“La tua carne è la sua fantasia”.
— The Human Centipede.
L’horror è il genere corporeo per eccellenza: un linguaggio senza eguali per la rappresentazione dei terrori del corpo, dei sentimenti più contorti e radicati, tendente a sottolineare e a sradicare valori e tradizioni becere a cui siamo troppo fusi per poterne riconoscere le sfumature — in momenti come questi l’arte oltre a essere un mezzo espressivo diviene anche un mezzo di riconoscimento e di consapevolezza, tanto da riuscire a ricoprire un ruolo fondamentale non solo per l’intrattenimento, ma anche per la scoperta di sé e del mondo circostante.
Tale rappresentazione, nei giorni odierni, rientra nei sottogeneri dell’horror e prende il nome di “body horror” o “horror biologico”. Erede del gotico, il body horror è intrinsecamente grottesco, richiamando le atmosfere più tenebrose e al contempo alimentando l’analisi psicologica del decadimento (horror psicologico) dei personaggi attraverso mutilazioni o trasformazioni, rendendo così il corpo del soggetto in questione “mostruoso”. È importante notare, a questo punto, che per la creazione di un mondo gotico si necessita un’alterità mostruosa e il modo più facile per individuarla è attraverso la corporeità. I film appartenenti alla sfera del body horror si propongono di esplorare le paure radicate dell’uomo nei confronti del corpo, soprattutto dopo l’evoluzione scientifica e tecnologica, che hanno determinato rilevanti scoperte riguardo le capacità e i limiti dell’essere umano. Gli aspetti spettrali e inquietanti dell’horror ottengono sempre una grande considerazione, a differenza degli aspetti somatici e corporei, i quali, basandosi sulla consapevolezza dello spettatore del proprio corpo, giocano con la possibilità dell’esistenza di qualcos’altro, qualcosa che non possiamo vedere e che, di conseguenza, temiamo. La paura dell’ignoto è un movente perfetto, sempre attuale, con una storia culturale e sociale (in)espressa nelle arti: in quest’articolo, prendendo in esame la settima - ovvero l’arte del cinema -, mi prospetto di analizzare i messaggi inviateci dai film «body horror», con l’aspettativa di trovare corrispettivi con la società odierna.
Un punto saldo del cinema horror è sicuramente occupato da Rosemary’s Baby (1968), film diretto da Roman Polanski. Questa pellicola è una delle prime ad avere caratteristiche body horror, trattate con un surrealismo e un realismo incredibile, tantoché influenzerà opere successive come l’Esorcista (1973) di William Friedkin, altro classico indimenticabile.
La storia verte su due giovani, Rosemary e Guy Woodhouse, che vanno ad alloggiare a New York nell’American Gothic Dakota Building, esperienza che col passare del tempo si trasforma sempre più in un incubo. Infatti è qui, nel Dakota, che risiede una setta decisa a generare il figlio di Satana. Ergo, i temi centrali del film saranno la procreazione e la maternità, argomenti che vengono inquadrati proprio dalla protagonista Rosemary, seppure in modo semi soggettivo. L’horror s’intreccia dunque al quotidiano e poi al sacro, toccando la generazione che è divina, ma al contempo malvagia. La paura femminile di procreare si plasma nella constatazione che generare non è altro che l’ennesimo meccanismo conformista per controllare la donna e il suo potere riproduttivo ingestibile. Ed è infatti il marito di Rosemary, Guy, a vendere il figlio al Demonio, testimoniando quanto sia integrato in quel meccanismo; mentre la protagonista lotta, portando lo spettatore a vagare fra paranoia e realtà fino alla fine del film, che si conclude con l’accettazione da parte di Rosemary del figlio, ossia un “mostro”. Una volta presa coscienza della mostruosità del corpo, non si teme più soltanto il pericolo dell’essere misterioso, ma anche delle caratteristiche umane di quest’ultimo, poiché la presenza di queste prevede anche una dose di mostruosità riservata agli umani. La maternità di Rosemary, non controllata e scelta da lei, rappresenta la repressione della femminilità, di una società che regolarizza la famiglia e la sessualità delle donne, così da non far crollare il patriarcato. Il corpo della protagonista muta nel film, appare inizialmente come lucente e adolescenziale, fino a diventare
smagrito e incavato; questa metamorfosi è il passaggio da figlia a madre, da un soggetto controllato dalla società ad un altro, forse più spaventoso. «La gravidanza è una trasformazione del corpo così estrema che ha come risultato un’altra persona. In questo non somiglia a nulla, eccetto, forse, al cambio di sesso» dice la teorica Andrea Long Chu.
