“L’uomo è nato per soffrire, come le scintille per volare verso l’alto”, troviamo scritto nel libro di Giobbe. Nonostante il nostro naturale istinto umano ci porti a fuggire il dolore, la sofferenza esercita un fascino potente, al punto da spingerci persino a celebrarla. Da sempre desideriamo comprenderla, indagarla, rappresentarla: il tragico occupa un ruolo cruciale nella filosofia, nell’arte, nella letteratura – in definitiva, nella nostra esistenza.
Ma cosa rende il fenomeno tragico così potente e calamitante? È possibile che non si limiti a essere un riflesso della sofferenza, ma parli alle dimensioni più profonde del nostro essere, offrendoci una comprensione più ampia dell’esistenza? Attraverso il pensiero di alcuni filosofi, cercheremo di rispondere a questa domanda.
Quando pensiamo alla tragedia, il pensiero corre immediatamente alla Grecia e al teatro: la tragedia nacque come omaggio a Dionisio, celebrato con danze, canti e feste. Furono proprio i Greci i primi a intuire che rappresentare il dolore potesse diventare un mezzo per comprendere la vita stessa. Secondo Aristotele, la tragedia purifica l’anima, suscitando pietà e terrore. La sua funzione catartica permetteva agli spettatori di confrontarsi con le proprie emozioni attraverso la rappresentazione scenica del dolore.
Per gli antichi, tuttavia, il tragico non si limitava a un’esperienza emotiva. Nei personaggi di Eschilo e Sofocle, la sofferenza era sempre legata a un ordine cosmico e mai ingiustificata. Edipo, ad esempio, lotta contro un fato ineluttabile, cercando invano di sfuggire alla profezia. In questo contesto, il dolore umano diventa uno strumento per ristabilire la giustizia universale. La tragedia non si riduce a una punizione, ma diventa una lente per comprendere la grandezza della vita umana e il suo legame profondo con il destino.
Con Nietzsche, il tragico non è più solo un mezzo, ma diventa un inno alla vita stessa. La tragedia greca, che fonde l’apollineo (ordine e razionalità) e il dionisiaco (caos e istintività), rivela la bellezza del vivere anche nel dolore. “Ciò che non mi uccide mi rende più forte”, affermava Nietzsche – e, con ironia, anche Kelly Clarkson nel brano Stronger (What Doesn't Kill You). L’invito è chiaro: non temere il tragico, ma abbracciarlo come parte integrante dell’esistenza. Il dolore non è un nemico; accettarlo significa arricchire la vita.
Dolore come parte della condizione umana o strumento per affrontare l’assurdo? Camus, nel solco dell’esistenzialismo, paragona la condizione umana al mito di Sisifo, condannato a spingere un masso fino alla cima di una montagna, solo per vederlo rotolare di nuovo a valle. Eppure, la ribellione contro l’assurdo diventa il senso della sua esistenza: “Dobbiamo immaginare Sisifo felice”.
Kierkegaard, dal canto suo, vede nel dolore un’opportunità per raggiungere l’autenticità. L’angoscia, scrive, è la “vertigine della libertà” – un campanello d’allarme che ci spinge verso una relazione più profonda e vera con noi stessi e con l’assoluto. Affrontare il dolore diventa così un passaggio necessario per scoprire la nostra vera essenza.
Possiamo spingerci fino a dire che la consapevolezza del dolore e della morte sia un mezzo per vivere in modo autentico? Questa è la prospettiva di Heidegger, che con il concetto di Essere-per-la-morte invita l’uomo a confrontarsi con la propria finitezza, trasformando il limite in una condizione per apprezzare pienamente la vita.
Levinas, infine, riprende un elemento della tragedia greca: il confronto con il dolore altrui. Il volto sofferente dell’altro – o la sua rappresentazione scenica – ci interpella, ci costringe a confrontarci con la nostra responsabilità etica. Il tragico, così, si sposta dalla dimensione individuale a quella collettiva, richiamandoci a una maggiore umanità nell’accogliere la sofferenza altrui.
Torniamo alla domanda iniziale: cosa ci attrae della sofferenza? Probabilmente, ciò che riguarda noi stessi e la vita. La sofferenza ci invita a esplorare il mistero dell’esistenza, senza ridursi a una semplice celebrazione del dolore, ma aprendoci alla totalità della realtà. Anche nei momenti più bui, il fascino del tragico ci ricorda che
c’è spazio per la verità, la bellezza e qualcosa di altro. “Bisogna avere il caos dentro di sé per generare una stella danzante”, scriveva Nietzsche.