitalismo occidentale e della rapidità ottimizzatrice che esso stesso sbandiera fieramente.
Concezione del tutto opposta a quella di culture già più lontane: è sufficiente muoversi nel continente africano per scoprire la filosofia del mora mora, l’equivalente italiano del Dolce far niente, ossia della lentezza benefica. Ma l’indolenza alla quale inneggia questa canzone ha radici ancora più antiche, affondate nell’a-ergos greco, cioè in quel concetto che designa l’assenza di lavoro (da notare la sua connotazione del tutto neutrale). È proprio sulla base di questa definizione che invece bisogna ricostruire il valore della pigrizia, intesa come scelta libera di sovversione al sistema.
Paradossalmente, essere pigri non significa abbandonarsi alla nullafacenza, crogiolarsi in un nichilismo stanco e quasi accidioso, bensì prendere posizione: scegliere di non prefissarsi obiettivi, di correre via da quella marcia logorante ritmata dal capitalismo e, insomma, di vivere al momento. Ecco, per l’appunto, vedere sbiadirsi l’esortazione oraziana: come si può cogliere l’attimo se si è sempre occupati a fare altro? Ognuno travolto dalla macchina incessante della routine, della fatica, degli obblighi, ma quanti veramente si fermano a compiacersi del prodotto del loro sforzo? Quanti effettivamente si godono il giro della ruota panoramica della vita senza aspettare impazientemente il momento di scendere, per ritornare letteralmente “con i piedi per terra”?
È quindi da premiare l’atteggiamento di chi non si conforma a quello che viene venduto come un “sano” stacanovismo, poi sempre finalizzato al mero profitto, non cadendo in questo circolo vizioso che illude l’uomo di potersi divertire per assurdo solo nel momento della vecchiaia, sognando la pensione in una meta esotica che, nella peggiore, ma anche più realistica, delle ipotesi neanche sarà in grado di raggiungere, ammuffendo nelle quattro mura di un appartamento in centro perché troppo affezionato all’idea della propria carriera. Qui l’individuo è preda di una romanticizzazione e di un’idealizzazione della fatica lavorativa, che, in chiave meritocratica, infonde una nostalgia per l’impressione di essere utile alla società.
Dunque, è ora di sopprimere quel senso di colpa ingiustificato innestato da un tossico senso del dovere, che ostacola la creatività e che porta con sé la noia. Quindi sì, rifiutiamo di inebetirci, di ammorbarci in un lavoro che non ci appartiene, ma prendiamoci un momento per contemplare la volta stellata dell’esistenza: facciamo esperienza di noi stessi, sviluppiamo l’immaginazione e godiamoci quei piccoli istanti di libertà, perché liberamente li abbiamo scelti e liberi ci rendono. Camminiamo a passo lento, seguendo lo scorrere pacato della vita, e, citando De André ne “Il Fannullone”, “Non si risenta la gente per bene se non mi adatto a portar le catene”.
04/01/2024
Neppure noi sapevamo d’essere al mondo.
Sarà capitato a tutti, chi più chi meno, di sentir parlare, nel corso della propria giovinezza, di battaglie e conquiste, fortezze e cavalli, armi e cavalieri che le indossano. Ma ci si è mai chiesti chi si cela davvero dietro le corazze?
I nomi posseduti dai fanti di cui cantano le epopee sono sempre tra i più insoliti: Aglovale, Mordred, Loderingo... e Agilulfo. Quest’ultimo nome, che tanto ci ricorda l’Astolfo di cui scrisse Ludovico Ariosto, è proprio del prode paladino la cui storia è narrata da Italo Calvino nel suo romanzo “Il cavaliere inesistente” (1959), l’ultimo della cosiddetta “Trilogia degli antenati”. Questa storia si configura in un’epoca Medievale indefinita che prende forma tramite rimandi reali e luoghi di fantasia.
Ciò che distingue Agilulfo dagli altri combattenti lo si può evincere dal titolo del libro. Nel momento in cui Carlomagno, a capo dell’esercito, domanda al cavaliere di alzare l’elmo per mostrare il suo volto, ecco che al posto delle tipiche fattezze umane compare il nulla. Agilulfo, dunque, è un cavaliere che riesce ad essere presente grazie alla sua sola forza di volontà, nascosta dalla pesante armatura bianca e splendente che sfoggia con fierezza.
Per utilizzare un’espressione dello scrittore, è un cavaliere che non c’è, ma che sa di esserci.
Agilulfo è diverso dai suoi compagni d’armi non solo per motivi “estetici”; conferisce ordini e infligge punizioni, così come il protocollo cavalleresco comanda, inimicandosi gran parte dei commilitoni. Inizia dunque a risultare evidente il paragone che lo scrittore crea con la condizione dell’uomo contemporaneo: un uomo alienato, dedito ai doveri, incapace di concedersi un momento per poter esplorare il proprio mondo più intimo, con la costante paura di perdere il controllo delle cose. D’altronde la nostra vita è costituita da un insieme di distrazioni: più l’animo è tormentato, più queste crescono così che la mente possa restare quanto possibile “al di fuori”.
«A quell’ora dell’alba , Agilulfo aveva sempre bisogno d’applicarsi a un esercizio di esattezza: contare oggetti, ordinarli in figure geometriche, risolvere problemi di aritmetica. È l’ora [...] in cui si è meno sicuri dell’esistenza del mondo. Agilulfo, lui, aveva sempre bisogno di sentirsi di fronte le cose come un muro massiccio al quale contrapporre la tensione della sua volontà, e solo così riusciva a mantenere una sicura coscienza di sé.»
Il paladino nel corso del romanzo dovrà affrontare una serie di sfide, tramite le quali verrà a conoscenza del suo opposto, Gurdulù, che c’è ma che non sa di esserci, incapace di distinguere il sé dall’altro: l’uomo libero dal fardello dell’oggettività.
E i personaggi/tasselli che vanno a comporre il puzzle dell’umanità non sono finiti: ci sono Bradamante, la donna combattente, Torrismondo, causa prima dei tormenti del protagonista, Rambaldo, desideroso di vendicare la morte del padre, e così via. Tutti loro, a differenza di Agilulfo, sono tangibili. Eppure, la loro incessante ricerca di sé prosegue senza sosta, attraverso morali pratiche e assolute.
Calvino innesca innumerevoli interrogativi sorprendentemente attuali. Non esistono manuali che possano fornirci delle risposte oggettive alla problematica dell’essere. Tutti siamo, ma la consapevolezza di tale affermazione la si può acquisire solo con il tempo, e con un incessante lavoro interiore. Come si debba essere, sta al singolo individuo decifrarlo.
Conquistare l’essere significa trovare l’equilibrio.
Di certo bisognerebbe che ognuno indagasse a fondo nell’animo per ritrovare la propria identità, facendo attenzione a non piegarsi ciecamente alle regole del mondo.
Anche ad essere si impara.
04/01/2024
Il nome della rosa
Un libro che tutti vorremmo aver letto, o che raccontiamo di aver letto, ma che nessuno ha letto o ha voglia di leggere: un classico. Questo è Il nome della Rosa: un classico tra i più vicini a noi nel tempo ma almeno in apparenza tra i più lontani nei temi, un classico che parla in latino attraverso codici miniati e dispute teologiche, eresie insulse e abbazie medioevali. Un libro d'elitè, che fa spavento, e non mi sento di rimproverare chi si è tenuto distante finora da quelle pagine dense e avvelenate; tuttavia se siete ormai inseriti a dovere nel mondo della lettura, prima o poi gli scaffali della biblioteca dell'Abbazia diverranno un passaggio obbligatorio, e una volta dentro e poi fuori non resterete più alieni nelle chiacchere tra lettori, non ci sarà nemmeno bisogno di fingere di averlo letto per darvi un tono intellettuale.
“in nomine Rosae” viene rilasciato al pubblico nel 1980 (Bompiani) e nel 2020, ben quattro anni dopo la morte dell’autore, viene riedito dalla casa editrice fondata da lui stesso, La Nave di Teseo, con l’aggiunta dei disegni e degli appunti dello stesso Eco, realizzati al momento della prima stesura; ma è stato scritto a partire dal 1978, e benché ci introduca in tutt’altra realtà storica, l’autore traccia “di nascosto” un ritratto sfocato della società dei meravigliosi anni ‘70, a seguito del grande boom economico e demografico di quegli anni, un'edace occasione di avanzamento, un ansioso slancio di volontà di distaccarsi dagli anni della censura e del proibizionismo, ormai lontani.
Da studioso e intellettuale, Eco ha sviluppato tutt’altra coscienza: la consapevolezza dell’importanza degli anni passati, che potrebbe sembrare palese al giorno d’oggi ma che rare volte la massa si ferma ad ammirare: e gli uomini del basso medioevo dal canto loro poco a poco hanno dato vita alla memoria popolare di cui si compone la società odierna.
Nell'opera inoltre Eco ha infuso tutto il sapere e la passione derivatigli da anni di studi; per questo Il nome della Rosa oltre ad essere romanzo giallo, storico, gotico e filosofico è anche il mezzo con cui l’autore ci trasmette le sue numerose teorie sul medioevo, che vanno dall'analisi storiografica all'argomento teologico, trattato dagli stessi personaggi del romanzo.
Osserviamo la storia: in un classico stratagemma Manzoniano, un narratore di primo grado non esplicitamente associato all’autore ci introduce ad un manoscritto in lingua latina, scritto da un anziano monaco con nome cattolico di Adso da Melk, il quale sentendosi prossimo alla morte decide di comunicare ai posteri i fatti sibillini accaduti durante il noviziato, nel 1327, nell’abbazia benedettina di Santa Scolastica, nell’Italia del nord.
I personaggi, come in ogni giallo che si rispetti, sono delineati in tutti i loro vizi, le loro attitudini e inclinazioni; e il personaggio centrale, che Adso assiste durante l’indagine, è il brillante monaco francescano Guglielmo Da Baskerville (qui viene automatica l'associazione al celebre luogo dove è ambientata una delle prime indagini di Sherlock Holmes). Guglielmo è il maestro di Adso, e si comporta con lui in modo benevolo, rimproverandolo e prendendolo in giro; viene scelto dall’Abate benedettino Abbone da Fossanova per risolvere un tragico e a tratti blasfemo avvenimento che ha colpito l’abbazia: l’apparente omicidio di Adelmo di Otranto, miglior miniaturista dell’abbazia.
Col proseguire delle indagini, tra i corridoi, le celle, i chiostri e gli uffici dell'abbazia gli omicidi diventano sempre di più, e sempre più diabolicamente in linea con un'oscura profezia pronunciata dal monaco più anziano, sui sette giorni precedenti l'arrivo dell'Anticristo.
Il romanzo è appunto diviso in sette grandi capitoli che coincidono con i sette giorni passati da Guglielmo all'Abbazia, e ogni capitolo è scandito dalle ore tradizionali della giornata del monaco (mattutino e laudi, ora terza, ora sesta, ora nona, vespri, compieta): in questo lasso di tempo, la storia segue anche una seconda linea narrativa; infatti in quegli anni le tensioni tra l’Imperatore Ludovico il Bavaro e il Papa Giovanni XXII erano quasi sul punto di scoppiare, e il Bavaro al fine di uscirne vincente si era ingraziato i monaci francescani, sostenitori delle tesi pauperistiche che si opponevano agli ideali di ricchezza del Papa. Il francescano Michele da Cesena dunque viene messo a capo della delegazione imperiale che giungerà il terzo giorno per dibattere nell’abbazia (che in quanto benedettina è territorio neutro) con la delegazione avignonese del Papa, che arriverà il quarto giorno. Fra Guglielmo è un francescano e parteggia per la delegazione imperiale ma si mostra molto distaccato e lontano da qualsiasi secondo fine di ricchezza o potere, e il suo impegno principale è volto verso la risoluzione del caso: egli possiede ottime doti deduttive acquisite al tempo in cui svolgeva le sacre funzioni di inquisitore, e il suo intervento sarà indispensabile per calmare il litigio verso cui la colta discussione stava iniziando a pendere. Questa seconda linea narrativa si chiuderà con la partenza di entrambe le delegazioni e nell’incertezza, senza arrivare ad un accordo vantaggioso per entrambe le parti; questa serie di incontri tuttavia sarà importante per la maturazione del giovane e inesperto Adso, che porrà al suo maestro e ad altri monaci diversi interrogativi, e a seguito dell’incontro con Salvatore, monaco gobbo e deforme che parla un ensamble di tante lingue romanze, il novizio conoscerà la storia del cosiddetto “fiume ereticale” iniziata dal francescano Fra Dolcino, che riunì una setta di seguaci con cui occupare centri abitati di campagna e condurre una vita primitiva e blasfema agli occhi degli altri sacerdoti, che mandarono al rogo molti dei dolciniani.
Nel monastero oltre a Salvatore vi è un altro dolciniano, Remigio da Varagine, cellario, che sarà punito (in quanto ha portato una popolana all’interno dell’abbazia per ricevere favori sessuali) dall’inquisitore Bernardo Gui, capo della delegazione papale nel quale si può vedere un’opposizione naturale alla figura di fra Guglielmo, un ex inquisitore che ha scelto di proseguire la ricerca della verità escludendo l'autorità e la violenza.
Merita una menzione la biblioteca, luogo cui gira intorno tutto il mistero, la cui struttura interna è nota solamente al bibliotecario e al suo assistente, che dopo l’abate ricoprono la posizione più in vista nell’ambiente clericale.
I personaggi sono praticamente tutti monaci e, come asserisce l’abate, hanno il compito di essere i “pastori” del “gregge” (il popolo). Tuttavia ad un più attento esame ci si accorge che il romanzo strizza l’occhio al popolo, costretto nella sua ignoranza e nella sua semplicità a vivere alle dipendenze dei pastori; questi ultimi dal canto loro si rivelano spesso ipocriti e schiavi dei vizi che le loro vite appartate e le loro preghiere dovrebbero invece reprimere. all’interno della storia il popolo è rappresentato dall’unico personaggio esterno al mondo della chiesa: un'umile ragazza entrata nel monastero di soppiatto per offrire la sua virtù al cellario in cambio di cibo per la sua famiglia. Adso, ancora giovane e bello, sarà sorpreso da lei durante una veglia notturna, e la fanciulla gli si offrirà senza che il giovane casto potesse opporsi: sconvolto, l'apprendista si confesserà solo con il suo maestro, che non lo punirà e lo inviterà ad una riflessione più pronfonda.
Questo incontro è forse l'unico elemento poetico di tutto il romanzo, e rimarrà per sempre impresso nella mente del giovane, che alla fine del suo manoscritto descriverà la vivida immagine della ragazza che amò solo per una notte, “l'unico amore terreno della vita mia, di cui non seppi, né saprò mai, il nome”. Per i lettori però, troviamo forse un indizio nella sibillina formula di chiusura dell'opera: “Stat Rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus” ("la Rosa primigenia esiste solo nel nome, possediamo soltanto nudi nomi").
