Storie di donne che hanno portato sul grande schermo il proprio dolore
Riferendosi a Frances McDormand, Michela Murgia, nel suo podcast Morgana, disse: “Frances è perfettamente consapevole che ci sono poche storie cinematografiche adatte alle donne; scherzando, in un'intervista, un giorno ha detto che dipende dal fatto che 90 minuti non sono il tempo ideale per raccontare la storia di una donna”.
Quello che hanno detto le due non è per niente falso, ci sono anche dei dati che lo dimostrano: lo studio condotto dal Center for the Study of Women in Television and Film dell’Università di San Diego rileva come il numero dei personaggi femminili protagonisti sia sceso ancora di più quest’anno (da un 33% nel 2022 a un 28% nel 2023).
Tutto ciò dipende notevolmente dal basso numero di registe donne, le quali, sempre secondo lo studio, scelgono altre donne come protagonista quasi la metà delle volte, mentre spesso, i registi uomini tendono a preferire protagonisti maschi.
Con questo non si sta dicendo che facciano male, anzi, così come si dice che nessuno può raccontare una donna meglio di un’altra donna, allo stesso modo potrebbe valere per l’altro sesso. A questo punto quindi il problema sembra essere una bassa percentuale di rappresentazione nei leading role, dal momento che di donne nel cinema ce ne sono all’infinito, ma solo un numero percentualmente ridottissimo ricopre ruoli determinanti (un po’ come accade nel mondo del lavoro). La frase della McDormand, analizzata un po’ più a fondo, ci porta a domandarci come mai ci vuole così tanto tempo e lavoro per raccontare al meglio la figura di una donna; e a questo interrogativo ha risposto la stessa Michela Murgia, sempre nel suo podcast: ciò che differenzia le storie degli uomini da quelle delle donne è che l’epica maschile è un’epica dei fatti (un uomo fa una cosa, quella cosa si evolve, poi viene risolta), mentre l’epica delle donne è un’epica delle relazioni.
Il concetto sembra complicato ma non lo è: in tutti gli esempi che porterò oggi per raccontare le mie protagoniste femminili preferite, si capisce che la trama non si basa su una successione di eventi fini a loro stessi, ma è ogni volta una trama intricata di emozioni, relazioni, sentimenti di odio, di amore, di rancore, di solitudine e di perdizione.
Pochissimi di questi film durano appena 90 minuti, forse perchè la battuta iniziale così tanto ironica non era.
Tutti però nascono con l’intento di raccontare qualcosa di profondo, qualcosa che porti negli spettatori un briciolo di quella femminilità logorata che stanno osservando.
Vi faccio infatti un piccolo spoiler: nessuna delle protagoniste è felice.
Alcune iniziano con l’esserlo, altre finiscono col divertarlo, ma nessuna di loro sarà esente dall’oblio del sentirsi sole al mondo, schiacciate dalla vita di tutti i giorni, anche se ognuna a modo suo.
Tre manifesti a Ebbing, Missouri (di Martin McDonagh, 2017)
Il primo titolo è lo splendido racconto di una madre che perde la figlia per omicidio in una cittadina americana in cui nessuno sembra avere l’intenzione di aiutarla a trovare i colpevoli. La reazione di Mildred (non lasciatevi intenerire dal nome, il suo carattere vi farà cambiare idea) è più che comprensibile: dopo sette mesi di silenzio, la cosa più banale da fare è scatenare l’inferno. E’ con la pubblicazione di tre cartelloni autostradali alle porte del paese, con una chiara provocazione agli agenti di polizia indisturbati dall’avvenimento, che ha inizio la fine di tutto.
“Tutta questa rabbia genera solo ancora più rabbia”, le viene detto da un suo compaesano dopo tutti gli scompigli che la donna ha creato in città; la sua risposta? ancora più rabbia, ancora più scompiglio. Siamo stati abituati a vedere episodi di female rage in vari film horror, da Carrie a Pearl, ma mai ci era capitato di vedere una donna di mezza età, in possesso di tutte le sue facoltà mentali, calma fino all’ultimo, incazzarsi come il diavolo quando ne ha abbastanza di essere invisibile. Il ritratto di una delle classiche donne-poco-femminili, che insulta, si infuria, spacca tutto e non le manda a dire quando c’è la memoria della sua bambina in ballo.
Nomadland (di Chloé Zhao, 2021)
Qualcuno lo ha definito un film del tipo “What you give to it, it gives to you”.
E’ proprio così: potresti guardarlo con gli occhi di chi si aspetta qualcosa di nuovo e rivelatore, ma rimarresti deluso; oppure potresti guardarlo con gli occhi di chi non si aspetta nulla e viene colpito dalla naturalezza e dalla semplicità della vita da nomadi.