Uno dei maggiori esponenti del body horror è David Cronenberg, regista inimitabile e indimenticabile: caratteristiche che ci vengono dimostrate fin dall’inizio della sua carriera, ma che ricevono il giusto riconoscimento solo dopo molto tempo. Ricordiamo, pertanto, Videodrome (1983), pellicola in cui Cronenberg più che mai disegna la sua poesia della carne, creando una dimensione mai vista prima, nella quale entra a far parte anche la tecnologia. Ma come ci riesce? Codificando e plasmando le fantasie più desuete dell’essere umano, giocando con le loro menti e con i loro corpi. La storia riguarda Max Renn, presidente di un programma televisivo che imbattendosi in “Videodrome”, show incentrato sulle torture carnali, si ritrova in un vortice di allucinazioni e deliri. Il protagonista è talmente affascinato dal canale che il virtuale e il reale inizieranno a fondersi, riuscendo a rappresentare meravigliosamente il rapporto tra uomo e immagine multimediale. Ma prima di questo ci viene presentata un’ideologia innocua, dove l’obiettivo è solo soddisfare le pulsioni incontrollabili e calmare le frustrazioni. Eppure è proprio l’innocenza di questi stimoli a portare all’eccesso. Con il mondo della tecnologia, e soprattutto attraverso il mondo della tecnologia, si scopre che c’è sempre qualcosa in più che si può sopportare. Il film è proprio questo, una valanga d’informazioni, che portano a quello stato confusionale, non permettendo più di riconoscere, per esempio, la violenza finta, dalla violenza vera. Cronenberg mediante il corpo parla della mente, del suo decadimento al seguito di uno stimolo come la tecnologia, che si propone di sostituire la realtà stessa, riuscendoci. La trasformazione di Max in un organico videoregistratore, pronto ad accogliere nel suo ventre una fetale videocassetta, è una manipolazione, un modo per trasformare il corpo e portarlo a nuovi stimoli sensoriali. Una pellicola dove l’annullamento dell’umanità e della libertà di pensiero avviene sadicamente e in cui l’unica salvezza è la morte (rinascita), un’ennesima alterazione della realtà. Ed è quindi un “lunga vita alla nuova carne”.
Tutte rappresentazioni che riflettono ancora la società, dalla donna-madre, all’uomo tecnologico. Tuttavia, ce n’è ancora una di cui vale la pena parlare: questa tratta un aspetto che ha sempre, in un modo o nell’altro, caratterizzato l’umanità, ed è quello dell’incomunicabilità, che potrebbe in ogni caso essere analizzata come conseguenza della tecnologia. Il film in questione è The Human Centipede: First Sequence (2009) di Tom Six, primo di una trilogia. Storia alquanto classica, che si apre con il Dr. Josef Heiter, chirurgo specializzato nella separazione di gemelli siamesi, che rapisce tre turisti e li rinchiude nella sua casa con l’intento di trasformarli in un millepiedi umano, cucendo la bocca di uno sull’ano dell’altro. Col suo sadismo disgustoso, la pellicola fin dall’inizio, tramite pianti soffocati e violenze lasciate all’immaginazione, ci fa comprendere che la disperazione è l’elemento portante, enfatizzando la vulnerabilità della carne e della sua complessità. È evidente che il film faccia riferimento alla Seconda Guerra Mondiale: il dottore, tedesco, col nome richiama a Mengele e col cognome a Hitler, mentre le vittime (due ragazze americane e un ragazzo giapponese) completano il quadro, che è chiaramente ben radicato in un contesto altrettanto specifico. Non è un riferimento approfondito, ma sicuramente non banale, poiché ci porta direttamente al tema principale: l’incapacità di comunicare; infatti le vittime parlano lingue diverse e due di loro hanno la bocca cucita. Nel finale del film, Katsuro (il ragazzo giapponese), inizia un monologo affermando d’essere un insetto e che il dottore invece, è Dio, andato a punirlo per aver lasciato la sua famiglia. Egoisticamente, Katsuro infine, decide di tagliarsi la gola; assieme a lui muore anche la ragazza che conclude il Millepiedi, a causa di un’infezione, lasciando così sola l’amica, intrappolata fra i due corpi e destinata a perire — la sua condizione potrebbe riferirsi alla solitudine e, di conseguenza, riportare al centro del discorso l’assenza di comunicazione.
Queste opere, seppure molto diverse, hanno in comune il mezzo col quale comunicano i propri messaggi e disturbano lo spettatore. Questo mezzo è il nostro corpo, dove tutto nasce e tutto muore, artefice di miracoli, ma al contempo carnefice di peccati.
Il sottogenere del body horror si contraddistingue perché non distrugge, bensì trasforma.
10/07/2024