Tre film imprescindibili di un maestro assoluto; che ancora oggi con le loro atmosfere tormentano il cinema.
REPULSION (1965)
Repulsion, o Repulsione, è il secondo lungometraggio di Roman Polanski, e quello che prende più alla lettera gli studi sulla sessualità̀ femminile di Freud.
Con “l’occhio che uccide” di Catherine Deneuve, ricordando i grandi registi che lo hanno preceduto, Polanski apre il film ma non solo: pianta il seme per l’intera trilogia.
Nella Swinging London del free cinema inglese - dove un anno dopo Michelangelo Antonioni girerà il suo Blow Up - Carole è una ragazza affetta da androfobia, paura irrazionale degli uomini: fobia che la perseguita in ogni istante della giornata, fino a portarla definitivamente alla pazzia.
La regia visionaria, i volti tagliati a metà dalla luce, l’appartamento che prende vita durante le crisi della protagonista sono uniti alla fragilità dell’animo umano messa in scena con una maestria degna del miglior Bergman. La pellicola rappresenta un viaggio nei luoghi più oscuri della mente umana risultando claustrofobica e angosciante anche nelle scene all’esterno. In una Londra che non dà tregua alla povera Carole la quale è impossibilitata a vivere serenamente a differenza delle colleghe del centro estetico in cui lavora, che ogni giorno ascolta parlare delle loro relazioni senza poter comprendere.
Gli sguardi maschili - come sarà in Rosemary’s Baby e Le Locataire con i vicini - perseguitano Carole, che finisce per rinchiudersi all’interno della sua abitazione. Da qui un turbinio di allucinazioni ad occhi aperti: abusi che si susseguono ogni notte, mani che escono dalle pareti; la casa diviene metafora della psiche malata della protagonista. Polanski stesso definì il film come “la descrizione del paesaggio del cervello di Carole”; traumi reconditi che prendono vita, ricordi repressi che diventano ossessioni.
Il regista, precedentemente citato, Michelangelo Antonioni, un anno prima, realizza Deserto Rosso, anche questo ritratto femminile di una donna, in cui Monica Vitti impersona Giuliana, un personaggio alienato ed esanime nel panorama industriale italiano.
Luis Buñuel, due anni dopo, con Belle de Jour, racconterà la storia di Séverine, donna annoiata e frustrata che durante le giornate si rifugia in una casa di appuntamenti per sentirsi sessualmente desiderata.
Con Repulsion compongono un puzzle: tre film che portano sullo schermo il disagio femminile della donna moderna.
Il film di Polanski, a differenza degli altri due, sfrutta i topoi del genere, creando uno dei migliori horror psicologici della storia del cinema - e il primo di una trilogia capolavoro.
ROSEMARY’S BABY (1968)
Rosemary’s Baby, insieme a Night of the Living Dead di Romero e Hour of the Wolf di Bergman, rappresenta uno degli horror che nel 1968 rivoluzionano il genere. La pellicola si apre con una contrapposizione tra sfera visiva e sonora: con una panoramica dall’alto, Polanski inquadra lo spazio urbano con le grandi costruzioni in cemento - simbolo
di soffocamento - su cui successivamente si inscrivono i titoli di testa, in un per niente disturbante - cosa che invece l’immagine degli edifici rimanda - font in corsivo color rosa; il tutto con l’inquietante colonna sonora di Krzysztof Komeda.
Il sonno della ragione genera mostri, non mostrati esplicitamente ma che esistono negli sguardi, nelle atmosfere dell’appartamento. Polanski porta il terrore nella quotidianità, il soprannaturale e il satanismo nella vita dei borghesi americani.
Arrivare a vendere la propria anima al diavolo fu l’azione alla base del Faust di Goethe, che ritorna in Rosemary’s Baby come critica alla società dello spettacolo e all’industria hollywoodiana; in questo caso il marito non vende la propria anima ma il corpo di sua moglie, che consentirà a Satana di concepire suo figlio. Quel che più risalta nella pellicola è come il tutto avvenga sotto trama, di nascosto, mai alla luce; e soprattutto i metodi utilizzati dagli artefici di tale percorso verso il formalismo religioso - ampiamente evidente nella scena della cena dai Castevet - che nasconde il vero obiettivo dell’operazione: il consumo.
La nascita del figlio dell’anticristo diventa rappresentazione simbolica di una classe legata al culto di un potere consumistico ed edonistico - che si nascondeva dietro la maschera del buonismo e del finto perbenismo - scoprendo così le carte dietro il tanto agognato sogno americano.
Vittima di tale processo non è altro che l’americano medio, Mia Farrow, che nel finale si lascia cadere tra le braccia del demonio; perché il sentimento che una madre prova nei confronti del figlio è talmente grande da far sperare nel cambiamento di un’umanità in rovina - quindi in un miracolo.
Portando il discorso verso la regia polanskiana, essa ricalca quanto di buono fatto in Repulsion: carrelli lentissimi, macchina da presa che segue i personaggi, la claustrofobia dei primi piani; è l’incertezza la chiave, come il dubbio e la paranoia, che vanno a formare l’inquadratura, rimandando sempre ad un senso di angoscia e terrore. Fino all’ultimo respiro il regista manda fuori strada lo spettatore, prima con la pazzia di una donna in evidente crisi psicologica, poi sembra di intravedere qualcosa negli sguardi di John Cassavetes e nel comportamento dei vicini; poi ancora la situazione sembra migliorare, per crollare definitivamente nel finale. Il tutto con un crescendo costante di suspense di hitchcockiana memoria, che fa del non detto e del non fatto il fulcro della pellicola. È il sublime fascino del consueto e dell’ordinario, quella malsana voglia della perfezione che il film incarna perfettamente; ma è anche la paura dell’ignoto e di ciò che non riusciamo a comprendere, che si cristallizza intorno all’apparente calma del comune.
