Pittore, scultore, incisore: un artista eclettico la cui poetica realizzazione è frutto di movimenti irrequieti, istintivi e meccanici. Alberto Giacometti trova un nuovo modo di pensare: il volto umano non è pretesto di virtuosismi, ma strumento di indagine della realtà.
Giacometti tenta di realizzare a memoria ciò che osserva, partendo dal disegno che considera struttura ossea della forma. Nella litografia Due Teste (1961) il soggetto è il risultato di una somma di linee che si intersecano in una danza viva. Questa vibrante tensione si trasferisce dalla pagina alla materia scultorea: le sue opere sono “forme tese” che necessitano di questa forza per conservare la loro esistenza. La figura plastica, durante la sua realizzazione, pare subito falsa ai suoi occhi. L’autore – o meglio, il creatore - per definirla e fissarla nello spazio è costretto a sacrificare materia, a ridurre secondo “un procedimento voluto ma necessario” come egli denuncia spesso. La sensibilità del creatore si riflette inevitabilmente nel risultato finale: osservare una qualsiasi forma artistica non è altro che la soggettiva realtà dell’artista che l’ha creata. Non è un caso che i volti delle sue figure ricordano i lineamenti dello stesso Giacometti: l’autore lascia anche plasticamente qualcosa di sé stesso nella sua arte, come si può ammirare nella sua Grand tête mince (1955).
Corpi nudi, dal medesimo aspetto, abitano lo spazio e si presentano nella loro essenza più pura, come in The Forest (1950). L’essere umano viene ritratto privo di etichette sociali e spoglio di una qualsiasi forma di distinzione visiva. Giacometti fatica nel tradurre la realtà: non riesce a creare quelle teste voluminose che immagina, ma istintivamente crea solo corpi dalle forme allungate. Visibili impronte modellano senza sosta: l’artista è intrappolato in un vortice di incomunicabilità e così le opere sembrano eternamente non finite, imprigionate in un continuo divenire plastico. Una febbrile necessità spinge l’artista a trasporre in arte ciò che la vista gli detta, consapevole che il suo fallimento sia l’unica via per la verità. La materia rappresentata non può essere completata, essa deve mutare e vivere in una tensione costante: lo slancio creativo è più importante del risultato stesso. Lo spazio intorno soffoca quei corpi, e la mano dell’artista – modellando instancabilmente- permette alla materia di fuggire a questa pressione. L’argilla, attraverso l’azione creatrice, non è più massa inerte ma corpo vivo.
Giacometti propone un’arte universale che racconta intrinsecamente la condizione umana: quante volte ci sentiamo così sottili, intrappolati nella ricerca di qualcosa o di qualcuno? Imprigionati in quella schiavizzante ma adrenalinica sensazione di voler inseguire una meta, un traguardo, che non vorremo mai realmente raggiungere perché consapevoli della nostra insaziabilità.