Sublime: un racconto sulla poetica e sull’estetica di Caspar Friedrich
Beatrice Cino
Beatrice Cino
Seguendo il sentiero arrivo davanti ad uno spettacolo terrificante: le rocce coperte da muschio sono state travolte dal peso di un tronco d’albero dalla chioma arancione che, per via del passare del tempo, sta lasciando libere, in una dolce danza, le sue foglie secche e vecchie. Dietro di esso, un dirupo roccioso. La roccia è spaventosa. La cima guarda dritto dentro l’anima e mi stordisce, mi fa cadere all’indietro. Il mio cuore non riesce a tenere dentro di sé tale spettacolo mostruoso, così potente da rendermi vincibile, piccolo, il nulla. La nebbia diffonde il colore della luce che proviene dalla sfera celeste, mi mostra i suoi raggi sfuggenti e mi prende in giro per la mia condizione mortale. Se urlo, il mio stesso eco mangia le mie parole, mi disintegra, mi abbandona. Sento le campane in lontananza, chiudo gli occhi e mi teletrasporto.
La tomba di Hutten è dipinta su un tramonto aranciato, le rovine e le piante lo incorniciano in un ricordo passato. La Natura mi spaventa, mi rapisce, mi ricorda che lei ha il potere sulla mia inutile esistenza, che anche le mie più grandi imprese verranno dimenticate, disseminate dalle erbacce del futuro. Un albero mi osserva da sopra il monumento mentre mi sdraio ad accarezzare il marmo di un uomo che è andato contro altri uomini. La roccia è fredda, fa male a toccarla. Sento un buco sulla superficie, provo a sbirciare dentro e mi ritrovo catapultato in un altro incubo.
La terra è assediata da tombe di miei simili, grandi eroi e piccoli uomini, mia sorella e mio figlio, una sola scritta su un frammento di pietra porta il loro nome, come se questo bastasse per onorare una vita intera. L'abbazia mi sussurra qualcosa in una lingua arcaica, incomprensibile, mi cinge alla gola e allo stomaco, mi blocca la parola. Gli alberi entrano nelle mie palpebre e si impossessano del mio corpo, dell’unica cosa che mi incatena a questa terra umida.
Mi sveglio davanti alla mia tela. Sublime.