04/01/2024
<<Io penso che scandalizzare sia un diritto, essere scandalizzati un piacere e chi rifiuta il piacere di essere scandalizzato è un moralista, il cosiddetto moralista. >> dichiarava Pasolini nel 1975. Un’azione così delicata e potente non è solo un diritto, ma un privilegio, una responsabilità: in quanto tale, non va forse maneggiata con cura, utilizzata con scopo e coscienza? Un susseguirsi di scene disturbanti, una ambientazione gore, delle tematiche scioccanti, bastano per chi le utilizza, a ritenersi maestri di questa arte? Human Centipede (2009) di Tom Six, una pellicola irrilevante a livello registico e attoriale, è diventata nota tuttavia per le scene cruente. I protagonisti del film saranno vittime delle manie fantasiose di un medico folle che sogna da sempre di creare un millepiedi umano. Tom Six decide che un solo film non è abbastanza: crea infatti una trilogia, dove la trama ed il contenuto persistono, con qualche variazione per gli affezionati, ma il fulcro dei film non varia: essi si reggono in piedi solo per chi trova piacere nel vedere il gore. Come lui a cercare il disturbo nell’orrido c’è Spasojevic, che parla del suo A Serbian Film, (2010) come di una metafora per narrare le molestie che il paese riceve dal governo serbo. La pellicola, che è forse una della più censurate dell’ultimo decennio, racconta di una ex porno star che per una grossa cifra di denaro si convince ad accettare un ultimo lavoro, non sapendo però nulla della trama. Il protagonista verrà così trascinato in un turbine di violenze e orrori indicibili. A Serbian Film è una pellicola dura, esplicita, scandalosa e disturbante e sebbene il regista parli di allegoria, quest’ultima scompare dietro alle folli e disumane fantasie che Spasojevic sembra voler soddisfare. Pasolini parlò del diritto di scandalizzare in occasione dell’uscita di Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975). L’ultima opera di Pasolini fu lo Scandalo, di cui ne venne subito percepito l’immenso valore simbolico. L’allegoria è chiarissima: siamo ai tempi della repubblica di Salò e i Quattro Signori, un Duca, un Monsignore, un Vescovo ed un Giudice, saranno i seviziatori, aiutati da 4 ex prostitute, dei ragazzi e delle ragazze rinchiusi nella Villa per 120 giorni. La maestria del regista sta nello scandalizzare con uno scopo: Pasolini mostra il potere, quello fascista, quello borghese, che si impone, in questo caso sulla gioventù indifesa, ai soli fini del piacere. Lo stesso filone di denuncia storica si manifesta in una grandiosa pellicola del 1985 di Klimov. Come and see è un film che non necessita di quelle immagini di una violenza esplicita, brutale, scioccante: sono gli sguardi degli attori, l’ambientazione, il non detto e non visto che disturba lo spettatore. La pellicola è capace di raccontare la brutalità dell’invasione nazista in Russia tramite gli sguardi distrutti dal dolore e dalle violenze dei protagonisti, attraverso la follia prima idilliaca, come ricerca di evasione dal dramma della guerra, poi seguita da pianti disperati e da una maschera dell’attore protagonista sempre più grottesca e inquietante. Klimov disturba perchè racconta la verità nuda e cruda. Ma disturbare è un’azione spesso associata anche Lars von Trier, che non si tira indietro a farlo anche con il suo Antichrist (2009). Una pellicola dal forte valore simbolico, prende delle componenti quasi bibliche, apocalittiche, raccontando la storia di due coniugi che dopo la perdita del figlio, si rifugiano nella loro casa nei boschi, Eden, sperando di sistemare il loro matrimonio e di curare il dolore immenso per il lutto appena subito; la casa è la stessa nella quale la moglie ha scritto la sua tesi di laurea sulla persecuzione delle streghe nel medioevo e presto tutto arriva a prendere una piega sempre più oscura. Sorge spontaneo chiedersi chi sia l’anticristo per il regista e la domanda avrà una risposta entro la fine della pellicola. Lars von Trier non teme l’uso di scene raccapriccianti, ma in questa caso, sono quest’ultime a dare valore allegorico all’opera, ad impregnarla di sensazioni che scandalizzano, disturbano... per un motivo tuttavia: una riflessione, una provocazione. Dopo essere rimasta inutilmente disturbata dalla visione della trilogia di The Human Centipede, mi sono chiesta spesso quale sia il vero valore dello scandalizzare, quello di cui parlava proprio Pasolini. L’azione disturbante non può dunque essere fine a se stessa. Troppo potente, essa diventa una responsabilità del regista che ne fa uso: suo diritto e suo dovere è quello di disturbare con causa. La meraviglia dell’essere disturbati sta nel trarne il valore allegorico o nel comprendere il fine del regista, che ci provoca una ferita, per imparare da essa, fino a coglierne il piacere.
04/01/2024
“L’Universo non è altro che un sogno che sogna sé stesso.”
-Deepak Chopra.
Figli dell’Universo che ci circonda, siamo fatti della stessa sostanza delle stelle che vediamo la notte.
Siamo il risultato dei miliardi di anni di evoluzione dell’Universo che si affaccia sul suo passato, come se cercassimo di comprenderlo e di capire qual è il nostro ruolo all’interno del Cosmo.
Il primo passo per comprendere l’Universo è osservarlo; tuttavia ciò che ci circonda non è sempre visibile, o perlomeno non nella sua vera forma: diversi corpi celesti ci appaiono, almeno in parte, in bianco e nero, senza presentare i colori sgargianti che siamo soliti vedere nelle foto scattate dalla NASA (National Aeronautics and Space Administration) o dall’ESA (European Space Agency).
Quindi, come riusciamo a osservare il Cosmo attorno a noi? Da dove provengono questi colori? Come vengono ottenute le immagini in questione?
Sapevate che attorno a Giove ruotano quattro fasce di anelli? Non saranno grandi come quelli di Saturno ma sono comunque anelli formati da polveri e detriti, e, a differenza degli anelli del vicino gassoso, quelli di Giove non riflettono la luce solare, rimanendo così nascosti.
Tuttavia, quando osservati attraverso frequenze luminose infrarosse, invisibili all’occhio umano, gli anelli di Giove splendono.
Come appena accennato, dato che l’essere umano percepisce solo una minuscola frazione di frequenze emesse dai raggi di luce, di conseguenza anche la nostra percezione dei colori è fortemente ristretta, confinata agli estremi dal violetto e dal rosso; così, i colori all’esterno del nostro campo visivo ci appaiono in scala di grigi.
In realtà, tutto ciò che ci circonda viene recepito dal cervello come in bianco e nero, ma attraverso delle cellule dette “coni”, divise in tre gruppi a seconda della lunghezza d’onda che trattano, si forma nel cervello l’immagine a colori.
Anche per le fotografie del cosmo avviene un processo simile: quelle scattate dal telescopio spaziale Hubble, ad esempio, sono tutte in una scala di grigi poichè la sua funzione primaria è quella di misurare l’intensità luminosa dei corpi celesti, che appare più chiaramente in bianco e nero.
I colori sono aggiunti in seguito attraverso diversi metodi: uno dei processi è chiamato “filtraggio a banda larga” in quanto vengono prese di mira tre lunghezze generali della luce visibili all’occhio umano, corrispondenti ai tre colori alla base del sistema cromatico additivo: rosso, verde e blu.
Così, facendo uso di filtri che permettono il passaggio solo di una certa lunghezza d’onda alla volta, vengono scattate tre immagini che una volta colorate grazie a software come Photoshop, sono sovrapposte l’una sull’altra, dandoci come risultato una foto nitida e a colori!
Tuttavia, le immagini non sono colorate solo in base a come l’occhio umano le vedrebbe se fosse potente quanto un telescopio spaziale… gli scienziati fanno uso dei colori anche per identificare come diversi gas interagiscono tra loro nell’Universo per andare a formare galassie e nebulose.
Telescopi spaziali come l’Hubble e il James Webb, facendo uso di accessori che permettono la visione di lunghezze d’onda invisibili all’occhio umano, sono capaci di tracciare delle frequenze di luce provenienti da singoli elementi e usare i colori in cui sono visibili naturalmente per evidenziarne la presenza in un’immagine, seguendo il metodo chiamato “filtraggio a banda stretta”.
I principali elementi presi in analisi sono idrogeno, zolfo e ossigeno, i tre più importanti componenti nella formazione delle stelle. Possiamo osservare questo processo in immagini famosissime come “I Pilastri della Creazione”, foto scattata dall’Hubble, nella quale distinguiamo degli immensi agglomerati verticali di gas e polveri simili a dei “pilastri”, come suggerisce il nome, che formeranno col passare del tempo nuovi sistemi solari.
Tuttavia queste immagini non rispecchiano i loro veri colori… sono più delle mappe colorizzate, perché idrogeno e zolfo sono visibili naturalmente nella luce rossa, mentre l’ossigeno in una frequenza tendente al ciano, per questo motivo colorando le immagini seguendo quest’ordine si otterrebbe come risultato una foto particolarmente rossastra, non utile per un’analisi visiva dei gas.
Così gli scienziati si trovano costretti a separare lo zolfo dall’idrogeno, riassegnando gli elementi in base alla loro lunghezza d’onda: questo significa che all’ossigeno, che ha la frequenza più alta, verrà assegnato il colore blu, all’idrogeno il verde e allo zolfo, che ha la frequenza più bassa, il rosso; ottenendo in questo modo un’immagine pienamente a colori.
Un altro elemento molto importante da considerare quando si scatta un’immagine astronomica è l’uso di accessori allegati alle fotocamere dei telescopi che permettono la visione di luce infrarossa e ultravioletta, come già introdotto precedentemente.
Ad esempio il JSWT (James Webb Space Telescope), telescopio spaziale che orbita il nostro pianeta a un milione e mezzo di km di distanza dal recente 25 dicembre 2021, è fornito di quattro accessori che gli permettono di vedere lunghezze d’onda a noi invisibili, in questo modo è possibile vedere per esempio cosa si trova celato da dense nuvole di polvere e detriti, permettendoci così di osservare un’infinità di ammassi stellari, o come nel caso degli anelli di Giove, corpi che non splendono nella luce a noi visibile.
La sua funzione appunto è quella di analizzare approfonditamente il cosmo grazie alla modalità infrarossa, analizzando la formazione delle prime galassie, stelle e pianeti extrasolari.
Un’altra capacità del JWST è quella di identificare determinate molecole osservando l’atmosfera di un pianeta, caratteristica che è risultata fondamentale per la recente scoperta di diossido di carbonio (comunemente chiamato “anidride carbonica”) nell’atmosfera di un esopianeta (pianeta esterno al Sistema Solare), molecola che sulla Terra viene prodotta come scarto da esseri viventi marini.
Il suo collega invece, l’Hubble, presenta tecnologie meno all’avanguardia in quanto più datato, il suo lancio infatti risale al 1990, quattro anni dopo il disastro del Challenger, nel quale morirono sette astronauti.
Il telescopio rappresenta così per la NASA un modo per redimersi, anche se rivelatosi inizialmente un fallimento per via di una minuscola imperfezione; tuttavia tre anni dopo, in seguito a una difficile manovra di manutenzione condotta nello spazio, risultò un capolavoro ingegneristico che apriva le porte a un mondo totalmente nuovo.
Lo scopo dell’Hubble era scoprire l’età dell’Universo e grazie a lui attualmente sappiamo che è di circa 13.8 miliardi di anni.
In sintesi, l’essere umano è fornito di macchine potentissime come il cervello e gli occhi, che tuttavia non bastano in alcuni momenti dove ci si confronta con qualcosa di più grande come l’Universo, e, per far fronte a questo problema, dove non arriva l’uomo arrivano le sue invenzioni, che rendono visibile l’invisibile e possibile l’impossibile.
04/01/2024
Cos’ è l’ Industrial Music e da dove partire per ascoltarla.
L’ Industrial Music, nata in Inghilterra a metà degli anni settanta e battezzata cosi dal musicista Monte Cazazza proprio con il motto “Industrial Music for industrial people”, è stato ed è ancora oggi un fenomeno dirompente, talmente tanto da essere stato spesso frainteso e venire relegato in quella che è definita la “Grey Area” della musica. In pochi, soprattutto ai giorni nostri, conoscono il genere o si sentono di avvicinarvisi più approfonditamente, spesso definendolo disturbante o privo di senso. Ma c’ è sicuramente qualcuno che, per gusti personali o per semplice curiosità verso le innumerevoli sfaccettature della storia della musica, prima o poi si chiederà: “ma che cos’ è l’ Industrial?”
Ebbene, dal punto di vista prettamente tecnico, la musica Industrial si presenta come un genere di rottura rispetto a tutto ciò che era venuto nei decenni precedenti, sfrutta i nuovi linguaggi della musica elettronica portati in auge dai Kraftwerk nella Germania di inizio anni ’70 e li ripropone in una chiave che va a destrutturare completamente la forma canzone tradizionale: non si tratta più di brani, ma di componimenti, nei quali si dispiega una vasta gamma di campionamenti di suoni di oggetti comuni, stridii metallici e sonorità tipiche dei sintetizzatori dell’ epoca, mentre la voce ricopre un ruolo marginale, limitandosi, senza cantare, a “recitare” testi spesso insensati o ripetitivi, o addirittura viene semplicemente campionata e usata come mero strumento aggiuntivo a quelli già presenti.
Dal punto di vista delle personalità coinvolte, l’ universo industrial è uno dei più articolati, ma se ne si vuole approcciare l’ ascolto, il punto di partenza non possono che essere i Trobbing Gristle.
Genesis P-Orridge, Cosey Fan Tutti, Cris Carter e Peter Cristopherson, quattro ragazzi inglesi appartenenti al gruppo COUM Transmissions, che sentono che i tempi sono maturi per unire tutte le loro conoscenze per creare qualcosa che sconvolga la musica popolare. Nel 1975, quando anche le sonorità hard rock ormai erano diventate di routine, cambiano nome in Throbbing Gristle e fondano l’ etichetta Industrial Records; nel 1976 pubblicano l’ album “20 Jazz Funk Greats” , considerato il capostipite del genere , con il quale il gruppo inglese pone come base tutte quelle soluzioni formali che caratterizzeranno il genere fino a oggi, e che verranno rilette e ampliate da innumerevoli gruppi, tra cui sono consigliati i Cabaret Voltaire, a loro contemporanei, che soprattutto con l’ album di debutto “Mix Up” del 1979, propongono i medesimi elementi in una luce più cupa e vagamente vicina allo stile Goth che anche stava nascendo in quegli anni.
Il principio di disgregazione delle forme esistenti alla base della musica dei Throbbing Gristle venne esteso dal gruppo a concetti come l’ esibizione dal vivo e l’ idea stessa di “Band”: per quanto riguarda il primo punto, i loro live erano esibizioni che mescolavano musica e performance di arte sperimentale al limite del disturbante e che spesso allontanavano il nuovo pubblico inorridito, mentre a proposito del secondo, fu proprio il gruppo inglese a introdurre l’ immagine che abbiamo di “band” non come un insieme fisso di persone guidate da un frontman di riferimento, ma come un’ entità fluida, in continuo mutamento, spesso formata anche da membri non musicisti.
