Marcello mio - La commedia umana surreale costruita su Mastroianni
Eleonora Noto
Eleonora Noto
Giunge dalla penna del francese Christophe Honoré uno dei protagonisti più surreali della passata
stagione cinematografica. Si tratta della commedia esistenziale Marcello mio, a cui oltre che in fase
di scrittura Honoré ha lavorato per quanto riguarda la regia. L’intenzione è quella di impostare una
riflessione su un pesante retaggio genitoriale, e quale figura più consona ad incarnarlo se non quella
di Chiara Mastroianni, peraltro frequente collaboratrice del regista. L’attrice, figlia dell’icona tutta
italiana di cui porta il cognome (e, non secondariamente, di Catherine Deneuve) per una durata di
121 minuti abita una vicenda ricamata sulla sua figura, dall’andamento curioso e marcatamente
metalinguistico. Il progetto, presentato lo scorso maggio al sempreverde Festival di Cannes, giunge
nelle sale internazionali pochi giorni dopo.
Chiara Mastroianni è ormai adulta, i giorni dell’infanzia sono passati ma le silhouette delle figure
dei genitori sono nel suo presente ugualmente mastodontiche. Ovunque e comunque si muova, sia
nella vita privata che soprattutto in quella professionale, la presenza genitoriale è iper-presente.
L’attrice è stanca di sentirne il peso, di subire le interferenze di una madre (Catherine Deneuve) che
dispensa consigli non richiesti e di un padre, Marcello Mastroianni, che pur non essendoci più
sembra far sempre capolino. È esausta di sentirsi dire di recitare “meno à la Deneuve”, o di porsi
“più à la Mastroianni”. Il debito nei confronti della figura paterna è pressante e onnipresente.
Estenuata, Chiara giunge ad un elementare conclusione: mi volete come lui? Dunque diventerò lui.
Ed è così che, con l’aiuto di una parrucca, un completo, un cappello e dei baffi finti, Chiara smette
di essere se stessa per rendersi suo padre. Abbandona il suo francese di nascita in favore della lingua
italiana, ripropone le sue pose, pretende che la gente si rivolga a lei (a lui?) con l’appellativo di
Marcello. Assume la fisionomia dell’icona e assorbe le abitudini del padre, frequentando gli stessi
ambienti e facendo propri i vizi e le usanze. Di fronte ad uno stravolgimento tanto convinto e
repentino, i suoi cari non possono esimersi dal manifestare preoccupazione: in pochi la
assecondano, molti altri sollevano dubbi e perplessità. Ma, per quanto paradossale, il volo pindarico
della trasformazione può essere per Chiara ciò che le consente di imparare a nuotare da sola, a
destreggiarsi nella vita con le proprie forze.
Cristophe Honoré, per il quale Marcello mio costituisce il tredicesimo lungometraggio, con la
maestria dell’esperienza guadagnata nel tempo compone il surreale inno dei nepo baby, a cui un
fortunato albero genealogico può aver permesso di incontrare porte aperte, ma a costo di un ritorno costante a chi ha dato loro le chiavi d’accesso alla fama. Chi dunque meglio di Chiara Mastroianni,
doppia figlia d’arte, per dare corpo a questa condizione di vantaggio ambivalente. Attraverso un
percorso quasi psicoanalitico nel presente della protagonista, la sceneggiatura esplora il concetto di
eredità (chiaramente in senso lato, non di accezione monetaria), sempre in bilico tra propulsione e
fardello. Un retaggio di cui beneficiare, soprattutto agli esordi di una carriera “facilitata”, ma di cui
dover rispondere sistematicamente nel lungo termine. In questa commedia umana - l’etichetta è per
Marcello mio più che mai calzante - la concettualità poggia su una base di realtà concreta per
approdare a derive narrative. Il metalinguismo si fa così non solo proiettato sul corpo filmico, ma
anche sul personaggio. Ad andare incontro ad una lettura complessa e stratificata non è unicamente
il film, ma anche la protagonista che lo abita, di cui l’esperienza di vita tanto investe la trama.
Chiara è ovviamente Chiara, ma è anche Marcello, e questa dicotomia colloca il prodotto in un
limbo incerto fra vissuto reale e diegesi fictional. Certo, un andamento del genere comporta rischi
non indifferenti, e non a caso di tanto in tanto la trama vacilla. I passaggi dall’assurdo debordante
alla narrazione eccessivamente placida sono in effetti talvolta repentini, ma permettono comunque il
delinearsi di un piacevole anomalo racconto di formazione che ha per riferimento il mito.
Gli spunti d’ispirazione dell’approccio alla scrittura di Marcello mio sono plurimi, se si focalizza
sullo spunto serioso calato in una dinamica dai toni comici. Fra i tanti, è impossibile non pensare,
ad esempio, a Victor Victoria (Blake Edwards, 1982), storia di un trasformismo che ha segnato
un’epoca. Ma, giocando con l’elemento aggiuntivo di una metamorfosi rivolta ad una figura paterna
leggendaria, il meccanismo si eleva ad un piano indubbiamente più complesso. Data questa matrice,
il percorso è ancor più viscerale e incisivo. E quando infine Chiara, alla ricerca dell’eco del padre,
finisce per trovare se stessa, la nostra reazione più probabile è quella di un sospiro di sollievo di
fronte al sopraggiunto equilibrio. In questo sviluppo, la performance della protagonista si fa
inevitabilmente sentita. Chiara Mastroianni proietta il proprio vissuto su una scrittura che le è amica
mettendola però contemporaneamente alla prova. Ma a stupire forse ancor di più è l’autoironia e la
disponibilità con cui si avvicina al progetto l’altra sua componente genitoriale altrettanto
leggendaria, quella costituita da Catherine Deneuve. La diva affronta questa operazione scegliendo
un approccio giocoso, complice, non scontato (e dunque rispettabilissimo) dall’alto del suo statuto.
In definitiva, Marcello mio è un progetto che si ripiega su se stesso giocando instancabilmente con
le impalcature testuali dettate dai suoi personaggi. Nel farlo si diverte, e dunque non può fare a
meno di divertire a sua volta l’osservatore.