L’introspezione psicologica di Rosemary si fonde perfettamente con i colori delle scenografie, portandoci a discutere dell’estetica, altamente simbolica e di matrice surrealista. Il continuo cambio di vestiti della protagonista scandisce la trasformazione del personaggio, ma anche i passaggi narrativi. Il rosso nella prima parte del film esprime la morte e il terrore che da lì a poco arriverà, il blu nella seconda come innocenza e purezza, il giallo l’alterazione e il rosa come femminilità: i colori sottolineano le correnti emotive che attraversano Rosemary.
Polanski è attentissimo a porre gli elementi nell’inquadratura sempre in contrasto tra loro. Azzeccata quindi la scelta di optare come attrice protagonista delle vicende una giovanissima Mia Farrow, che risulta sempre un’estranea tra le pareti dell'appartamento, pur tentando invano di cambiarne l’aspetto.
La copertina del Times, che Rosemary legge in una delle ultime scene del film, palesa la deriva che il mondo si appresta ad abbracciare, con il titolo: “Dio è morto?” Probabilmente sì,
ma satana vive e questo è l’anno zero. L’uomo smarrito cerca una guida nel peccato, la cui incarnazione è senza ombra di dubbio il capitale.
LE LOCATAIRE (1976)
Uscito in Italia con il nome “L’inquilino del terzo piano” - e in America come “The Tenant” - il film chiude la trilogia dell’appartamento nel migliore dei modi: grazie ad una consapevolezza artistica e ad una maturazione tecnica, che porta Polanski a trattare tematiche affini a quelle dei due film precedenti, spingendo ancora più prepotentemente il piede sull’acceleratore, per quello che diverrà il manifesto della sua prima parte di carriera.
Grazie alla fluidità data dalla Louma (Roman Polanski fu uno dei primi ad utilizzarla, consiste in una gru snodata alla cui cima è attaccata la macchina da presa, che può essere telecomandata lontana dal suolo, e permette appunto di effettuare panoramiche di grande durata, senza dover fare aggiustamenti) Polanski apre i titoli di testa con un movimento di macchina, che coincide con un’unità narrativa, al cui interno presenta tutto il dramma del protagonista - e del racconto - in un’unica inquadratura. Il piano-sequenza introduce il microcosmo in cui il protagonista, Trelkovsky (interpretato dallo stesso Polanski), andrà ad abitare, e anticipa i temi principali della pellicola: il doppio, l’ambiguità sessuale, l’essere sospeso tra il reale e l’immaginario, la claustrofobia data da uno spazio chiuso - l’appartamento - ma soprattutto la fine della tranquillità e l’inizio di quello che si trasformerà in un vero e proprio incubo.
Le prime sequenze sono attraversate da un’aria di mistero, portando lo spettatore a porsi domande sulla natura degli strani avvenimenti che Trelkovsky osserva imperterrito dalla finestra della sua camera da letto. Presenze fantasmatiche sembrano controllare il povero protagonista, che si ritrova in poco tempo vittima delle lamentele dei vicini. Fuoriesce l'intollerabilità di una borghesia repressiva, chiusa, che rifiuta il diverso, e che con i suoi comportamenti obbliga all’omologazione come unica soluzione. Da questa “vigilanza” spasmodica parte la discesa nella follia di Trelkovsky. L’appartamento, che assume i connotati di un’entità a sé stante, inizia ad inghiottire il suo inquilino, portandolo ad una frammentazione dell’Io e ad identificarsi con la precedente affittuaria, Simone Choule, morta suicida. Il cambiamento che la comunità del quartiere esige, lo conduce ad una progressiva caduta nell’oblio, e ad una trasformazione sia psicologica che estetica, simbolo dell’enigmaticità dell’uomo moderno. Il film anticipa anche le discussioni e le analisi che seguiranno negli anni a venire sulla sessualità: in un’atmosfera sempre più grottesca, grazie ad una straordinaria fotografia di Sven Nykvist (celebre cinematographer di quasi tutti i film di Ingmar Bergman) che fonde il gotico e il surreale, Trelkovsky in più occasioni risulta statico e imbranato di fronte alle avances di Stella (amica di Simone); una sottrazione, segno di un sentimento latente che diviene repulsione nei confronti del corpo femminile.
Ancora una volta reminiscenze hitchcockiane: come in “Rebecca” (film del 1940) la donna si trova a rivivere situazioni e traumi della defunta moglie di cui ha preso il posto, lo stesso succede a Trelkovsky con i vicini, che rivedono in lui Simone; e sempre come nel capolavoro di Hitchcock, anche Trelkovsky tenterà il suicidio. Entrambi non riescono ad accettare il ruolo che hanno e sono ossessionati dalla figura che li ha preceduti.
Evidenti anche le analogie (o citazioni, rimandi) con “Rear Window” (1954): l’atteggiamento da peeping tom dei residenti, e la risposta con tanto di binocolo del protagonista. Inoltre la dissociazione del corpo di Trelkovsky ,che raggiunge il completamento con l’acquisto di una parrucca, ricorda quella di Madeleine in “Vertigo” (1958).
Le questioni che Polanski pone in “Le Locataire” vanno oltre la semplice ricerca esistenziale.
Il regista mette in scena la sfuggevolezza dell’Io decostruendo, con domande che arrivano dallo stesso protagonista per lo spettatore: “Quand’è, insomma che un uomo smette di essere se stesso?” L’inquilino cade vittima della paranoia e delle allucinazioni, la risposta quindi tocca allo spettatore.