Questa nuova concezione di band come collaborazione, come “collettivo”, sarà indicativa di buona parte del vasto universo industrial degli anni a venire. Dalle ceneri degli stessi Throbbing Gristle si formeranno gli Psychic tv, ma questa tendenza caratterizzerà anche gruppi del panorama post- industrial, come i Coil, sul finire degli anni 80 e i grandi collettivi appartenenti al Neofolk (su tutti i Current 93), un genere che all’ Industrial deve moltissimo.
Infine, se si vuole un’ interpretazione un po’ più poetica, l’ Industrial music si può vedere come la fusione e il compimento delle avanguardie artistiche dei primi del ‘900: è l’ insieme di idee visionarie del futurismo, è la volontà di ribaltare la realtà e l’ ordine costituito del dadaismo ed è la realtà alternativa dopo il ribaltamento offerta dal surrealismo.
04/01/2024
Nicole Della Santina
.
La morte ci prenderà di giugno
che si fa vespro e ci si illude di fresco
si respirerà meglio e a polmoni pieni
di soppiatto scivolerà tra noi
mi prenderà per mano, sostituirà la tua
un’ombra scura mi accecherà gli occhi
non avrò paura, riconoscerò il tuo odore
un profumo di talco leggero che mi porterà indietro
fingerò di non capire, stordita chiuderò gli occhi
dovrò dirti addio, una prima volta che varrà ultima
.
Se il sole asciuga ogni lacrima di sale
sul mio corpo ormai bruno
e secca la volontà e certe beltà,
passa la smania di vivere appieno
e nell’ardore di mezzogiorno mi abbandono
ad un saluto ben più lieto
ma so è che tenera è la notte
e umida, fresca e profumata di muschio
accorrerà ad allietarmi,
con mani premurose e gelide
e sulle mie tempie porrà due baci
e attorno al collo madido
mi avvolgerà una brezza,
io so che tenera è questa notte
e così le sue sorelle
e che al calar del sole rivedremo sempre,
sempre le stesse stelle.
.
Vorrei essere una di grandi parole,
di calma e di sale,
una statua ferma, immobile a tutto
vorrei che i gatti riposassero tra le mie gambe
e che le stagioni non mi sciupassero così
ma solo dopo lungo tempo
ferma in una piazza sotto il sole,
con un’armatura e a cavallo
osservare i bambini giocare e le tate loro
i vecchi seduti e i piccioni a terra
e sono invece collerica e avventata
le stagioni mi distraggono e i gatti mi evitano
nessuno riposa con me dopo la rabbia.
.
capisco ora
perché i soldati abbandonano
armi ed armatura
finiscono per uccidere il cavallo
e si allontanano dalle truppe
perché a questa tristezza
a questo sentimento, disgustoso
che non conosce modi
e che mi lacera la bocca
non posso dire nulla,
non so come ribellarmi ad una tale violenza
e non c’è riposo neanche per la mia ombra.
Martina
1.
danzai sui tavoli, in un velo leggero e candido:
accarezzata dalla sinfonia, mi sciolsi sotto il tenero sole.
rimase un cumulo di parole non dette,
sabbia cocente.
ci giocano ora i bimbi
a cui il mare sussurra all’orecchio.
è il verbo morto a risorgere in primavera.
2.
è il corpo nello specchio,
aldilà dell’equilibrista tremante,
ad intercedere nel brutale risveglio.
eccolo, che mi guarda con disprezzo,
sbeffeggiante, mi sfida.
il riposo della quiete, scosso dal suo riso.
mi graffia, mi sputa, mastica ed ingoia,
una danza spasmodica in punta di un filo teso.
posso solo cadere, non volare.
3.
il signore che fuma al bar oggi mi sembrava triste,
lasciava le sigarette a metà.
ma io non osservo, guardo per sbaglio
e tutto mi piove addosso.
come ad esempio il cono gelato a terra in corso vercelli:
sembrava piangere fragole.
le tue lacrime invece sono cristalli:
ecco, la bellezza che mi uccide ancora.
4.
ti invito al viaggio,
in quel paese che ti somiglia tanto.
i colli innevati profumeranno di fiori,
i cieli si bagneranno dello spirito del mare,
l’alito del vento avrà la stessa brezza
dello spirito delle tue parole.
laggiù, regnerà il caos dell’anima tua,
accesa dal fuoco della vita,
non ci permetterà di bruciare,
spenti dalle acque placide
sgorganti, dei tuoi occhi.
ci riposeremo sulle nuvole,
anche la roccia sarà giaciglio su cui stendersi ebbri della tua essenza.
moriremo bruciati dal sole
su un lago di grano,
all’apice della bellezza terrena.
(ispirata da Baudelaire, fiori del male)
04/01/2024
a F.
ἔγω τε γαρ φιλην μ' ἇς κεν ἔνη μ' ἀυτμή’.
Saffo
Dissacrante, spesso, appare visitare luoghi liturgici nella notte scura, specialmente se da alcune vecchie bigotte son narrate antiche leggende per tener lontani i bambini dai loro traditi crocifissi. Sulla Certosa di San Lorenzo in Padula si raccontava di fantasmi, monaci sepolti nei giardini e che continuavano nell’esercizio del motto “Stat Crux dum volvitur orbis”. Quella notte del ‘61 era anche più terribile: la luna era timida, le stelle erano scese in pellegrinaggio sulla Terra e la natura era silenziosa ma attenta. Leandro percepiva piccoli occhi, viscidi come zampe di ragno sul suo collo, alle spalle. Era in scacco, impigliato in uno scacciasogni, tuttavia non temeva nulla, pieno del coraggio di un ragazzetto undicenne che ha scoperto i fuochi fatui in un cimitero di periferia. Era tardi e lui, in atteggiamento di preghiera, pregava non come farebbe un lupo alla luna, bensì in modo ascetico e nostalgico. Fumava, ma la bruma che nasceva dal suo respiro nel buio era invisibile. Un po’ come lui, nato solo al mondo. Fumava, senza contare, senza curarsi del male, come sul balcone della casupola borghese in cui viveva la nonna, dove ogni tiro era un senso di colpa nei confronti di una donna che era tanto ostile al tabagismo quanto alla depravazione della carne. Fumava ed esorcizzava pensieri: tanti viaggi ed esperienze varie alle spalle, ma anche una promessa, una cattedra al liceo del paese, sufficiente per richiamarlo alle radici. Quanto odiava quelle radici, o forse solo le pensava lontane. Gli parevano un randagio. Il paesello aveva l’andamento di un moribondo, solo la solitudine nostalgica nel cuore lo rendeva simile a lui: il rimpianto di un amore materno, perduto al primo vagito, in qualche viscida e appiccicosa cantina. Non pensava mai a sua madre, e suo padre gli compariva solo in sogno, come antidoto. Aveva solo sua nonna, sempre rinchiusa nella chiesa greca di fianco alla casupola. Gli veniva in mente un uomo, ancora sconosciuto, ancora astratto e distante: pensava alle sue labbra e al proiettile che in canna era pronto ad assassinare il cuore. Era solo, Leandro, e ne soffriva, ma non perché non si bastasse, voleva condividersi. Sull’amore aveva letto molto, e per quanto nei suoi viaggi il corpo avesse conosciuto i più voluttuosi piaceri, non era mai stato innamorato, schiavo di un cuore ibernato. Era molto tardi, il freddo stava gelandogli il naso, troppo all’insù; dormire sul prato non ancora imperlato di rugiada non gli sembrava un’idea poi così cattiva, ma cosa avrebbe pensato sua nonna al suo risveglio, dopo la prima preghiera, alla vista del letto intatto? In più, qualche ora più tardi
sarebbe entrato in ruolo, ricoprendo la cattedra di italiano e latino a tempo indeterminato. Chissà - si chiedeva - se sarebbe stato un fiato in un flauto che è sfiatato o avrebbe fatto piangere parole di giovani studenti.
Su Padula sorse l'alba e Leandro abbandonò la Certosa per tornare nella casupola di famiglia a disfare il letto e fingere di aver dormito tutta la notte. A colazione baciò la nonna e si fece offrire un caffè nero bollente, gorgogliato nella moka arrugginita. Di mattina non amava parlare e all’insistenza della nonna rispondeva con noia. Le mentiva, le mentiva molto, nascondendo ciò che è stato, che è e che sarà. Uscì di casa, sospirò, estrasse una sigaretta dal pacchetto di Gauloises Caporal blu, l’accese con melanconia, diede un rapido sguardo al pacchetto con l’elmo gallico alato e in bocca smorzò il loro slogan: “Liberté toujours”. Messo il pacchetto nella tasca destra interna alla giacca, infastidito dalle lunghe salite da percorrere per raggiungere il liceo scientifico statale, in via Salita dei Trecento, si incamminò. Certo, avrebbe potuto usufruire del servizio pubblico comunale, ma come poteva sopportare il tanfo dell’ipocrisia, della falsità, del mal comune mezzo gaudio emanato da sempliciotte galline putride in vecchie gabbie di ferro e contadini con gli stivali di gomma sporchi di letame? Era un idealista, ma lo divenne per sopravvivenza. Di essere inadeguato non ne fu mai spaventato, pensava però in modo ostinato a come fosse vestito: una giacca a motivi tartan verde salvia con ricami ocra, una semplice camicia operaia pastello celeste, una cravatta acqua inquinata, annodata male, forse troppo lunga, (d’altronde non gliel’aveva mai insegnato nessuno), pantaloni grigi e scarpe di cuoio Adrian Loafers, un Loden tirolese a pelo corto e una ventiquattr’ore appartenuta al nonno, maestro prima della guerra, l’unico uomo a far vacillare la fede corrotta della vecchia nonna. Non aveva più tempo per dare adito al suo fioco narcisismo: era arrivato. Un’altra sigaretta per allentare la tensione che in realtà non aveva, gettato il mozzicone nel tombino ed ignorando le lingue pulite degli studenti che arrivavano, varcò l’ingresso.
Il liceo non era poi così buio come si immaginava, lo erano le bidelle, mummie immobili che gli riservavano i più freddi e statici saluti, come fossero state vinili infiniti. Solo una faceva eccezione: era giovane, una messa in piega bionda, truccata e con tanti gioielli da sembrare gitana, forse alta all’incirca un metro e sessantacinque, Sabrina o forse Simona, con un seno che faceva cadere i professori dalla cattedra quando portava il caffè. Su di lui, tuttavia, le sue mani, le sue risate forzate ed il profumo di fiori non avevano potere, anzi ne era infastidito. Per lui quelle mani erano viscide, il profumo era di fiori imputriditi e non riusciva a ad ignorare l’alluce valgo che le
spuntava dal tacco. La campanella segnò l’inizio delle lezioni e i corridoi erano già svuotati dalle mandrie di studenti.
Leandro si avvicinò alla bidella più ossidata e le domandò dell’aula IV B; alzando lo sguardo dalla rivista femminile “Burda”, un’edizione del ’57, la vecchia, odiandolo per averla scossa dal letargo, indicò l’aula al professore. In quel momento il preside si materializzò alle spalle di Leandro e gli andò vicino per stringergli la mano. Il preside gli apparve un uomo ordinario, era sì alto, ma aveva la forma di un’anfora, abbellito da un completo di bottega veneziana nero. Le mani erano pelose come quelle di un uomo ignorante e la sua stretta era così molle da fargli intuire si trattasse di un uomo debole.
Il preside lo salutò come se gli avesse offerto l’occasione della vita, quella della statica vita statale, ma da Leandro in cambio ebbe una smorfia facciale di un nano secondo. Lo condusse nell’aula e, una volta arrivato, Leandro si chiese come mai proprio a lui fosse toccata quella più cupa; venne lasciato sulla soglia, come se il Preside avesse timore del giudizio delle giovani menti.
Leandro entrò e improvvisamente il baccano che poco prima invadeva il corridoio morì. Salì sulla pedana e, gettata la ventiquattrore sulla cattedra, guardò i volti dei ventitré ragazzi in piedi. Non disse buongiorno, si sedette e iniziò a parlare di Virgilio. Si aspettava di annoiare, di suscitare sbadigli, ma i ragazzi ascoltavano attentamente ogni parola, facevano domande e alla fine della prima ora il rappresentante di classe ringraziò il professore. Suonò la seconda campanella, Leandro invitò il figlio del sindaco a leggere in metrica la seconda bucolica, cercò nella tasca interna della giacca il pacchetto di sigarette e se ne accese una, l’ultima. Inorridito dalla lettura del ragazzo gli chiese di andare a comprargli le sigarette, due pacchetti di Gauloises Caporal blu, al tabacchino vicino la scuola. Si alzò in piedi ancora fumando e scrisse alla lavagna “Chi è l’omosessuale?” e la lesse con la sigaretta in bocca, una mano in tasca e l’altra che impugnava il gessetto. I ragazzi avevano letto la seconda egloga ma non avevano osato fare commenti sull’amore di Coridone per lo schiavo Alessi. Quella domanda aveva indignato qualcuno, imbarazzato altri, e iniziò un vociferare assordante. Leandro fece cadere la sigaretta a terra e spegnendola con il piede emise uno schiocco che fece tornare il silenzio. Chiese di nuovo con voce stentorea: «Chi è l’omosessuale?». Entrò il figlio del sindaco con i pacchetti e il resto, li lasciò sulla cattedra e si sedette. Leandro, non ricevendo risposta, dato che il ragazzo appena entrato stava chiedendo spiegazioni sulla scritta alla lavagna, gli chiese: «Tu, sì tu, chi è l’omosessuale?». Il ragazzo si alzò in piedi e disse: «L’omosessuale è l’abominevole figlio del diavolo, l’essere che insulta il crocifisso alle sue spalle e i valori che rappresenta, è l’invertito che
sconvolge la natura e si crogiola come un porco nella palude che è lo schifo della gente». Leandro rise, pensò che erano proprio parole da figlio di un sindaco del MSI. Tutti sembravano concordare con il ragazzo che, nel frattempo, si era seduto di nuovo, quando all’improvviso una ragazza, Marcella, figlia di un mugnaio di un paese vicino, iniziò a piangere. Leandro non riusciva ad essere duro alla vista di lacrime adolescenti che erano come cascate di cristallo e così la invitò ad alzarsi e a condividere con la classe le sue lacrime. Recuperata la dignità, la ragazza iniziò a raccontare di come suo padre avesse tradito più volte sua madre con uomini, e di come, una volta scoperto che si era suicidato, lei lo avesse perdonato e come gli mancasse.
