La crisi emozionale dell’adultescente
Carla Lucia Stendardo
Carla Lucia Stendardo
Diventare adulti e acquisire quella maturità che caratterizza lo stato psicologico dell’adulto sembra oggi quantomai difficile. A renderlo tale è quella “sindrome di Peter Pan” che sembra aver colpito gli adulti, ora adultescenti, digitali. La questione centrale è la progressiva e sempre maggiore identificazione degli adulti con gli adolescenti, rinunciando quindi a quel processo naturale di crescita, soprattutto emotiva. Dove può dunque trovare maturità e responsabilità, stabilità e sicurezza, un ragazzo, ancora indefinito nella sua forma opaca, circondato da tanti “genitori-bonsai”, tanti adolescenti nel corpo di adulti che scappano alla vista di responsabilità e doveri che, in teoria, dovrebbero accogliere e gestire come parte della loro natura di adulti e genitori «formati»? L’acquisizione di una forma, un’identità unica e stabile che possa fare da pilastro portante nella vita del ragazzo è continuamente rimandata, la si cerca di scansare per evitare di esserne toccati e condannati ad una vita distante dalla spensieratezza infantile e adolescenziale. L’adultescenza si concretizza quindi in un’identità opaca, sempre incoerente con se stessa e inconsistente, mai definita e mai realizzabile, sempre libera ma schiava della sua incertezza, priva di legami con la realtà, quasi alla deriva, ormai lontana dalla forma che la vita severamente richiede. Ora, nonostante questo fenomeno di eterna giovinezza e di fuga dal mondo adulto sia inequivocabilmente cresciuto nell’era moderna, quella digitale, e sia amplificato da numerosi fattori nuovi e moderni che ne complicano la natura, lo ritroviamo, talvolta, negli animi di chi ha abitato il passato. Basta saperne leggere qualche parola per scoprirlo.
Arthur Rimbaud, per esempio, è uno dei nostri Peter Pan del passato. La sua stessa esistenza, così come ovviamente le sue opere, riflettono quella tensione costante tra una ribellione giovanile mai stanca e mai appagata e una mancata transizione verso la maturità adulta. La sua vita e le sue opere mostrano un sistematico rifiuto delle responsabilità e delle aspettative della società adulta. Questo rifiuto è evidente nella sua decisione di vivere da vagabondo, posizionandosi nel polo opposto rispetto alla tipica, ferma e rispettabile vita adulta. Altro filo che lo tiene fin troppo vicino all’età adolescenziale, e quindi ad una particolare incapacità di mantenere rapporti affettivi stabili e duraturi, è lo stesso filo che lo tiene legato a Paul Verlaine, con cui intrattiene una relazione tumultuosa e disturbata da passioni distruttive tipiche di chi non possiede la capacità del controllo. Un controllo che manca totalmente nel mondo emozionale dell’adultescente (e adolescente), ieri come oggi: un’oscillazione perpetua, stremante, tra orgoglio, angoscia, poi ottimismo, delusione. Un vortice emotivo che non si riesce ad ammaestrare, che avvolge, sconvolgendo, la propria identità, rendendola passiva e inadatta alla sua stessa attuazione.
there’s a bluebird in my heart that
wants to get out
but I’m too tough for him,
I say, stay in there, I’m not going
to let anybody see
you.
(Estratto della poesia “Un uccello azzurro”, Charles Bukowski, 1992)
Così Charles Bukowski si confessa al mondo, e alla parte più profonda di se stesso, l’«uccellino azzurro», ammettendo esplicitamente la sua inadeguatezza nel guardare chiaramente le sue emozioni, conoscerle e ri-conoscerle e, soprattutto, accettarle, apprezzarle. E come Bukowski, gli adolescenti e adultescenti di oggi sono completamente estranei al loro mondo emozionale, non riescono a capire cosa provano, non sanno nominare le loro stesse emozioni. L’estraneità delle nostre emozioni, delle nostre sensazioni, ci caratterizza pienamente: ci troviamo in una situazione di estrema e angosciante lontananza dal mondo e dagli altri, che ora sembrano parlarci in altre lingue o non parlarci affatto. Sembra essersi avverata quell’incomunicabilità pirandelliana che siamo stati abituati a studiare e leggere, e che ora viviamo. «Crediamo d’intenderci; non c’intendiamo mai!» : così ci viene presentato l’urlo rivelatore di uno dei protagonisti di “Sei personaggi in cerca d’autore”, e così sembra gridarci nell’orecchio la nostra attuale condizione umana, a-sociale.
