CINEMA ESPOSTO E POST-MEDIALITÀ
CINEMA ESPOSTO E POST-MEDIALITÀ
Secondo la FIAF (International Federation of Film Archives) è film:“ Ogni registrazione di immagini in movimento, con o senza accompagnamento sonoro, quale che sia il supporto”. Attenendosi a codesta definizione - non per limitare la multiformità del cinema, ma per far sì che possa fungere da bussola nel vasto territorio della film theory odierna - proviamo ad orientarci all’interno dell’articolato e poliforme panorama cinematografico-artistico contemporaneo.
Tenendo conto dell’ormai noto concetto di post-medialità - fenomeno individuato nel passaggio dei media alla tecnologia digitale, con tutto ciò che ne concerne: dalla “naturalizzazione” dei dispositivi al loro filtraggio della realtà - la rilocazione delle immagini in movimento è un aspetto da cui sembrerebbe facile partire. Questo perché siamo sempre più abituati al consumo di prodotti audiovisivi su apparecchi non propriamente destinati alla fruizione di determinate opere. Non più sale cinematografiche, ma monitor, smartphone, tablet, schermi pubblicitari. Ci sono infatti artisti che su questo “reshoring” delle immagini in contesti sempre diversi stanno progressivamente riflettendo all’interno della loro filmografia.
In un’oscillazione costante tra cinema e arte contemporanea, Albert Serra - regista catalano classe 1975 - è sicuramente uno dei più abbienti nell’attuale ecosistema mediale. Serra crede nella necessità di un’auto-riflessione del medium-cinema, solo così lo stesso avrebbe la possibilità di sopravvivere nel tempo della "vaporizzazione" dei dispositivi. In questo modo, l’opera dell’artista catalano è sempre spinta da una profonda sperimentazione, non solo nel linguaggio, ma anche nel supporto per cui è realizzata. Questo per Serra è possibile anzitutto grazie alla svolta digitale, che permette al filmmaker un controllo totale del processo produttivo. Ma è dalla libertà espressiva, data dalle dinamiche interne al circuito artistico contemporaneo, che Serra ha potuto radicalizzare ancora di più il suo linguaggio, oltrepassando il confine dello schermo cinematografico e approdando alla video-installazione.
Un esempio indicativo è The Three Little Pigs (2012), monumentale installazione performativa dalla durata di 101 ore, in cui emergono tutti i topoi dell’opera di Serra: dall’idea di performance, alla temporalità dilatata - con lunghi piani sequenza -, fino alla riflessione sul corpo attoriale. Bisogna assolutamente sottolineare l’influenza di un ulteriore medium: quello letterario. Il regista catalano tende sempre a far presente quanto sia stata importante la sua formazione letteraria, che riecheggia assiduamente nei suoi film. In The Three Little Pigs, Serra traspone in immagini in movimento tre testi su altrettanti personaggi storici. Il risultato supera anche il contesto storico nel quale il “film” è realizzato. Mettendo in discussione la classica narrazione biografica del biopic, e quella del film storico, rompendo le logiche della rappresentazione. Per un’opera impossibile da categorizzare rivolgendosi ai generi cinematografici.
Come era avvenuto in precedenza con Honor de cavalleria (2006) e El cant dels ocells (2008), e come avverrà in seguito con Història de la meva mort (2013), La
Mort de Louis XIV (2016) e Liberté (2019), Serra ricontestualizza e fa suoi determinati momenti storici. In questi trova terreno fertile per ricostruzioni di vizi e virtù umane che ricorrono nel corso della storia. Quindi, non rappresentazioni storiografiche, ma immagini che hanno il valore di quadri, in cui l’artista dipinge un particolare attimo della vita di un personaggio. Sono personaggi, quelli di Serra, che portano il peso di intere classi sociali; il cui corpo stanco, e la cui lenta - ma ormai prossima - decadenza è inquadrata dal regista con fervore e con partecipazione, come fosse la macchina da presa a togliergli la vita. È evidente la natura politica, ma nei suoi film vi è sempre una tangibile ambiguità di fondo: questa è essenziale, poiché lascia spazio all’ultimo anello della catena - lo spettatore - di inserirsi e riflettere su quanto visto.
L’approccio di Albert Serra è orientato verso la definizione di cinema esposto. Questo perché la volontà del regista catalano è quella di muoversi nell’ambito dell’arte, e lasciarsi suggestionare dall'eterogeneità degli elementi che essa mette a disposizione, ma di nutrirsi di un cinema che non debba più appellarsi a meccanismi ormai stantii. Le sue produzioni sono contraddistinte da una frequente improvvisazione, senza regole prescritte; tentano di trasmettere l’intensità e la singolarità della vita. È poi, in fase di post-produzione, con il lavoro al montaggio, che raggiungono il senso ultimo; in cui la manipolazione cinematografica diviene performance, con, anche qui, spontaneità nel combinare le immagini; al di là di una consecutio narrativa.
Alla luce di quanto detto, appaiono chiare le motivazioni che hanno spinto Serra a girare Tardes de soledad (2024) - documentario sulla corrida in cui il regista si muove tra realtà e finzione - anche se lo stesso Serra ha dichiarato più volte di non amare la forma documentaristica, e che Tardes de soledad sarebbe stato il suo primo e ultimo documentario.