Per la prima volta da quando era entrato, la classe iniziò a brillare, ma non durò molto: gli altri studenti iniziarono a ridere e a schernire la ragazza facendola scappare piangente dall’aula. Il volto di Leandro si congelò e divenne così duro che tutti abbassarono il capo smettendo all’istante. Solo il figlio fascista del sindaco non si sentì intimorito. Il ragazzo venne fatto andare alla lavagna e costretto a scrivere allo sfinimento: “Io sono un omosessuale”. Leandro sapeva dei guai in cui si stava cacciando ma continuò a spiegare fino alla fine del giorno scolastico. Aspettò che tutti gli alunni fossero usciti dalla classe, sistemò i suoi libri nella ventiquattr’ore, si accese una sigaretta e attraversò il corridoio, ignorando il civettare della bidella bisbetica con i suoi colleghi e in un attimo fu fuori dalla scuola. Non aveva fame, raramente mangiava a pranzo, si fermò ad un bar per prendere un caffè amaro e subito si diresse verso la Certosa. Si fermò, come sempre, ad ammirare la luminosa facciata: che serenità gli trasmetteva il movimento della fascia marcapiano aggettante, dovuto a tre architravi figli di massicce colonne doriche! Salutava con sguardo devoto le statue a tutto tondo, allocate in nicchie a finestre, dei quattro santi, per lui unici amici di una vita. Salutava San Bruno, di cui amava il teschio, che per Leandro era la rappresentazione cosmica dell’individuo in quanto sede del pensiero e dell’αὐτάρκεια. Considerava il teschio alla pari della volta celeste, essendo all’apice dello scheletro, comprendente la materia imperitura del corpo, l’anima e l’energia vitale. Leandro ricordava di aver letto un passo di Livio che scriveva dei Galli Cisalpini nel 216 a.C.: essi tennero un’imboscata all’esercito romano dell’ex console Postumio e, una volta sconfitto, portarono via la testa del magistrato e il bottino. Adornarono il cranio con oro secondo la loro usanza e servirono libagioni festive come fosse vaso sacro o coppa per i custodi del tempio. Salutava San Paolo, per lui spada e fune. Quanto avrebbe voluto che il Santo lo cingesse, donandogli concordia, e San Pietro con le sue chiavi, che Leandro sperava potessero aprirgli le porte della biblioteca della conoscenza. Salutava San Lorenzo, a cui abbassava il capo, un gesto per farsi perdonare quanto recita il famoso aforisma «Episcopi et presbyteri et diacones incontinenti animadvertunt». Il Santo gli è sempre apparso mendicante e gli avrebbe dato tutti i
suoi pochi averi, ovvero la casupola borghese, per far sì che avverasse i desideri che nell’anonimato della notte gli sussurrava. Dopo qualche minuto, Leandro si recò nel cenacolo con i Santi, dove era solito congedarsi, per sfuggire dalla realtà e rifugiarsi nei giardini, il cui ingresso era alla sinistra della facciata. Pian piano che si avvicinava, non riusciva a non adorare la Madonna che svettava tra due angeli al centro della corona della facciata, ai cui piedi giaceva un cartiglio recitante “Felix coeli porta” che lo rassicurava e, ogni giorno di più, lo convinceva di quanto per lui fosse locus amoenus, grembo materno. I suoi pensieri svanirono solo quando si sedette all’ombra di un ampio faggio, il solito, verso cui lo dirigeva centrifugamente una forza del movimento circolare del suo sesto senso. Sospirando i versi virgiliani: “Deus nobis haec otia fecit”, prese dalla ventiquattr’ore i testi che avrebbe dovuto spiegare il giorno seguente. Quando leggeva non c’era passante o turista che potesse distrarlo. Quel giorno, però, sentì tre rombi di una Benelli leoncino del ‘56 e il rumore del motore che si spegneva. Dalla moto scese un uomo della sua età, forse un anno più grande, vestito con una giacca di pelle color cammello, una polo nera nascosta nei jeans a vita alta. Non portava calzini sotto i mocassini, infatti si intravedeva la caviglia. Aveva il ciuffo scompigliato dal vento e degli occhiali da sole Bugatti. Come lo stava odiando, Leandro, in quel momento: era così fastidioso, rumoroso, sicuro di sé. Leandro decise di fingere non curanza, e continuò a leggere. Il motociclista iniziò a chiamarlo: «Salve! Professorino, lei! Non mi sente?!», ovviamente Leandro non alzò il capo, girò la pagina, si accese una sigaretta, ma non rispose. «Non mi faccia venire fin lì, mi sporco i mocassini nuovi!» continuò il bel motociclista. «Per Dio!» esclamò e accelerò il passo, facendo suonare le pietracciole sul sentiero sterrato. Stava raggiungendo Leandro, che intanto aveva finito la sigaretta e la pagina, e una volta arrivato gli strappò il libro di mano. Il volto del giovane professore diventò ebano: era furioso, si alzò di scatto e gli tirò un destro che colpì in pieno il volto del motociclista, ne tirò un altro e un altro ancora, iniziò una lite tra i due che terminò quando furono entrambi a terra. Il motociclista, con le mani bloccate da Leandro che era sopra di lui, a due pollici dal suo volto, aveva l’affanno. Leandro si gettò di lato e si ripresero così, fianco a fianco. «Che caratteraccio, mi perdoni!» cominciò di nuovo il motociclista, «Ma chi è lei?» finalmente rispose Leandro che, di nuovo infastidito, si alzò, riprese il libro e con la sigaretta in bocca si tornò a sedere. Il motociclista, imperterrito, si andò a sedere vicino a lui e con tono ironico disse: «Buonasera chiarissimo professore! Può, se non le arreca disturbo, concedermi udienza?». Leandro chiuse il libro sbattendolo e infastidito rispose: «Cosa vuole?». A quel punto, il motociclista con sorriso soddisfatto si presentò. Si chiamava Francesco. - Che nome idiota! - pensò Leandro. Veniva dalla Puglia e stava girando il mezzogiorno in moto; voleva sapere dove avrebbe potuto trovare delle guide che gli spiegassero un po’ quella chiesa in cui era incappato viaggiando. Leandro gli
rispose: «Intanto non è una chiesa, è un monastero, e poi non troverai guide se non ignoranti paesanotti che inventeranno mitiche leggende al momento».
«E perché non mi fa lei da guida?» chiese il motociclista, e lui con una fredda risata ribatté: «Perché dovrei? Dopo l’incontro che abbiamo avuto è già tanto che le stia rispondendo». Il motociclista allora: «Deh, si vede che lei è dimezzato». «Come il Visconte?» disse il professore ridendo ma, notando il dubbio sul volto del motociclista, lo invitò a lasciar perdere. «Dicevo, lei è dimezzato e se ha voglia di condividere la sua conoscenza in cambio le comprerò un pacchetto di sigarette e se vorrà le farò fare un giro in moto». Le parole dell’uomo lo infastidivano così tanto, ma nel suo volto vi era qualcosa che riusciva a scioglierlo. San Lorenzo aveva fatto il miracolo e così Leandro accettò: «Maledetto me, dai, andiamo!», disse. «Ma prima, come sapeva fossi un professore?».
«C’è anche da spiegare, vestito come mio nonno buonanima, sigarette francesi e libro di Virginio». «Virgilio, Virgilio! » corresse Leandro.
Leandro fu una guida senza pari, lo condusse nelle stalle, granai, pescherie, lavanderie, spezierie, nella foresteria antica, nel chiostro della foresteria, nella Chiesa e poi ancora nella sala delle campane, in quella del Capitolo, nella sala del Tesoro, nel chiostro del cimitero antico, nella cappella del fondatore, nel refettorio. Videro la cucina, il chiostro dei procuratori, la scala elicoidale, il Quarto del Priore, il cimitero dei Priori, le celle dei certosini e infine lo scalone ellittico. Tutto in un giro durato fino a tarda sera, tra aneddoti, leggende, storia dell’arte. Francesco non disse una parola se non alla fine «Wow! Grazie». Il motociclista comprò le sigarette, tre pacchetti di Gauloises Caporal blu e se ne andò. Leandro pensò si fosse dimenticato del giro in motocicletta, ma dato il suo orgoglio reale, non glielo ricordò. Si sedette sotto il solito faggio e aspettò l’alba. Fumando e pensando. Le sigarette avevano un sapore diverso e notò che il sangue del labbro del motociclista gli era rimasto sulle nocche. Non faceva altro che guardarlo. Si era innamorato? Certo che no, l’amore è furor, l’amore crea impalcature psicologiche che portano alla morte.
La mattina seguente, come da agenda, tornò a casa intorno alle sei, disfò il letto, si vestì, fece colazione con il caffè offerto dall’insistente nonna, che di lui continuava a non conoscere mai nulla, e andò al liceo. Saliva Via dei Trecento fumando e non riusciva a non immaginare di come in fondo gli avrebbe fatto piacere un giro in moto con il motociclista, della sensazione che avrebbe provato abbracciandolo, nascondendosi dietro di lui per fuggire il vento. Quanto avrebbe voluto
tornare indietro per vederlo lì. Pensava a come era bello, gli sembrava quasi di toccarlo. Arrivato al liceo scosse la testa, quasi per esorcizzare diavoli tentatori e andò dritto in classe. Solite lezioni: Virgilio, Ovidio, Guinizzelli, Properzio; tuttavia, si rese conto che, nell’analizzare topoi amorosi, la sua mente non faceva altro che trasportarlo al pomeriggio del giorno prima e questi sentimenti lo terrorizzavano. Quella mattina, infatti, aveva fumato più sigarette del solito sperando avessero l’effetto dell’acqua fredda sul sogno, ma con scarsi risultati. Finite le lezioni raccolse i suoi libri, si accese una sigaretta e si diresse verso l’uscita. Nell’istante in cui Leandro girò il corridoio per uscire, con la coda del suo pronto occhio vide l’ombra del preside con un’ombra molto più piccola, quella del sindaco. Si girò per guardarli e, per quanto il preside fosse molto più alto del sindaco, sembrava in ginocchio nell’animo, tremava e cercava negli occhi socchiusi del professore aiuto. Leandro girò lo sguardo e fece per uscire quando sentì il passo pesante del sindaco rincorrerlo. Tuttavia, un passo più aggraziato e più veloce lo sorpassò, quello della bidella civetta, che accostatasi al professore e, toccandogli le spalle con voce erotica, gli disse: «Professore egregio, c’è all’uscita un bel motociclista che aspetta solo lei, vada!» e gli ammiccò. Appena la punta del suo naso fu fuori la scuola, sentì il suo odore: era Francesco. Si accostò alla moto e disse: «Cosa ci fa lei qui?». Il motociclista, sempre con quel genuino sorriso, rispose: «Pensava mi fossi dimenticato della sua ricompensa? Chissà come si è dannato il povero professore! Salti su!». Leandro, indispettito, ribattè: «Ma lei è pazzo! Chi si crede di essere?!». Il motociclista rispose in maniera seccata: «Si muova, salga, salga ho detto o giuro che me ne vado!»; Leandro si guardò indietro: vide il preside inerme contro il sindaco che indicava lui, osservò la scuola, gli studenti e dopo un sospiro, tra lo sconfitto e lo scocciato, salì sulla moto che subito sfrecciò via. Da lì l’aria era diversa, il maggese era diverso; le voci delle persone venivano macinate dal trambusto del motore e Leandro si sentiva davvero libero. Il motociclista si girò verso il professore invitandolo ad abbracciarlo dal momento che sarebbe andato più veloce. – Ecco! -, pensava Leandro, - Ora lo abbraccio e addio alla libertà in nome delle catene dell’amore -. La velocità ormai era insostenibile e fu costretto a stringerlo forte al petto. Forse si sbagliava: l’amore era l’unico modo per affrancarlo dalla schiavitù del suo dimezzamento. I due giovani viaggiarono per tutto il giorno, fino a Napoli, e non tornarono a casa fino alle sette del mattino seguente. Leandro si sentiva come un veliero la cui ancora fosse riuscita ad agganciarsi in mare aperto ad una rara barriera corallina.
Tornato a Padula, Leandro passò alla casupola solo per cambiarsi, poi scese al bar dove il suo giovane motociclista lo stava aspettando. Quella mattinata si sarebbe svolta diversamente dal solito: avrebbe preso comunque un caffè amaro e le sue Gauloises Caporal blu per colazione, ma
con Francesco non avrebbe avuto alcuna insofferenza nel parlare. Il giovane mangiava un cornetto, beveva un cappuccino e si sporcava tanto di crema sul naso, nel frattempo ascoltava Leandro che per lui era un libro onnisciente, biglietto per tutti i moli, stazioni o aeroporti. Mentre lui parlava, bastava chiudere gli occhi per essere ovunque ed essere immune e puro. Si era fatto tardi, Leandro aveva lezione e il motociclista si offrì di accompagnarlo ma il professore rifiutò. Fumava e sospirava, avrebbe voluto che le sigarette fossero il suo Francesco. Arrivò all’entrata di scuola e quell’insolito buonumore venne subito sublimato dallo sguardo di paura del preside e da quello bellico del sindaco. Leandro aggrottò le sopracciglia e con passo veloce raggiunse i due. Il preside iniziò il colloquio, sottolineando l’onore che avevano i due ad interloquire con il sindaco. Ci fu un momento di silenzio, probabilmente i due interlocutori speravano che Leandro aggiungesse qualcosa, ma prese solo la sigaretta dalla tasca e l’accese. In realtà Leandro non stava davvero ascoltando, pensava alla moto, al motociclista e alla fuga: programmava la sua evasione da quel mondo. La sua attenzione venne ridestata dalla voce ridicola del sindaco che cercava di intimorirlo. Pretendeva scuse, per lui, per figlio, per la scuola. Continuò per un po’, poi chiese: «Professore, allora, ha qualcosa da dire?», Leandro aspirò ed esalò il fumo, si diresse infine verso la classe. Sentì il sindaco dire: «Si vede, deve essere un finocchio!». Leandro avrebbe voluto girarsi, tirargli un destro, ma poi pensò al motociclista: a quale scopo cacciarsi nei guai per onore, quando fra qualche ora sarebbe potuto fuggire, via, lontano? Le ore fuggirono velocemente, si fece subito mezzogiorno. Leandro avrebbe staccato un’ora prima quel giorno e Francesco lo sapeva, infatti sarebbe andato a prenderlo. All’uscita, però, non c’era nessuno. Leandro consumò la prima, la seconda, la terza e la quarta sigaretta ma non arrivava nessuno. Dopo un’ora nessuno. Si sentì tradito e forse una parte di lui desiderava che fosse così, in modo da dirsi - Hai visto Leandro? L’amore è furor, stritola tutto e tu ci sei ricaduto. Bada, è l’ultima volta! -
Iniziò a scendere, per giungere in Certosa, quando vide la vecchia nonna, da tempo immemore perpetua, parlare con il parroco. Discutevano se celebrare o meno la morte di un finocchio. La nonna diceva: «No, Don Giuseppe no, niente funerale, già siamo beati nel tumularlo» e il buon parroco a lei: «Figliola, il buon Dio ama tutti, e considera le circostanze della morte». La vecchia, curiosa, chiedeva: «Come è morto?».
«Lo hanno buttato giù dalla moto, lo hanno portato in alcune terre sperdute, vicino il battistero paleocristiano a Fonti e lo hanno picchiato fino a ucciderlo».
