“It’s the destination, not the journey”
Intenso, toccante e profondamente realista, così si presenta “The Brutalist”, l’ultima opera del giovane regista Brady Corbet arrivata in sala il 6 febbraio 2025.
“The Brutalist” riporta il cinema al suo ruolo primario: raccontare una grande storia. La storia saggiamente ricamata dalle mani dello stesso regista e dalla sua compagna, Mona Fastvold, è un’epopea tragica composta da dolore, ambizione, amore e riscatto. La pellicola si apre con la sua immagine simbolo: la Statua della Libertà rovesciata. Essa ci anticipa una prospettiva distorta della realtà e del cliché del sogno americano. Con un lungo piano sequenza “brutale” il regista, ci spinge all’interno della vita di un uomo disorientato, che ha perso tutto; senza preamboli veniamo avvolti nel suo mondo fatto di ombre, di arte e di sofferenze nascoste sottopelle.
Chi abbiamo davanti è l’architetto ebreo-ungherese László Tóth, (Adrien Brody) che negli anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale dopo essere sopravvissuto all’olocausto, emigra negli Stati Uniti con sua moglie Erzsébet (Felicity Jones), sperando di ricominciare da zero.
László porta con sé una visione architettonica audace e rivoluzionaria, ispirata al movimento brutalista.
Quando un influente e misterioso mecenate americano (Guy Pearce) gli offre un incarico di grande portata, László crede di aver finalmente trovato il suo posto nel Nuovo Mondo. Tuttavia, il sogno americano si rivela ben presto un incubo: il compromesso tra arte e potere, le pressioni economiche e le tensioni personali mettono a dura prova il suo spirito creativo e il suo matrimonio.
Ma che cos’è l’arte brutalista?
Il nome brutalismo fu coniato dallo storico dell’architettura Reyner Banham e deriva dal béton brut, ovvero il cemento a vista, materiale utilizzato per la prima volta nel 1950 nell’Unitè d’Habitation di Le Corbusier a Marsiglia, progetto residenziale diventato vero e proprio simbolo del brutalismo.
Questo stile architettonico si basa infatti sulla funzionalità e non sull’estetica dell’edificio: per questo vengono utilizzati materiali industriali e grezzi, specialmente il cemento a vista, e forme imponenti e massicce.
Gli edifici in stile brutalista, oltre alle caratteristiche appena citate, si riconoscono per la chiarezza formale della struttura e per le piccole aperture in relazione alle altre parti che li compongono.
Nel film “The Brutalist”, l’arte brutalista non è solo un’estetica architettonica, ma un simbolo della condizione esistenziale del protagonista.
Il brutalismo, con le sue forme massicce, il cemento grezzo e la sua funzione sociale, diventa una metafora delle difficoltà, delle ambizioni e delle disillusioni vissute dall’architetto. Egli, come il movimento brutalista, è mosso da un ideale di funzionalità e di resistenza, ma si scontra con un mondo che preferisce il compromesso e il potere al rigore e all’integrità.
La sua architettura è il riflesso del suo stesso spirito: austera, monolitica, improntata a un’idea di bellezza che non cerca di essere accattivante, ma autentica. Anche la regia riflette l’essenza del brutalismo: le inquadrature spesso rigide e geometriche, i colori freddi e le strutture imponenti contribuiscono a creare un senso di oppressione e solennità. L’uso della luce e delle ombre esalta le superfici ruvide, richiamando l’effetto materico del cemento a vista.
In definitiva, “The Brutalist” utilizza l’arte non solo come ambientazione, ma come linguaggio visivo e tematico per raccontare una storia di lotta, idealismo e disincanto. Brady Corbet riesce a coinvolgerci e a farci restare senza fiato anche grazie all’uso di una colonna sonora studiata nei minimi dettagli: caratterizzata da sonorità sottili e talvolta dissonanti, aiuta a trasmettere il senso di solitudine e di alienazione che permea la vita dei protagonisti. Le melodie, lunghe e ripetitive, sembrano rispecchiare lo stato d’animo dei personaggi, in un gioco di riflessi tra suoni e immagini.
Le tracce sonore non sono mai invasive, ma piuttosto si fondono con il paesaggio visivo, creando un’atmosfera densa di tensione latente, permettendo così anche ai silenzi di avere un peso narrativo.
In un mondo in cui il cemento può essere tanto solido quanto fragile, “The Brutalist” ci
lascia con un interrogativo potente: l’arte può davvero resistere all’erosione del tempo, del potere e del compromesso? Mentre le imponenti strutture di László Tòth si stagliano contro il cielo, ciò che resta non è solo il suo lavoro, ma il peso ineluttabile delle scelte che lo hanno costruito.