Andando oltre, l’autore che più di tutti incarna la cultura post-mediale è Harmony Korine. Il regista americano indie nella sua filmografia si è sempre mosso su due piani: la messa in scena di un nichilismo incessante, con conseguente svuotamento emotivo di cui sono affetti i suoi protagonisti, e una continua sperimentazione formale. Quest’ultima è stata l’oggetto di studio di Aggro Dr1ft (2023) e Baby Invasion (2024), entrambi presentati alla Mostra del Cinema di Venezia. Successivamente, tutti e due non hanno goduto di una regolare distribuzione, ma sono stati proiettati in vari night club di Los Angeles e New York; non più, quindi, esperienza cinematografica unica, ma proiezioni di sostegno ad un altro tipo di evento.
Il caso più rappresentativo è sicuramente Baby Invasion. Un delirio di linguaggi, forme, spazi che si sovrappongono; un film difficile da descrivere, ma che ben sintetizza l’incursione mediale, la bulimia di segni appartenenti a diversi media: dal videogioco all’interfaccia twitch, fino alla riproposizione della trascendentalità tipica del Korine post- Spring Breakers (2012).
“THIS IS NOT A FILM”, compare a schermo durante Baby Invasion: è dunque vero? Il cinema - nella sua definizione più classica, non quella data dalla FIAF - è stato
surclassato, inghiottito dal turbinio post-mediale? Dall’ormai svelato rimpiazzo della realtà a favore dell’iperrealtà?
Il cinema è un’arte estremamente flessibile, che attrae a sé queste ingerenze mediali soprattutto per evolversi, per trasformarsi in qualcosa che non si eroda con il passare del tempo. Un’arte che accoglie, non rifiuta; che ingloba, rimodella, plasma. Francesco Casetti, nel libro La galassia Lumière, scrive:” (...) il cinema è sempre stato una “macchina” assai flessibile, aperta alle innovazioni e insieme attenta ai propri equilibri; se è vero che il cinema oggi si trova di fronte a una sfida decisiva, che lo spinge verso nuovi territori e nuove forme di esistenza, è anche vero che è come se esso vi fosse preparato da tempo”.
D’altronde, anche il regista francese Robert Bresson, le cui parole assumono oggi connotati profetici, sosteneva:” Cinema must evolve, it can’t permanently remain as it is”. E se di fronte a tutto questo, neanche un gigante della New Hollywood come Francis Ford Coppola si è tirato indietro, qualcosa dovrà pur significare.
Megalopolis (2024), lisergica odissea retro-futuristica, è la presa di coscienza di un vecchio maestro a confronto con l’impossibilità del cinema di riprodurre il reale. Uno stretto dialogo, quindi, con le nuove forme del contemporaneo, ma anche con l’essenza delle immagini di oggi. Un contenitore di archetipi del cinema di Coppola, di dati che sembrano essere stati rielaborati e montati insieme da un’intelligenza artificiale.
All'astrattezza del digitale - a questa incapacità di comprendere l’effettiva esistenza di qualcosa che viva oltre le immagini che creiamo, e che sostituiamo al reale - Coppola contrappone la speranza. La speranza che lui riversa sul cinema come strumento di unione. Questa prospettiva è, invece, quasi opposta a quella dell’ultimo film di un altro grande maestro: The Shrouds (2024) di David Cronenberg. Il protagonista, Karsh, nel tentativo di elaborare il lutto della moglie, si circonda di schermi, immagini, volti - la sorella della moglie, interpretata dalla stessa attrice - che la ricordano. Come Cronenberg stesso afferma: “I film non salvano dal dolore”, Karsh - alter-ego del regista canadese - cade rassegnato nella moltitudine di copie, patine, doppi, che lui stesso ha creato. Un punto di vista divergente rispetto alla visione del collega Coppola. Con Megalopolis oltre a metterci a conoscenza delle problematiche che derivano dalla digitalizzazione, Coppola ci propone anche una soluzione, una concezione più ottimista. In The Shrouds si percepisce una castrazione di un’ipotetica risoluzione, che lascia più interrogativi. Due modi di porsi in dialettica con la contemporaneità antitetici tra loro, ma similmente stimolanti.
Per concludere, imporre dei paletti al cinema - o alla propria idea di cinema, a ciò che interessa o meno - denota una scarsa fiducia verso esso; e chiunque pensi che il cinema sia “altro” finirà, in qualche modo, per ricredersi.
Albert Serra, Harmony Korine, Francis Ford Coppola, David Cronenberg, sono solo alcuni dei registi che stanno venendo a patti con l’assodato assorbimento da parte del cinema di altri linguaggi - e con la dissoluzione delle distinzioni tra i media. A questi si aggiungono anche Jonathan Glazer, Bertrand Bonello, Radu Jude, e tanti altri ancora.
È, dunque, impossibile opporre resistenza ad un movimento intrinseco presente fin dalla nascita, e che, di certo, non cesserà proprio adesso.
“Cambia la parola cinema e cambierà tutto, lentamente ma cambierà. Non è facile ma penso che non sia impossibile. [...] Immagine in movimento, schermo, qualunque cosa ma non usare mai la parola cinema.
[...] Non dobbiamo discutere della morte del cinema perché non facciamo più parte del cinema. [...] A loro date cinema, a noi arte”.1
Albert Serra