«Va bene, va bene, non hanno fatto bene ma, parroco, non hanno fatto male. Come si chiamava?».
«Francesco».
Leandro, che nel sentire quel breviloquio si era pietrificato, morì dentro. Corse fino al suo faggio nei giardini e qui, sicuro tra le braccia dell’unica madre che abbia mai avuto, per la prima volta nella sua fredda e cupa vita, pianse. Leandro era un marinaio la cui vela era stata tradita dal vento. Aveva avuto un attimo di felicità che poi era presto svanito. La sua mano tremava ma aveva deciso di scrivere; a chi non lo sapeva, decise di non inserire destinatari. Tornò a casa, non era il suo orario, andò in camera da letto, chiuse la porta scricchiolante con una spinta molto forte sbattendola, consegnò quei fogli che aveva portato dalla Certosa alla scrivania.
Si accese una sigaretta…Odiavo la puzza dentro casa mia, ma non sapevo fosse la prima e l’ultima che fumò nella nostra casupola. Sentii un colpo di pistola, gettai i piatti in aria, avevo il cuore in gola, pensai i ladri, i briganti. Girai un po’ per le camere e aperta quella di mio nipote, non mi hanno retto le gambe, e sono esplosa in grida disperate e in un pianto che avrebbe potuto dare inizio alla Apocalisse. Solo dopo il funerale ho notato dei fogli raggruppati sulla scrivania, fra i libri latini e i pacchetti delle sue sigarette. Avevo gli occhi gonfi, Leandro rendeva immortali gli ultimi giorni qui raccontati, desiderava morire perché era già morto una volta, desiderava incontrare la madre, curarsi da una nostalgia durata una vita, desiderava abbracciare il padre, e non risvegliarsi dopo averci provato nel sogno, e avrebbe voluto incontrare Francesco per curargli le ferite. Chi non nominava son io.
Quanto avrei voluto morire, quanto cattiva, bigotta e insensibile son stata, quanto ho insultato il crocifisso tutti questi decenni. Ho tradito mia figlia e la sua promessa, suo figlio sarebbe dovuto essere il mio pegno d’amore, in me avrebbe dovuto ritrovare l’affetto materno, al mio collo sarebbero dovuti pendere gli abbracci. Avrei dovuto baciarlo, quando era in lacrime, baciarlo per lei, il peso della casa, della morte e del dolore mi schiaccia. Ho nascosto a lui le lacrime, le vaghezze, nella notte mi nascondevo dai sentimenti e all’effige del mio sposo parlavo come se avesse potuto rispondermi. Vorrei tornare indietro a quel bambino che è stato il mio dono, stringerlo di più in quei giorni in cui, Leandro, mi hai amato solo tu, in quei giorni in cui ero assente, non ci sono stata mai. Vorrei rivederti bambino, quando leggevo e fumavo, forse non ricordi ma io ero come te. Ma intanto se ne andavano i tuoi occhi e con loro ogni affetto, com’eri bello quelle sere e come sono ormai lontane, avrei dovuto cantare per farti addormentare ma le mie ninne nanne erano di dolore, di rabbia vera, di ombre e oblio. Nel paese, lo sai, si vive di lunghi letarghi, si tenta di aggrapparsi a qualunque zattera, lì fuori ci sono sparsi frammenti di anime povere, di lividi e mancate parole. Avevo smesso di scrivere, polsi legati mi dissi, ed eri tu a
scrivere per due, te l’ho trasmesso io, sai? Qui dentro il dolore è sempre stato un ospite usuale e mai l’amore, unica croce in questo inferno che fa male. Non ti ricorderò per le tue parole che mi hanno fatto piangere e riflettere, né per il tuo cuore verde, ti ricorderò per il tuo cuore quando di me aveva più bisogno, quando ti ho soffocato di notte i sogni, ti ricorderò quando ti frenavo i soffi dell’amore, quando dormivi con me e il nonno stretto al mio seno e ci svegliavamo quando le stelle tentavano di far guerra alle persiane. Sarai sempre il bambino da cui mi nascondevo sola in un angolo chiuso della chiesetta, fumavo anch’io un tempo sai, per non vivere, non avevo direzioni, non avevo porti o strade, non avevo cieli a cui arrampicarmi. Di te ricorderò i miei sbagli che non hanno scuse, le mie finestrelle sempre chiuse, la tua infanzia quando buttavo nel fuoco le poesie, i vinili e la magia. Non chiederò mai il perdono, né il tuo, né della tua dolce mamma né quello del Signore. Leandro, io ti ho perduto perché non mi sono mai trovata, sono caduta molte volte e quando sognavi non ti sfioravo perché avevo paure che purtroppo ti ho trasmesso. Ho incontrato spesso la morte, siamo amiche care, e presto dovrò anche io lasciare questa tenda, è quasi giunto il tempo di sciogliere le vele ma continuerò a camminare finché vedrò la luce. Affiora adesso alla memoria la povera storia della mia vita intessuta, attraversata da misere azioni di un ineffabile bene, azioni manchevoli, imperfette, sbagliate, insipienti e ridicole. Dio conosce la mia stoltezza, quest’avventura stentata, gretta e meschina ma devo far presto, fare bene, fare lietamente ciò che grazie a te, Leandro, ho capito e anche se supera immensamente le mie forze, curvo il capo e ruggisce il mio spirito, avrò coscienza della nostra natura e della nostra predestinazione. Il dolore mi uccide, e il rimorso mi consuma come Eco, io te lo devo e prima dell’umanità, devo partire da me, lasciare il crocifisso e rincorrere la verità.
Per sempre a te devota, la tua straziata nonna.
Padula 1961
04/01/2024
Molti di voi, probabilmente già conoscono o hanno visto lo Stool 60 e la Paimio Chair ma solo pochi di voi conosceranno il designer che c’è dietro. Alvar Aalto - nato a Kuortane nel 1898 e morto ad Helsinki nel 1976 - è sicuramente il più grande architetto e designer finlandese, ed è considerato uno dei padri del movimento moderno . Aalto divenne famoso in europa inizialmente proprio grazie al suo design. I suoi oggetti riscossero un grande successo, sia per l’eleganza delle forme , che per la semplicità dei materiali, realizzati con un elevato contenuto di tecnologia. Questo accostamento di arte e tecnologia è centrale nel movimento moderno e in tutta l’opera di Alvar Aalto, che quando si troverà a fondare una società di produzione di design la chiamerà proprio Artek, sintesi di arte e tecnologia.
Artek viene fondata nel 1935 da quattro giovani: Alvar e sua moglie Aino, Marie Gullichsen e Nils Gustav Hahl con l’obiettivo di produrre e vendere mobili adatti alla vita moderna. Seguendo questi obiettivi i coniugi Aalto svilupperanno due grandi famiglie di ogetti di design :
I mobili, nati dalla ricerca e dalla sperimentazione della curvatura del legno di betulla.
Le luci, realizzate principalmente in metallo.
Tutt’ora la casa fondata dai quattro giovani produce i capolavori del maestro finlandese.
Oltre alllo Stool 60 e alla Paimio Chair Aalto è conosciuto per la grande produzione di ogetti in vetro, tra cui il vaso probabilmente più famoso del mondo, il Vaso Savoy, che con la sua forma organica ed elegante racchiude in se le idee di Alvar sul design. In questo progetto, ma in generale su tutta la produzione di Aalto designer un ruolo fondamentale è stato svolto dalla sua prima moglie Aino. Il suo ruolo nella progettazione architettonica non è stato del tutto chiarito, ma è certo che il suo contributo nel design fu fondamentale.
L'interesse di Aalto per il design è dovuto non soltanto dalla sua capacità di progettista ma anche e soprattutto dalla sua attenzione per l’essere umano. Infatti è grazie a questa sua grande cura per i bisogni dell’uomo che riesce a sviluppare un linguaggio innovativo nel design e parallelamente in architettura, un linguaggio che riesce ad essere allo stesso tempo personale ed universale. Non è un caso se i suoi oggetti più famosi sono stati concepiti all’interno di progetti architettonici, ad esempio la paimio chair è stata progettata espressamente per l’omonimo ospedale. Nella sua ricerca costante di nuove forme, nuovi materiali e nuove funzioni Aalto ha aperto la strada a tutte le future generazioni di designers.
04/01/2024
L’agnello di Dio
Può la vita di un uomo venir condizionata, dettata e scandita dal vivere pulsante di un altro essere? Fino al compimento dei miei 17 anni, quando un forsennato e atavico cattolicesimo mi pervase e mi spinse ad adorare Dio con ogni mia vibrante fibra, avrei risposto di no. Poi, però, in una calda domenica di settembre, vidi i miei desideri più viscerali e profondi incarnarsi in Ester.
La mia benedizione terrena, il fuoco dei miei lombi, inginocchiata al primo banco della nostra chiesetta pungente di stantio. Pregava in silenzio, meravigliosamente anacronistica, fasciata in un antico d’un bianco liliale lungo fino alle caviglie, avvolta di una pudicizia quasi blasfema. All’inizio non scorsi molto di lei se non una cascata di liscissimi capelli castani, lunghi fino alla vita, e la suola consumata dei sandali. Mi stupì che una ragazza così giovane fosse seduta alla prima panca; io ero solito sedermi dietro, troppo intimorito dal cero e dalla croce accanto all’ara, deciso a mantenere le mie confidenze con lo Spirito Santo lontane dal sacerdote. Tuttavia, quella mattina arrivai in ritardo, e l’unico posto libero rimasto era proprio quello dietro Ester. Mi piace pensare che il nostro incontro sia stato provvidenziale: avevo vissuto lì tutta la vita, non l’avevo mai vista, doveva essere Dio a portarmi da lei. Arrivai affannato e i miei passi concitati e il respiro pesante attirarono la sua attenzione. La Messa non era ancora iniziata, e lei interruppe la sua preghiera per guardarmi in tralice da sopra la spalla, incuriosita. La luce delle vetrate illuminava il suo profilo; i raggi del sole come un’aureola attorno ai capelli scuri, l’austera curva del naso e le ciglia dritte; aveva le labbra viola strette in una linea, le iridi spietate, una foresta in fiamme, una punizione divina. L’avrei scambiata per un angelo tant’era terrificante. Terrificante, sì, e bellissima.
Fu in quel momento che mi innamorai – no, ne divenni ossessionato. La cercavo con lo sguardo ogni domenica, lei e i suoi vestiti cerei, le sue gambe lunghe e la figura svelta, lei e il suo petto da ragazzo, la vita stretta, il modo in cui pregava e il modo in cui le si schiudevano le labbra per prendere l’Agnello di Dio: era una visione ultraterrena. Disperato, chiesi notizie di quella devotissima ragazza a chiunque conoscessi. Nessuno sapeva niente. Nel nostro paesino in cui tutti conoscevano tutti, lei era un mistero, un fantasma tra i vivi. Dedussi quindi che si fosse appena trasferita. Finii per scoprire il suo nome solo dopo l’inizio della scuola, quando come a causa dello stesso piano divino che ci aveva fatto incontrare, finimmo in classe insieme.
Ester si sedeva in fondo alla classe, parlava solo durante l’ora di filosofia, esponeva le sue idee profetizzandole, a tal punto da farmi credere che la parola di Dio soffiasse dalle sue labbra. Un giorno, mentre evocava l’idea che aveva del Creatore l’insegnante la sbatté fuori dall’aula. Io le corsi dietro con una scusa. Volevo sentire qualunque cosa avesse da dire. Scoprire la sua anima. La trovai che si mangiava le unghie, seduta a gambe incrociate nel corridoio. Guardò verso di me, confusa, poi sorrise.
“Allora? Come lo vedi? Dio, intendo.”
“Bah, ridente. E se siamo a Sua immagine e somiglianza, anche sgraziato, sprezzante, cattivo. Dio non è buono. Ti ama, ma non abbastanza da salvarti. Suppongo sia questo il bello.” “E tu…?”
“Esdra.”
“Esdra.” mi guardò, un nuovo luccichio negli occhi. “Tu? Ci hai mai pensato?” “Sono troppo stupido per pensarci.”
“E pensi che Dio ti salverà per questo? Perchè sei stupido?”
Trascorsi tutta la giornata con lei, poi la seguente, poi ogni giorno a seguire. Parlavamo di qualunque cosa ci passasse per la mente. Scoprii che sua madre era morta, che suo padre faceva il pastore, che lei lo odiava e che aveva un gregge di agnellini. Ester diceva che suo padre, come Dio, si manifestava attraverso l’assenza e la violenza. Per lei qualsiasi posto sarebbe stato migliore delle quattro mura vuote che era costretta a chiamare casa. Io non ero come lei: la mia famiglia era normale, vivevo schermato dagli orrori della vita e cercavo di introdurre nella sua una bella dose di tranquillità. Non ci riuscii mai. Il suo modo di pensare, la sua mente brillante, erano troppo eccezionali per adeguarsi alla normalità.
Lentamente iniziai a pensare come lei, a mutare in una versione diluita del suo essere. Iniziammo ad amarci stringendoci le mani al segno della pace in chiesa, sgattaiolando fuori casa per vederci di notte, saltando la scuola per andare nei boschi intorno al villaggio per intossicarci, parlare e pregare. Mi invaghii di tutto, dalla sua risata scomposta alla cura con cui spalmava la marmellata sul pane, del tocco delle sue dita appiccicose d’arancia. Al nostro primo bacio – seduti su una panchina del parco, il freddo che ci schiaffeggiava le guance, le labbra collose di vodka calda comprata a buon mercato e il suo fiato, incenso salvifico sul mio volto – scoprii finalmente cosa volesse dire la parola estate. Il freddo era agghiacciante, ma mi sentii avvampare. La mia vita prima di lei era stata un lungo inverno, ma ora il sole mi raggiungeva. La mia esistenza iniziava sulla sua bocca schiusa. Non avevo più bisogno di Dio ora che avevo lei. Ma Ester non la pensava così. Più i giorni passavano, più la vedevo sofferente. Spesso era isterica, impaurita, faceva molti discorsi sulla morte. Un giorno per calmarla le dissi: “L’amore dona immortalità a ogni creatura mortale. Ester, io e te non moriremo mai.” Ma lei sbiancò, si mise a piangere, le mani premute sul viso e le spalle scosse dai singhiozzi. Se la mortalità sembrava a molti un concetto terribile, per lei era invece il più bello mai esistito; non sapeva se fosse per la sua follia divina e la smania di riunirsi a Dio o per il desiderio malato di liberarsi dello Spirito e respirare gli effluvi infernali, essere libera seppur nella sofferenza, inchinarsi di fronte a un nuovo Essere. La seguivo pedissequamente, lei era la mia signora e io il suo vassallo, vedevo ciò che lei vedeva e sentivo ciò che lei sentiva. E proprio da questa nostra estatica simbiosi scorsi il suo animo atterrito, il suo malessere interiore, e capii che non avevo altra scelta: dovevo portarla via da lì. Elaborai subito un piano: avrei rubato qualche soldo ai miei e saremmo scappati col furgone di mio padre. Avremmo vissuto lontano da tutto ciò che conoscevamo. Io non avevo bisogno di nessun altro, lei con me sarebbe stata felice. Così, come se quella fosse una piccola festa d’addio alle mie origini e alle sue nuove, marce radici, la portai a ballare. I nostri compagni di classe erano soliti riunirsi nel bosco che circondava il centro abitato; con la musica a palla e i cuori martellanti, bevevano, fumavano, inseguivano un edonismo becero e paesano. Pensai che quell’atmosfera grottesca, fatta di corpi sudati, movimenti scomposti e stordimento le avrebbe fatto piacere, che la musica l’avrebbe distratta, che una confusione avrebbe sostituito l’altra. Non presi neanche in considerazione l’idea di prenderla da parte e parlare di ciò che la uccideva. Per noi l’amore era il coltello che ci ruotavamo nel petto, e mi convinsi che il suo vero male fosse solo quello, il troppo amore, la mancata abitudine a ferite di quel tipo. Trovai conferma del mio pensiero quando, dopo averla persa per un istante, la vidi in mezzo a tutti gli altri a ballare come un’invasata, gli occhi che brillavano di luce gialla, la testa all’indietro, la gola alle stelle. Il corpo filiforme si muoveva nella sua camicia da notte bianca, tanto da sembrare posseduto o in estasi, coi capelli al vento e le mani in aria. Ballava come se la musica le scorresse nelle vene e ballò per ore, arrivai a pensare che sarebbe crollata al suolo prima di fermarsi. Grondante del lustro della giovinezza, sembrava una Menade da baccanale, sacra e profana, libera. Urlava, cantava, era un fuoco di puro essere. A volte mi guardava, gli occhi languidi, miele dorato nelle pozzanghere di luce lunare. Quando tornò da me, le dissi che l’amavo, le chiesi di scappare con me, “Partiamo domani, non preoccuparti di nulla.”. Ma non mi aspettai risposta.
