Nell’essere madri c’è solitudine, sofferenza, insicurezza. Dall’altra parte, le figlie rispondono con astio, ribellione e prepotenza alla mancanza di un rapporto che dovrebbe essere biologico e inesorabile. Come possiamo guarire la cicatrice lasciata da queste mancate connessioni?
Greta Gerwig ha abbracciato una delle tematiche più palpabili e vibranti agli occhi di una generazione di figlie incomprese quando nel 2017 ha fatto il suo debutto con Lady Bird. Acclamato e discusso dalla critica, il film è in realtà di una semplicità e banalità incredibile, ma in qualche modo ha colto perfettamente il rapporto teso e conflittuale tra Christine “Lady Bird” McPherson, in piena fase adolescenziale, e la rigorosa madre Marion. Tra le due c’è incontenibile attrito che si declina quotidianamente negli scontri tra le due. Ladybird, interpretata dalla talentuosa Saoirse Ronan, è un’adolescente a tratti detestabile ed egoista; si trova in uno stato di totale idealizzazione del futuro e della vita in generale, desidera profondamente una via di fuga da Sacramento. Si ritrova però a soccombere di fronte alla madre aspramente critica e delusa, che non manca mai di riflettere le sue ansie e frustrazioni nella figlia. Mentre Ladybird cerca di ricostruire un’identità tutta sua e del tutto svincolata dalla madre (partendo dal ribattezzarsi con un nuovo nome, colorandosi i capelli…), quest’ultima è del tutto incapace di esprimere affetto nei suoi confronti. Il forte carattere delle due porta a continui scontri passivo-aggressivi.
La Gerwig inquadra un rapporto che è al perfetto limite tra personale e universale; è una storia che ha funzionato bene per la sua autenticità, e perché tante adolescenti sopraffatte si sono facilmente immedesimate in quest’opera, dove madre e figlia sono incapaci di convivere l’una con l’altra. Alla fine, il nodo tra le due inizia a sciogliersi, e non appena le due donne affrontano la loro vulnerabilità, l’amore profondo sotteso tra le due riesce ad emergere.
Se quello di Greta Gerwig è un film in cui i rapporti interpersonali vacillano sui complessi psicologici dei personaggi, l’antecedente pellicola “È arrivata mia figlia!” della brasiliana Anna Muylaert verte invece intorno alle barriere conflittuali tra classi che hanno sconvolto gli equilibri del rapporto tra la madre Val e la figlia Jessica. Val lavora come badante presso una ricca famiglia i cui componenti sono detestabili e arroganti, e cresce il loro figlio con genuino amore materno. Paradossalmente, la figlia Jessica è rimasta invece a vivere in provincia con dei famigliari, e solo a 18 anni si recherà dalla madre; la vicenda segue le due nei giorni di visita della figlia, che si catapulta come un razzo, ingenuamente, in questa magione dove i confini tra status sociali sono chiaramente delineati. Così, la madre Val si ritrova in bilico tra l’ingenua e spensierata figlia, che ribadisce di non sentirsi inferiore rispetto ai padroni, e la consapevolezza di essere solo una badante in una reggia che non le appartiene.
È una pellicola, a mio parere, di un’artisticità incredibile, armoniosa ed equilibrata che rappresenta in modo crudo la polarizzazione del Brasile filtrata attraverso gli occhi di una madre estenuata che fa fatica a non criticare la figlia per i suoi eccessi.
Spesso, i nuclei familiari si ritrovano scissi tra adolescenti esuberanti, ma al tempo spesso incomprese e velleitarie, come Ladybird o Jessica, e madri tanto sofferenti quanto desiderose di comprendere in qualche modo le figlie.
Il dramma di essere una madre e il dramma di essere una figlia sono costantemente sovrapposti e in contraddizione; è un rapporto di due solitudini che si abbracciano e si allontanano continuamente, oscillando tra amore e odio, dolcezza e avversità. Greta Gerwig e Anna Muylaert lo sanno bene, e hanno dato entrambe una chiave di lettura di queste dinamiche personale e apprezzabile, lasciando un'impronta indelebile nella storia della cinematografia.
22/05/2024