Fern è una donna che ha perso il marito e il lavoro, non sa più dove stia casa sua o dove dovrebbe stare lei, così sceglie di non avere una casa e vivere ovunque.
Il fallimento del sogno americano ci viene rappresentato attraverso il ritratto di una piccola comunità di uomini e donne che cercano un nuovo senso per la loro vita, andando ogni giorno alla ricerca di un nuovo motivo per essere felici (non sempre riuscendoci).
Il messaggio, comunque, è solo uno: quando intorno a te sembra non essere rimasto più niente, forse è proprio in mezzo a quel vuoto che devi trovare la libertà.
Sick of Myself (di Kristoffer Borgli, 2023)
Se avete visto e amato The worst person in the world, probabilmente questo farà al caso vostro (anche se non credo superi il primo).
Siamo in Norvegia, Signe è una normalissima ragazza sulla ventina che, terrorizzata dal fatto di perdere il fidanzato e insoddisfatta della sua vita da “persona qualunque", decide di avere bisogno di qualcosa che la renda speciale per gli altri (e forse anche per sé stessa).
L’escamotage che adotta è quello di assumere, più che consapevolmente, delle droghe che le sfiguereranno il viso in maniera irreversibile e degenerativa, così da attirare l’attenzione che ha sempre desiderato.
Da barista fidanzata con un artista di medio successo, Signe diventa il caso medico per eccellenza del paese. Nessuno si sta spiegare quale sia la sua malattia, da dove sia arrivata e dove la potrà portare, eppure a tutti, meno che a Signe stessa, sembra importare.
Il grottesco qui padroneggia lo schermo, dal fidanzato che rimane per pietà agli amici che non riescono a trattenere il disgusto, persino il business della moda marcia sulla “pornografia del dolore”. Insomma, un concentrato di tristezza che insegue una felicità malata e fasulla, spinta dall’insoddisfazione nell’era dei social media.
Documenteur (di Agnès Varda, 1981)
Tornando un po’ indietro nella storia, troviamo uno di quelli che reputo il capolavoro della regista francese Agnès Varda.
Già dal titolo si può capire l’originalità della pellicola: la traduzione letteraria del gioco di parole sarebbe “Documentitore”, perché quello in questione potrebbe sembrare un documentario filmato nelle strade dei sobborghi di Los Angeles, eppure il magnifico gioco tra fantasia e realtà mescola delle riprese reali con la narrazione di una donna separatasi da poco che vive cercando di arrancare ogni giorno fino a sera insieme al figlio.
Il dolore di questa Emilie giace nella sua incapacità di ritrovarsi come donna e come individuo, prima che come madre e scrittrice, e dopo che come moglie.
Felicità (di Micaela Ramazzotti, 2023)
L’opera prima di Micaela Ramazzotti si concentra sul dolore di una sorella e di una figlia troppo innamorata del fratello minore per accettare la sua tossicodipendenza e concepire la noncuranza dei suoi genitori di fronte al rischio di perderlo.
Desirè è una donna fortissima e molto coraggiosa che combatte da quando era piccola per la propria indipendenza, eppure c’è sempre quella catena che la lega al suo passato e alle sue origini: i genitori. Questi sono fortemente invalidanti per la salute mentale dei figli, tanto da non riuscire a vedere la disperazione nel tentativo di suicidio del figlio.
Desirè, dal canto suo, sarà l’unica a capire il fratello e a salvarlo dal loro passato di amori tossici e soffocanti, ma non senza sbattere contro il muro della diffidenza genitoriale.
Non è altrettanto facile riuscire a salvare sé stessa, però.
L’amore che la lega ai suoi affetti, infatti, non sarà in grado di lasciarle prendere quella spinta che invece ha salvato Claudio (o quasi).
Pieces of a Woman (di Kornél Mundruczó, 2020)
Dulcis in fundo, il film che è valso la Coppa Volpi alla straordinaria attrice Vanessa Kirby, il cui stesso regista descrive come “se avesse sempre un segreto dentro di sé che riesce comunque a mostrare” perché “anche il suo silenzio è ricco”.
Nato dal lavoro del regista Kornél Mundruczó e della sceneggiatrice, sua moglie, Kata Wèber, racconta la tragica storia di una gravidanza andata nel peggiore dei modi.
La prima mezz’ora di film si concentra sul parto in casa della donna, un parto fortemente problematico che, tra l’assenza dell’ostetrica prescelta e la superficialità della sostituta, ha causato la morte della neonata.
La storia sembra essere realmente accaduta ai due autori, non è da stupirsi dunque che la sceneggiatura sia magistralmente realistica e cruda, nonostante questo però, l’immensa bravura della Kirby e di colui che interpreta il marito, Shia LaBeouf, rendono la narrazione un concentrato di sofferenza anche per chi non si è mai trovato a fare i conti con una tragedia del genere.
10/07/2024