Lei sorrise, le labbra curve in un gesto d’antica tenerezza, e mi baciò piano mentre faceva intrecciare le nostre dita. Mi trascinò nel pieno degli alberi e facemmo l’amore sulla terra nuda. Pensavamo che ci avrebbe inghiottiti, che il nostro amore avrebbe alimentato il terreno fluendo nel fiume che scorreva nel cuore della foresta. Le nostre ossa si univano a incastro, come se il suo corpo fosse stato fatto per incontrare il mio. Mi si era insinuata nel sangue come una malattia, un parassita, ed io non volevo guarire. Ci stendemmo a guardare il cielo, le tenni la mano, le baciai ogni dito, il dorso, il palmo. Volevo adorare ogni centimetro di lei, ma lei si tirò su, si arrampicò su di me e mi baciò tutto il volto, dalle palpebre alla punta del naso, lasciando le labbra per ultime. Quel bacio aveva un sapore diverso dagli altri, sapore che non seppi identificare. Decisi di non pensarci, bearmi solo di lei.
“Ora va’, ci vediamo domani.” Volevo portarla a casa, ma lei rifiutò, voleva ancora ballare, disse. La baciai un’ultima volta, prima le labbra e poi la fronte, infine tornai a casa.
L’indomani uscii all’alba, rubai un po’di soldi dai risparmi dei miei, salii sul furgone e andai a prenderla. Non era fuori casa. Entrai nella sua stanza dalla finestra, trovando il letto rassettato, tutto in ordine. Ester non c’era. La cercai per giorni. Come poteva essere partita senza di me? Come poteva avermi lasciato lì dopo avermi portato via il cuore dal petto? Non era possibile, non sarebbe mai andata via senza avvisarmi, non era da Ester. E non ero l’unico a pensarlo, il villaggio intero si unì alla mia ricerca disperata, di giorno e di notte. Poi, un’illusoria quiete. La trovarono, sì. Ripescarono Ester dal fiume, orrenda, bluastra, esangue. Il mondo si zittì, si fece buio su tutta la terra. Cercai di avvicinarmi. Mi tirarono via mentre urlavo, mi dicevano che non dovevo darmi colpe, ma io sapevo. Sapevo che era un messaggio per me che, accecato dall’amore, non l’avevo capita, non c’ero mai riuscito.
Del suo dolore avevo fatto religione, e lei ne era diventata vittima. Ero stato io a sgozzarla sull’altare, era morta anche per la mia cecità. Al suo funerale non piansi. Sapevo che non mi sarebbe mancata e che ormai le appartenevo per sempre. Stavano seppellendo il mio cuore assieme a lei, a marcire nella nuda terra. Era tutto ciò che avevo, tutto ciò che ero riuscito a darle. E lei, come in un testamento, mi aveva lasciato il suo ricordo in patrimonio, la sua voce nel vento, il suo profumo nei miasmi dell’incenso. Perché Ester voleva che la ricordassimo tutti, quella morte, voleva staccarsi dalle donne morte e composte, dalle Ofelia che affogano aggraziate tra le acque e il cui corpo ripescato, cianotico e gonfio per l’acqua, non viene mai mostrato.
Perché, se in vita non ero riuscito a vederla, nella morte l’avrei vista ovunque.
06/11/2023
Dov'è finito il potere della parola?
di Arianna Dramisino
Dov'è finito il potere della parola?
di Arianna Dramisino
Perché ci emozioniamo (ancora) davanti alle parole
Come, nell’era di internet e del tutto subito, i classici ci smuovono ancora
“Chi parla male, pensa male e vive male. Bisogna trovare le parole giuste: le parole sono importanti!” Nanni Moretti, Palombella Rossa.
È molto probabile che la maggior parte di noi non ci faccia nemmeno caso, ma nel corso della giornata, tutti, anche i più pigri e chi sostiene di non essere costante nella lettura, consumiamo un’enorme quantità di informazioni leggendo. Come? Attraverso i piccoli schermi che ci tengono in costante contatto con il resto del mondo: gli smartphone. Certo, spesso le parole accompagnano, o vengono accompagnate da molte altre cose: immagini, video, illustrazioni… Ma sempre lì rimangono, pronte per essere lette e assorbite.
Sono quindi sempre loro lo strumento intorno al quale gira il nostro mondo, ed è l’uso che se ne fa che modella la realtà che ci circonda. Lo vediamo tutti i giorni: le parole giuste ci spingono a desiderare quello che poi acquistiamo, quelle sbagliate ci fanno arrabbiare, indignare e sono in grado di rovinarci la giornata, anche se scritte da uno sconosciuto sui social network.
Il nostro mondo ha cambiato il modo in cui leggiamo e il modo in cui leggiamo ha cambiato il nostro mondo e, di conseguenza, la letteratura che ne è uno specchio. Internet e i dispositivi come kindle, e-reader e tablet hanno modificato radicalmente il modo in cui consumiamo le parole. Improvvisamente abbiamo la possibilità di accedere in tempi brevissimi a – quasi – tutti i libri che siano mai stati scritti. Un cambiamento epocale rispetto al passato. Se l’uso di internet e lo sviluppo tecnologico del Web 3.0 abbia fatto bene o male al mondo della le tteratura, è un dibattito aperto. Se da una parte la grande disponibilità di testi e libri reperibili online può portarci a pensare a un vero e proprio processo di “democratizzazione” digitale della lettura, dall’altra internet sfida quotidianamente le nostre soglie di attenzione in un ambiente sempre più stimolato, e che spesso urla invece di parlare per attirare il nostro sguardo, sempre per meno tempo, allontanandoci da tutto quello che invece richiede sforzi intellettuali per essere compreso.
Parallelamente all’uso di internet, tra i tanti cambiamenti che hanno influenzato il nostro modo di fruire le parole negli ultimi anni, delineati da Washington Post in un articolo del 2019, c’è anche il grande successo degli audiolibri. Un approccio alla lettura che, attraverso l’ascolto, spesso anche attraverso grandi voci di doppiatori e attori, è in grado di fornire un approccio estremamente emotivo, evocativo e diretto.
Ed è proprio questo nuovo modo di accedere al mondo della letteratura quello che ha accompagnato e riavvicinato molti alla lettura in uno dei periodi più stressanti e difficili degli ultimi anni, la pandemia. Durante gli anni di grande incertezza e di stress sempre più persone si sono rifugiate nella lettura per sfuggire alla realtà, acquistando più libri stampati e dando vita a comunità online per lo scambio di libri come booktok, tramite il quale i più giovani si scambiano titoli, consigli e opinioni sui libri da leggere, tra cui spiccano di frequente i grandi classici e nomi della letteratura.
In un mondo sovra-stimolato, dove tutto scorre veloce e vince chi urla di più, ancora moltissimi – anche giovani e giovanissimi – decidono di rifugiarsi nelle parole scritte decenni e secoli prima, rivedendosi ed emozionandosi nelle vicende di personaggi che hanno abitato milioni di librerie ed emozionato le generazioni passate. Forse sarà proprio il mondo in cui viviamo e la tecnologia che ci sovrasta a spingerci sempre di più ad un ritorno al concreto, alla realtà e alla carta stampata?
Emily Dickinson diceva “Non conosco nulla al mondo che abbia tanto potere quanto la parola. A volte ne scrivo una, e la guardo, fino a quando non comincia a splendere.” Nonostante il nostro mondo cambi sempre più in fretta, la capacità che abbiamo di costruire ed immergerci negli universi creati dai grandi autori della letteratura rimane invariata, e ci consente non solo di accrescere il nostro bagaglio di conoscenze ma di diventare, se siamo fortunati, anche persone migliori. Vivendo anche le vite dei personaggi di cui leggiamo, facendo nostre le loro esperienze, gioendo insieme a loro per le conquiste, piangendo insieme a loro quando le cose vanno male e arrabbiandoci con loro per le ingiustizie subite, facciamo un grande esercizio di empatia. Ed è proprio così che si rimane umani.
06/11/2023
Perché ci sono 52! mazzi di carte
di Manuel Gamba
Se mescolato in modo casuale, il modo in cui sono disposte le carte `e unico e diverso da tutti gli altri mazzi di carte nella storia dell’uomo. Per ogni partita di Burraco, di Scala 40 o di Briscola `e esistito un mazzo di carte inreplicabile con il solo ausilio del caso. Il numero di combinazioni totali `e, di fatto, superiore a 8 · 1068, ovvero 8 seguito da 68 zeri. Per capire il ragionamento utilizzato per arrivare a questo numero e perch´e `e cos`ı grande, conviene prima prendere un esempio di scala minore, utilizziamo due dadi, uno bianco e uno nero.
Ipotizziamo di lanciare il dado bianco e di ottenere il numero 3, per poi lanciare il dado nero e ottenere il numero 1; chiameremo questa e tutti gli altri possibili risultati, che in questo caso sono i numeri determinati dai dadi, disposizioni. Non ci resta che chiederci quanto `e ”unica” la nostra disposizione, o meglio, quante altre disposizioni di numeri esistono. Lanciando il primo dado abbiamo 6 diversi possibili risultati, uno per faccia del dado. Ottenere ”3” come risultato dal dado bianco, `e una di solo sei possibilit`a. Si potrebbe anche pensare che lo stesso valga anche per il dado nero, ma si cadrebbe in errore, perch´e non vogliamo ottenere solo ”1”, ma vogliamo ottenere ”1” dopo aver ottenuto ”3”. E qui che il numero di disposizioni,, cresce, perch´e per ognuno dei sei possibili risultati ` del dado bianco, esistono altri 6 casi per il dado nero. Mi spiego: nel caso in cui il dado bianco risulti ”1”, si potrebbero ottenere dal dado nero un risultato qualsiasi fra uno e sei, dandoci le prime sei disposizioni; nel caso in cui dado bianco ottenessimo due ”2”, dal dado nero potremmo comunque ottenere un numero fra uno a sei, dandoci altre sei disposizioni e portandoci ad un totale di dodici disposizioni. Continuando concluderemmo che abbiamo sei disposizioni per ogni risultato possibile dal dado bianco, dandoci un totale di disposizioni di 6 · 6, ovvero 36. Se tirassimo 3 dadi, avremmo un numero di disposizioni 6 · 6 · 6, da cui otteniamo 216, e per 4 dadi avremmo 1296 disposizioni, ovvero 6 · 6 · 6 · 6.
Abbiamo capito come approcciarci a questo tipo di problemi, passiamo quindi a quello che ci siamo chiesti in origine. Per un mazzo di 52 carte, la carta in cima, o pi`u appropriatamente la prima posizione, pu`o essere occupata da una qualsiasi carta, ci sono quindi cinquantadue possibilit`a. La carta successiva, ovvero quella nella seconda posizione, potr`a essere una qualsiasi di 51 carte, perch´e una `e gi`a posizionata e non pu`o farlo due volte . Abbiamo, solo per le prime due carte, 51 disposizioni per 52 carte che possono occupare la prima posizione, e quindi 52 · 51. Ma un mazzo non ha due carte, ne ha 52, e quindi le disposizioni totali sono molte di pi`u. La terza posizione pu`o essere occupata da 50 carte, la quarta da 49 e cosi via. Si conclude che, logicamente, il numero di disposizioni totale ´e 52·51·50·...·2·1, ovvero il prodotto di tutti i numeri (interi) fra 1 e 52. Siccome ´e un’operazione molto lunga da scrivere per intero, si utilizza il simbolo ”52!”, che si legge come ”cinquantadue fattoriale”. Similarmente 5! (cinque fattoriale) `e 5 · 4 · 3 · 2 · 1 e cos`ı per tutti i numeri ”senza la virgola”, ovvero i numeri detti interi. 52! ´e un numero cos`ı grande che ´e difficile per noi da concepire, che forse il discorso introduttivo per alcuni pu`o sembrare un esagerazione, ma per metterlo in scala, penso che mi basti dire una cosa: la probabilit`a di mescolare un mazzo e ottenere la stessa disposizione due volte ´e pi`u alta di quella di vincere la lotteria per otto volte consecutive.
06/11/2023
La luna e i falò - il testamento meraviglioso di Cesare Pavese
È il romanzo del ritorno e dell’addio, contemporaneamente; è il romanzo della rassegnazione e della nostalgia; è il romanzo con cui Pavese ha salutato il mondo, è il suo testamento: “Se anche nelle mie radici non riesco a ritrovarmi, la speranza di trovarmi da qualunque altra parte – o in qualunque altra cosa – è decisamente vana”.
Il romanzo è ambientato a Santo Stefano Belbo, paese tra le Langhe; è la storia di Anguilla che, attraverso i flashback dell’infanzia e del periodo da emigrante negli Stati Uniti, torna a visitare il paese in cui è cresciuto. Qui incontra dopo lungo tempo Nuto, il mentore della sua gioventù, e fa la conoscenza di Cinto, un bambino che vive dove lui aveva un tempo vissuto. L’incontro nostalgico con l’infanzia è però mandato in frantumi dalla realtà: tutto è cambiato, comprese le persone, che sono morte. La fine del romanzo, fortemente lirico-simbolico, rappresenta l’inevitabile distruzione di tutto quello che è stato prima, delle radici.