La solitudine che inevitabilmente ne scaturisce, che ci rende nuclei isolati nel nostro bisogno di comunicazione, solitudine illuminata dalla luce acciecante degli schermi, ci pervade senza possibilità di fuga. In ambito artistico, oltre che letterario, si è cercato di dare un volto a quest’ombra che l’uomo si è sempre portato dietro, forse per averla più chiara davanti agli occhi, per darle forma ed esorcizzarla. Emblematiche le opere di Edward Hopper, che sembra usare come modella proprio la solitudine. Una solitudine definita “silenziosa”, che è nascosta dalla presenza di altri soggetti (nelle tele come nella vita), e proprio da questa amplificata. Quel “sentirsi soli tra la gente” pugnalante che è, necessariamente, accompagnato e determinato da un’impossibilità comunicativa. È il caso di “Room in New York”, sotto riportata, che sembra descrivere visualmente in modo perfetto e immediato l’analfabetismo affettivo che dobbiamo giornalmente sopportare, insieme a quel sentirsi spesso inadeguati e mai compresi che troviamo spesso nell’età adolescenziale.
(Room In New York, Edward Hopper, 1932, Sheldon Museum Of Art)
Ma perché la sfera emotiva ha così tanta rilevanza nella costruzione della nostra forma? Ebbene il mondo su cui la nostra identità poggia, cresce e si costruisce, è umana, e in quanto umana è affettiva, emotiva, passionale. Antonio Damasio scriveva, ne “L’errore di Cartesio”, che non siamo macchine pensanti che si emozionano, al contrario siamo macchine emotive
che pensano, mettendo quindi al vertice della piramide gerarchica delle nostre diverse parti costitutive proprio l’emotività. L’essere umano si emoziona, è egli stesso emozione, passione, struggimento, angoscia. L’umano oggi ha smesso di essere tale, siamo analfabeti d’amore.
Si rende necessaria, dunque, un’«educazione affettiva» che possa insegnare ai nostri Peter Pan a crescere e acquisire maturità, anche e soprattutto dal punto di vista affettivo.
«Abbiamo fame di tenerezza, / in questo mondo dove tutto abbonda […]» (Alda Merini)
Un’ulteriore questione si incontra a questo punto: come è possibile un’educazione alle emozioni e ai sentimenti in un mondo, quello digitale, che ha completamente disconosciuto queste parole? La cultura digitale ha infatti completamente disintegrato il nostro pensiero critico, presentandoci un sapere ormai disordinato e frammentato, che inevitabilmente ci confonde. Divulgatore e destinatario del sapere si dissolvono ormai l’uno nell’altro, si contaminano a vicenda fino a creare un non-sapere che caratterizza la crisi delle conoscenze che stiamo in questo momento vivendo. Si ha a disposizione una quantità di informazioni tale da sopraffarci, troppo vasta per rientrare nei nostri concetti di spazio e tempo: tutto è diventato vicino e immediato. Questa riduzione dello spazio e del tempo, regalatoci da Internet, ci debilita abituandoci ad una dimensione di immediatezza che non ci appartiene. L’attività, nel mondo digitale, si riduce in passività. L’attesa e il silenzio hanno ormai smesso di abitare dentro di noi. Quello che ci circonda è il caos, inseguiamo degli istanti che immediatamente ci sfuggono, ed è questo che non permette di crescere e raggiungere una propria stabilità. Questo velo digitale, questo schermo che ci illumina il viso rendendo palese la nostra lontananza dal mondo sociale, ci chiude gli occhi, siamo ciechi di fronte al viso degli altri. Anzi proprio la componente più “corporea” dell’emozionalità qui viene meno: il volto. Una parte fondamentale della comunicazione emotiva tra esseri umani è il linguaggio non verbale, che sfugge alla nostra volontà e alle nostre distorsioni, l’unico ad essere completamente veritiero: è questa parte della nostra umanità che il mondo digitale ci ha precluso. Manca lo scambio sano di emozioni tra gli individui, rinchiusi nella loro gabbia luminosa. Eravamo, per Aristotele, animali politici, sociali, nati ed evoluti per vivere con gli altri, anche Hegel nella sua Fenomenologia ce lo insegna. Ora abbiamo perso la nostra socialità, ed insieme ad essa la nostra umanità, per chiuderci nella nostra distanza e diventare animali digitali. Vivevamo di emozioni, ora viviamo di apatia. Il nostro mondo emozionale e quello dell’altro diventano vicendevolmente incomprensibili, estranei ed esterni, siamo schiavi di questa ignoranza. Mancano le relazioni interpersonali, ormai solo virtuali, e mancano le relazioni, le conversazioni intrapersonali: siamo inadeguati a capire chi ci sta di fronte, anche se si tratta del nostro riflesso. Siamo «uomini soli, ma connessi; poveri di sentimenti, ma confortati dai prodotti; appartenenti a mondi esclusivi, ma tagliati fuori da un orizzonte comune»