A distanza di più di settant’anni dalla sua uscita La luna e i falò si attesta come uno dei romanzi-capolavoro del Novecento e della letteratura italiana. Pavese traccia un profilo autobiografico che è fatto di persone, di incontri, di suoni, di profumi, di verderame, d’acqua e di fango; non si definisce da solo, ma colora i contorni per far emergere se stesso; si definisce attraverso il mondo che lo circonda.
E del mondo che lo circonda è impossibile non parlare: le Langhe di Santo Stefano Belbo, di Canelli, di Alba sono il luogo dove Pavese è nato e dove è cresciuto. In mezzo a quelle colline il tempo non sembra scorrere, ma pare quasi aver ripreso la lezione del tempo etnologico dei Malavoglia: come lui da bambino si perdeva a immaginare Canelli e le feste nella casa coi balconi, così Cinto corre lungo il Belbo e desidera un coltellino svizzero per sentirsi adulto. Eccoli Anguilla e Cinto, che si guardano negli occhi. A Cesare pare di guardarsi nello specchio del tempo, e di rivedersi in quegli occhi vispi e nelle mani probabilmente sporche, di verderame e di terra, come quando da bambino correva per le colline.
Ma Pavese è anche il portavoce di quel neorealismo che investe il dopoguerra, stanco dell’esagerata pienezza del ventennio; e anche in questo La luna e i falò si presenta come un capolavoro: è l’ultimo di una serie di romanzi iniziata con Paesi tuoi (libro col quale La luna ha parecchie assonanze) e terminata qui; quel viaggio iniziato nelle Langhe non poteva che terminare lì, con una lingua che nulla ha di sbilanciato: i termini dialettali perfettamente si amalgamano all’italiano popolare (popolare, non becero o piatto) faticando a distinguere la linea dialetto-italiano che era invece ben individuabile nei Paesi tuoi. Ma questo è un altro discorso, che merita un approfondimento a parte.
Ed eccoci ora, a più di settant’anni, a cercare di capire perché Anguilla fosse proprio voluto tornare a Santo Stefano Belbo e non a Canelli, a Barbaresco o in Alba (come dice nell’incipit del romanzo); e poi capiamo che lì Pavese aveva forgiato se stesso, nel bene e nel male, tare e pregi.
Allora la soluzione diventa limpida, cristallina: nel momento di più profonda crisi di se stesso nessun posto era più adatto, per ritrovarsi, che il luogo in cui si è cresciuti. Certo, a volte però capita di non ritrovarsi nemmeno lì... E quindi così si spiega la decisione presa di porre fine alla propria vita, di porre fine alla propria grande perdizione.
E il simbolo di questa grande perdizione, di questa impossibilità di ritrovarsi è il grande fuoco. Il grande fuoco della Gaminella in fiamme, luogo dell’infanzia di Anguilla, ed il vestito bianco, che invece è il simbolo della fine dei preparativi, come dire “son pronto; ho dato poesia agli uomini ma non è bastato”.
06/11/2023
Poesie
Vi introduciamo una poetessa esordiente che ci ha colpito con la sua raccolta sincera, capace di mettersi a nudo e di scrivere di emozioni e sensazioni con particolare destrezza. Ecco a voi quindi, cinque dei suoi componimenti, scelti dalla redazione in modo che potessero rappresentare l’universalità del suo scrivere, ma in particolare quella sua eccentrica schiettezza che ci ha colpito fin dal principio. Speriamo suscitino in voi lo stesso effetto.
Crampi ulteriori
Cristo sono andata al rostro
forte odore di mosto
Forse quegli occhi
Ti avrebbero detto
Perché non scappi?
Versi dolorosi di corta
armonia e mucchi di fringuelli
addossati al muro
rotto
Senti la casa bruciare
Vedi il legno gridare
Versi tormentati da annunci radiofonici
Avevi il cuor d’una balena
Ed il
Panorama
era tutto
storto.
Altrettanti algoritmi
Ragazza stanca di
Nuovi bagliori
Imbracciami il fucile
Per un nuovo attacco romantico;
Giulio si impicca dal poggiolo
Avevi tentato
di spiegare
chi era morto
O era il palo Infilato nei tuoi occhi di
Perla nera
Non vediamoci finché
Non avrai trovato
le istruzioni per
Occhi come cubi di Rubik
Capelli arricciati in silenzio
In un bagno da rapina
Macchine svuotate e biblioteche seriali
Adesso prendi una maglietta
E la fai tua.
I tuoi vent’anni inosservati
Lottando
Ingeriti
Sassi di guado
Forze e allori
Morte e cuori
Hai gli occhi
Umidi di buio
E
Marmi di torrente.
Sopra
Le tue ossa
Un velo.
Crepe
Fiamme apostoliche
abbiate
pietà della vostra
marinaia meccanica.
Parole,
labbra sanguinarie
ed era un fuoco infernale.
Il mio torace è un teorema
la tua carogna,
diventa fossile d’un cane.
Sono morta a 14 anni
Sono morta a 14 anni
Fuori un lago di sangue e di spasmi
Due
Forti
Fitte;
L'altra sera
Ero a recidere una rosa,
Al pensiero d’una mia vena.
Ricordi ancora, forse, il 45 giri
E la moka rovesciata;
Una morte
inosservata.
06/11/2023
Le parole che suonano bene
La poesia è morta ormai! Forse è vero, o forse dobbiamo solo imparare a conoscerla anche sotto una prospettiva diversa, sotto una luce tutta nuova…
I testi delle canzoni, i lyrics, possono essere un mero accompagnamento, di secondo piano, rispetto alla parte musicale protagonista, ma possono anche prendersi tutta la scena. Vorrei quindi attraversare con voi dei testi che a mio parere (e non solo, in alcuni casi) si possono definire come nuova poetica per il loro valore letterario o culturale.
Partiamo dalle basi e dal nostro Bel Paese: possiamo vantarci di un panorama vastissimo per quanto concerne cantautori e cantanti. Gaber, De Andrè, Gino Paoli, Battisti, Guccini, Battiato… sono solo alcuni esempi di uomini che sono riusciti a trasportare poesia, arte, cultura, filosofia, amore, tematiche sociali e tutto questo, spesso, in soli tre minuti di brano.
Anche se il nostro maggio
Ha fatto a meno del vostro coraggio
Se la paura di guardare
Vi ha fatto chinare il mento
Se il fuoco ha risparmiato
Le vostre Millecento
Anche se voi vi credete assolti
Siete lo stesso coinvolti
-Canzone del maggio, Fabrizio De Andrè
Mi son svegliato solo, poi ho incontrato te
L’esistenza, un volo diventò per me
E la stagione nuova dietro il vetro che appannava, fiorì
Fra le tue braccia calde anche l’ultima paura morì
Io e te, vento nel vento
Io e te, nodo nell’anima
-Vento nel vento, Lucio Battisti
Sulla musica italiana e il suo impatto sulla nostra società, dovremmo soffermarci molto più a lungo, per quanto ci sarebbe da dire, ma tutti noi sappiamo della sua importanza e della grandezza degli autori citati e anche di quelli su cui, purtroppo, non mi sono potuta soffermare. Infatti, vorrei muovermi oltre e provare a trovare la poesia anche dove che non è così scontato che ci sia.
Andiamo avanti con il nostro viaggio nella storia della musica; pensiamo al rock che nasce e si sviluppa specialmente in Inghilterra. Sono anni in cui sempre più diveniva principale un’attenzione sulla musica e non sul testo, anni in cui l’assolo del basso o della chitarra elettrica era fondamentale per un brano, anni in cui emergevano band come i Rolling Stones, i Pink Floyd, i Led Zeppelin, gli Eagles, i Doors… e tanti altri.
Considerate queste premesse, nel 1973 i Pink Floyd fecero uscire l’album che li rese famosi al grande pubblico e che tutt’ora è un pilastro della cultura rock: The Dark Side of The Moon, di cui a marzo abbiamo festeggiato i 50 anni. L’importanza dei testi dell’ottavo album della band Britannica è tutt’altro che secondaria. I Pink Floyd ci vogliono raccontare una storia con The Dark Side of The Moon e non lo fanno solo con la musica, ma con le parole. Trattano tematiche esistenziali, sociali e politiche e il mio consiglio più spassionato è di vivere l’esperienza di ascoltare le canzoni dell’album in ordine per comprenderne a pieno il significato. Sebbene l’album sia uno delle fondamenta del rock psichedelico, la band attraverso la luna e il suo lato oscuro, per poi concludere con la sua eclissi, Eclipse, racconta la vita dell’uomo, la sua genesi, le sue esperienze complicate sulla terra, per poi arrivare al suo destino, l’eclissarsi.
And you are young and life is long
And there is time to kill today
And then one day you find
Ten years have got behind you
No one told you when to run
You missed the starting gun
-Time, Pink Floyd
And if the cloud bursts thunder in your ear
You shout and no one seems to hear
And if the band you’re in starts playing different tunes
I’ll see you on the dark side of the moon
-Brain damage, Pink Floyd
Procediamo con un altro salto temporale, prima del nostro millennio, per scovare ancora qualche poeta nascosto sotto il viso del cantante. Siamo sul cavalcare degli anni 90’ e sulla scena musicale è attivo un cantautore americano, della California, Jeff Buckley. Non voglio dilungarmi con premesse sull’artista, a mio parere, in questo caso, parlano i suoi testi, poesie che danzano sulle note musicali.
It’s never over
All my riches for her smiles
When I’ve slept so soft against her
It’s never over
All my blood for the sweetness of her laughter
It’s never over
She is the tear that hangs inside my soul forever
-Lover, you should’ve come over, Jeff Buckley
There’s the moon asking to stay
Long enough for the clouds to fly me away
Oh, it’s my time coming, I’m not afraid
Afraid to die
My fading voice sings of love
-Grace, Jeff Buckley
Eccoci giunti al famigerato 21esimo secolo. Non potevo non citare Lana Del Rey. L’artista, con un’aurea malinconica e alternativa, si ispira infatti a nomi noti della letteratura, come Sylvia Plath, riuscendo ad avere una grandissima influenza, specialmente sulle giovani donne della nostra generazione.
So, kiss the sky and whisper to Jesus
My, my, my, you found this, you need this
Take a deep breath, baby, let me in
You lose your way, just take my hand
You’re lost at sea, then I’ll command your boat to me again
-Mariners Apartment Complex, Lana Del Rey
There’s a new revolution, a loud evolution that I saw
Born of confusion and quiet collusion of which mostly I’ve known
A modern day woman with a weak constitution, ‘cause I’ve got
Monsters still under my bed that I could never fight off
-Hope is a dangerous thing for a woman like me to have, Lana Del Rey
Anche in Italia non tutto è perduto, basta cercare e saper guardare negli angoli più nascosti. Io circa due anni fa mi imbattei per caso in un gruppo milanese, l’Officina della Camomilla. Difficile etichettarli in un genere, forse non è mio compito farlo. Le loro canzoni dalle melodie particolari, vengono incorniciate in testi ancor più eccentrici, che hanno la capacità di affrescare un’immagine pittoresca e suggestiva. Provate ad ascoltare e vi sentirete risucchiati dentro un quadro.
Io sono sdraiato in un vagone
Ed ho bevuto tutti i fiori della finestra
E penso al mio cappotto fuori da tutte le stagioni
Alle tue gatte avvelenate, chiuse a chiave
Agli ottocento volteggi malviventi che sai fare
-Piccola sola e triste, L’Officina della Camomilla
Prendi la macchina e tirami via da sotto al tavolo
E portami nel cinema più lontano.
Il finestrino è un film horror
Ma nel cruscotto ci sono i giochi del giornale
Di profilo sembri Monica Vitti
Con il tuo walkman verde acqua e un fiore per coltello
E dietro di te c’è sempre brutto tempo
-Un fiore per coltello, L’Officina della Camomilla
Infine, facciamo un ultimo salto, con un altro artista, forse a primo impatto apparentemente lontano dal mondo della letteratura, perché appartenente alla cultura hip-hop/rap. Tuttavia, se pensate che Kendrick Lamar sia solo una serie di barre su una base prodotta bene, vorrei provare a farvi cambiare idea. L’impatto che i suoi testi e il suo pensiero hanno avuto sulla comunità nera in America è veramente straordinario. Lamar non vanta solo diciassette Grammy, ma anche di un premio Pulitzer per il suo album DAMN, primo artista non nella categoria musica classica o jazz a conseguirlo. I testi dell’artista sono stati capaci di muovere le masse, di rappresentare una comunità e di unirla e di portare ancora di più alla luce problematiche come razzismo e odio sistematico. Il suo è un rap che non ha paura di dire la verità, sia sulla sua comunità che su se stesso, cosa di cui, al giorno d’oggi, abbiamo un disperato bisogno.
Alls my life I has to fight, n***a
Alls my life
(…)
But if God got us, then we gon’ be alright
(…)
Do you hear me? Do you feel me?
We gon’ be alright
-Alright, Kendrick Lamar
Divenuta inno del movimento Black Lives Matter
I’m talking fear, fear that my humbleness is gone
I’m talking fear, fear that love ain’t livin’ here no more
I’m talking fear, fear that it’s wickedness or weakness
Fear, whatever it is, both is distinctive
Fear, what happens on Earth stays on Earth
And I can’t take these feelings with me so hopefully they disperse
-FEAR, Kendrick Lamar
E’ quindi innegabile che l'importanza culturale e letteraria dei testi musicali sia un fenomeno intramontabile che ha plasmato e continua a plasmare le varie generazioni. I testi musicali rappresentano un ponte tra le emozioni e l'intelletto, una forma d'arte che supera i confini delle lingue e delle culture. Attraverso le parole cantate, gli artisti hanno dato voce a speranze, sogni, paure, idee, hanno ispirato movimenti politici e sociali, hanno offerto consolazione in momenti di dolore e solitudine.
In un mondo in costante evoluzione, i testi musicali continuano a essere una fonte di ispirazione e riflessione per le generazioni future. La loro capacità di catturare l'animo umano e raccontare storie rimarrà un pilastro indelebile della cultura e della letteratura nel corso dei secoli a venire.
Ogni generazione ha trovato nei lyrics una riflessione di sé stessa e delle sfide del proprio tempo. Questa continuità e adattabilità della musica nel corso dei secoli testimoniano la sua immensa importanza nella nostra storia culturale e letteraria. La musica non è solo un mezzo di intrattenimento, ma anche un mezzo di comunicazione profondo e significativo, un specchio della società e del mondo in cui viviamo, una vera e propria forma di poesia.
E per voi? Quali sono stati o sono gli artisti che più vi hanno catturato con le loro parole?
06/11/2023
Nel 2012 si converte al cristianesimo, tema ripreso più volte dai suoi romanzi e che in Norvegia assume tutto un nuovo significato. Questa sua scelta religiosa sembra preludere una certa sensibilità verso temi più misteriosi, impalpabili, sopratutto là dove la maggioranza religiosa è protestante.
Il suo nome riecheggiava tra i possibili vincenti già da anni, tanto da portarlo a dichiararsi “stupito ma non troppo” dell’onorificenza ricevuta. Dopotutto, già negli anni novanta cominciava a ricevere le prime onorificenze e pochi anni più tardi le sue opere Poco sappiamo della sua vita privata, ma una cosa è certa: il Daily Telegraph, che non troppo tempo fa lo aveva inserito nella classifica dei 100 geni viventi, ci aveva visto lungo.
06/11/2023
Guida alla Londra istantanea
Anche noi, come la maggior parte di voi, stiamo soffrendo un grave caso di siccità economica post-estate. Ma se siete oramai ricaricati da questo periodo di riposo e pronti a ripartire, ecco una lista di 5 incredibili mostre a Londra da poter visitare senza spendere un euro! (o un pound, se preferite).
Che siate studenti, professionalmente impegnati o disoccupati, Londra risulterà sempre poco economica e di conseguenza potrebbe essere difficile trovare eventi che siano tanto interessanti quanto “wallet-friendly”.
Non bisogna pensare però che sia una città così insostenibilmente costosa come sembra, ed oggi ve lo dimostreremo.
- Come consiglio di apertura, menzioniamo la mostra di Theresa Weber, disponibile fino al primo febbraio 2024. Nella Somerset House, una splendida galleria in una struttura neoclassica nel cuore di Londra, la mostra intitolata “Cycles of unmasking” è caratterizzata da diverse installazioni create dall’artista su misura della sede, in quanto sua prima commissione pubblica nel Regno Unito. Se siete affascinati dai colori, dalle textures, dalle luci e dall’arte concettuale, sicuramente la visita non vi lascerà insoddisfatti.
- Siete appena arrivati a Londra e vi sentite già nostalgici? Allora è forse il caso di dare un’occhiata alla mostra dedicata a Pesellino, per ricordarvi dell’Italia attraverso le sue elegantissime opere rinascimentali. Se siete interessati, correte alla
National gallery, indiscutibile capostipite delle strutture londinesi, entro il 10 marzo 2024.
- Come potevamo escludere il famigeratissimo Tate Modern dalla lista? Nonostante si possa pensare il contrario, il Tate offre un’ottima selezione di mostre ed eventi gratuiti. Tra quelli che hanno catturato la nostra attenzione troviamo i “TURNER PRIZE 2023”: annualmente Londra ospita una competizione artistica in una sede al di fuori del Tate Modern. I candidati alla vittoria di quest’anno sono gli artisti Jesse Darling, Ghislaine Leung, Rory Pilgrim e Barbara Walker; l’evento si terrà alla galleria d’arte Towner Eastbourne e sarà disponibile dal 28 Settembre 2023 al 4 Aprile 2024, mentre l’annuncio del vincitore si terrà il giorno 5 Dicembre 2023. Qui siamo già tutti sulle spine!
- Le sorprese del Tate non finiscono qui! Il museo ospiterà infatti anche l’interessantissima installazione di El Anatsui, aperta al pubblico fino al 14 aprile 2024. L’opera si presenta come coloratissima e molto complessa data la cura dell’artista per ogni piccolo dettaglio. E se non fosse abbastanza, l’artista prende ispirazione dagli eventi del traffico di esseri umani durante la schiavitù transatlantica. Un’ottimo connubio tra storia e arte!
- A volte c’è bisogno di qualcosa di più coinvolgente ed interattivo per fare in modo che una mostra sia davvero interessante. E’ il caso della mostra “Genetic Automata” di Larry Achiampong e David Blandy, disponibile fino all’11 febbraio 2024. Attraverso schermi, film e avatar digitali, gli artisti esplorano le mille sfaccettature del concetto di “identità”, considerando i vari fattori che hanno plasmato o definito la nostra personalità negli anni. Da non perdere!
Se le mostre elencate non dovessero bastarvi vi consigliamo di controllare periodicamente i siti web di ognuna delle sedi menzionate o di iscrivervi alle varie newsletter per rimanere sempre aggiornati.
Buona visita e fateci sapere quale delle mostre vi è piaciuta di più!
Link individuali delle mostre:
Pesellino: A Renaissance Master Revealed | Exhibitions | National Gallery, London
Theresa Weber: Cycles of Unmasking | Somerset House Genetic Automata
06/11/2023
La rivista
di Nicole Della Santina
La rivista in quanto periodico dal tema variabile come la conosciamo oggi nasce nel 1665 contemporaneamente in Francia e in Inghilterra. Le prime sono riviste di carattere scientifico come le “Philosophical transactions”, oppure letterario come il “Giornale de’ Letterati” nato poco dopo a Roma. Diffondono cultura nella comunità di dotti, diventano tramite di scoperte scientifiche e conoscenza, e nel XVIII secolo diventano non solo di gran moda ma anche fondamentali per la società. Sono strumenti di diffusione popolarissimi. La rivista vive un periodo di gloria lunghissimo, adoperata a scopo politico, scientifico o letterario ma rimane imprescindibilmente manifesto della cultura per più di duecento anni. E poi nascono le riviste di economia domestica, di moda, di giardinaggio. La rivista diventa una piccola enciclopedia conveniente e a portata di mano per tutti. Al pari di libri e giornali le riviste (o meglio, i loro redattori) hanno una posizione politica e una morale bel precisa che ne delinea il percorso e i contenuti. Rimangono nella memoria collettiva più recente Vogue, Architectural Digest, Botteghe Oscure, Cosmopolitan e tante altre. E ora sembra proprio che il tempo delle riviste sia un po’ passato, sostituito dai post di Instagram e dai video di tik tok, informativi ma rapidi e immediati. La redazione di Satire quindi si impegna a riprendere la rivista in quanto pubblicazione periodica, modernizzarla e diffonderla; un nuovo mezzo di cultura per la generazione z.
01/09/2023
L’isola di Arturo - Elsa Morante
“[...] La rosa l’ha in se stessa, il proprio miele: miele di rose, il più adorato, il più prezioso! La cosa più dolce che innamora essa l’ha già in se stessa: non serve cercarla altrove. Ma qualche volta sospirano di solitudine, le rose, questi esseri divini.”
Non bisognerebbe stupirsi nel venire a conoscenza del fatto che “L’isola di Arturo" (Einaudi, 1957), nato dalla meticolosa penna di Elsa Morante, valse alla sua autrice il Premio Strega, proprio lo stesso anno della sua pubblicazione! E non solo: Morante fu la prima donna ad essere insignita di tale onorificenza.
Come ogni romanzo di formazione che si rispetti, esso accompagna il lettore lungo il cammino di crescita del protagonista, in questo caso il procidano Arturo Gerace; orfano di madre, bazzicante in una landa di illusioni fiabesche prima e delusioni amare poi, in seguito all’adolescenza.
La figura paterna, rappresentata dall’italo-tedesco Wilhelm Gerace, non può affermarsi come valida sostituta di quella materna; W. G. (a volte il suo nome viene così abbreviato nel libro) è infatti continuamente coinvolto in viaggi dalla durata incerta. Questa prolungata assenza porta il piccolo Arturo a fantasticare sul mistico genitore, innalzandolo a idolo, quasi un comandante supremo da venerare con rispetto e timore. E così, i primi anni di fanciullezza di Arturo trascorrono sull’isola, in un oscillare ben distinto tra due sponde: il tallonare pedissequamente suo padre ogni qualvolta egli faccia ritorno a Procida e, in sua assenza, trastullarsi nella cosiddetta “Casa dei guaglioni” leggendo storie di “eccellenti condottieri” (mai al pari, si capisce, del padre, che egli crede essere il più grande eroe di tutti i tempi). Nel profondo del suo animo, però, Arturo avverte la sofferenza provocata dall’assenza di baci e attenzioni materne, che la sua genitrice, venuta a mancare appena dopo il parto, non aveva avuto il tempo di dedicargli.
“Perfino le nubi, in cielo, si baciano! Fra la gente, là per le strade, non c’era persona che non conoscesse questo sapore [...] Solo io non lo conoscevo; e mi venne una tale nostalgia di provarlo, che notte e giorno non pensavo quasi ad altro.”
L’unica donna che possibilità Arturo ad una conoscenza con il sesso femminile è Nunziata, sposata con W. G. nonostante i loro 17 anni di differenza. Con lei il protagonista avvia un rapporto di odio-amore fin da subito, probabilmente anche sotto l’influenza dei pensieri aspramente misogini del padre, che si trovava ad udire spesso e in abbondanza, e che quindi caratterizzano gran parte del romanzo: Arturo è attratto e respinto allo stesso tempo dall’universo femminile, del quale non conosce altro che sottane, gioielli e faccende domestiche.
“Tutte le grandi azioni che m’affascinavano sui libri erano compiute da uomini, mai da donne. L’avventura, la guerra e la gloria erano privilegi virili. Le donne, invece, erano l’amore; e nei libri si parlava di persone femminili regali e stupende. Ma io sospettavo
che simili donne, e anche quel meraviglioso sentimento dell’amore, fossero soltanto un’invenzione dei libri, non una realtà.”
Le avventure di Arturo, che per destino di nascita si trova ad affrontare in solitudine, senza disporre nemmeno di un confidente, lo temprano sì al livello fisico, ma lo lasciano sconvolto sul piano sentimentale.
Noi tutti siamo Arturo e Procida è la nostra casa.
La Morante ci invita, quasi perentoria e insistente, ad indagare il nostro passato, riesumando i ricordi di solitudine e mancanza ormai polverosi, rimasti nascosti nei corridoi più profondi e bui della mente. In quanto lettori ci è di dovere riflettere su due domande: la prima: se anche noi, come Arturo, siamo mai riusciti a salpare dalla nostra isola, piccolo grande pezzo di terra ormai divenuto guscio opprimente, e la seconda: quante cose abbiamo appreso al termine della lunga traversata che caratterizza l’età d’oro della vita.
01/09/2023
4 quadri che hai visto ma di cui non sai la storia
Il Ritratto dei coniugi Arnolfini
Il ritratto dei coniugi Arnolfini è uno dei capolavori di Jan van Eyck dipinto nel 1434. Nel dipinto sono raffigurati Giovanni Arnolfini e la moglie Giovanna. L’artista riproduce la dimora dei coniugi come una delle tipiche ricche residenze dei commercianti che vivevano nelle Fiandre nel Rinascimento, indicando così lo status sociale dei due. Infatti il quadro è pieno di simboli e dettagli come il cane che indica la fedeltà coniugale o lo specchio appeso al muro. Quest’ultimo rende possibile infatti il riflesso degli sposi e davanti a loro di altre due figure delle quali una potrebbe essere quella del pittore. Inoltre la quantità di simboli all’interno del quadro ha portato molti studiosi a pensare che nel ritratto è raffigurata la celebrazione del matrimonio tra i due.
La Notte Stellata
La Notte Stellata di Van Gogh è un quadro, scritto nel 1889, che tutti abbiamo visto almeno una volta. Tuttavia non tutti sanno la storia che si nasconde dietro a questo dipinto. Ovvero che van Gogh prese l’ispirazione per questo dipinto all’interno dell’istituto mentale dove era stato ricoverato dopo essersi tagliato l’orecchio. Infatti la notte stelle sta che vediamo nel dipinto si tratta della vista che van Gogh vedeva dalla finestra della sua camera nell’istituto, e la stella più luminosa del dipinto è Venere, che era visibile, dall’istituto, all’alba nel giugno del 1889.
La persistenza della memoria
La persistenza della memoria è un dipinto del 1931, realizzato da Salvador Dalí ed è infatti una delle sue opere più conosciute. Tuttavia La storia della creazione del dipinto è molto buffa, perché pare che Dalí abbia realizzato il dipinto in sole due ore e con un insolito soggetto. Era infatti a casa con un forte mal di testa quando si trovò a riflettere sullo scorrere del tempo dal formaggio molle che stava mangiando.
L'Ophelia
“L’Ophelia” è un dipinto di John Everett Millais del 1851, e la storia della sua creazione è piuttosto buffa. Millias dipingeva dal vivo infatti, o almeno quando poteva. Per questo gran parte delle piante che raffigurate nel quadro sono state dipinte dal vivo osservando le sponde del fiume Hogsmill, mentre la ragazza che faceva la modella per il quadro, Elizabeth Siddall, è stata fatta posare tutto il tempo in una vasca piena d’acqua, scaldata da delle candele, all’interno dello studio del pittore.
01/09/2023
Il cinema è ancora cinema ?
Profondamente legata all’innovazione tecnologica, esiste una forma d’arte più dinamica, immediata e rappresentante dello scorso secolo? Dai gradini del muto fino al cinema a colori, ripercorriamo insieme ciò che è mutato e che ha mutato la faccia del cinema ai nostri occhi.
Come già accennato, il cinema è la forma d’arte più profondamente interessata e dipendente dall’innovazione tecnologica; non solo in termini di apparecchiature, effetti speciali in post produzione ecc, ma soprattutto dal modo in cui passano i film dalla cabina di produzione al mondo, e come vengono venduti e percepiti dal pubblico. Internet, i social e le piattaforme di streaming hanno cambiato non solo la nostra modalità di visione adesso, ma anche gli occhi con cui guardiamo al passato, agli anni in cui il cinema fioriva e prosperava. Quello che si intendeva come cinema, la visione a pagamento di un film (non fruibile altrimenti) ora è un’esperienza al pari del luna park o di una mostra: esperienze rare, a cui non siamo più avvezzi e di cui abbiamo perso l’abitudine. E ora di questo cinema è rimasto il film e poco altro. Nei teatri, nelle sale, alle presentazioni non si va più, il marketing è cambiato, sono cambiati i significati dietro ai film, la società che rappresentano (e che a volte non rappresentano affatto). È cambiato il modo di fare cinema, sono cambiati i suoi obiettivi: la propagazione di cultura di cui era mezzo si è ora trasformata e il cinema porta più intrattenimento che altro. La visione di qualcosa di bello, di interessante, ma raramente di spessore culturale o di critica se parliamo del cinema e delle piattaforme più comuni. C’è poi il cinema di nicchia, d’autore, che però soffre non solo la mancanza di prestigio fuori dal circolo di cinefili e appassionati, ma anche la difficile fruibilità per un pubblico abituato a qualcosa di immediato e di semplice comprensione. La rivoluzione portata dalle piattaforme di streaming in particolare era già avvenuta con le cassette VHS, poi con i DVD, ora con Netflix, Prime Video e Mubi. Il cinema si riafferma come un’arte in costante trasformazione e reinvenzione, cavalca l’onda sebbene tallonato da serie tv e applicazioni come Tik Tok, che con la sensazione di immediatezza e varietà che ci danno sembrano valere più la pena di essere visti rispetto ad un unico film, da vedere in una saletta che profuma di pop corn con i sedili di velluto rosso scassati e accanto a uno sconosciuto.
Quindi, per rispondere al quesito da cui è partito questo ragionamento: no, il cinema non è più al cinema. E la trasformazione del cinema e della sua industria è un ritratto preciso di ciò che sta accadendo anche ad altre industrie.
01/09/2023