Carrie non è il primo romanzo di Stephen King. O meglio, è il primo che sia stato pubblicato, ma non il primo che ha scritto. King infatti si è dedicato alla scrittura sin da adolescente, scrivendo sui giornali del liceo e dell’università. Quando nel 1974 Carrie viene pubblicato per la prima volta, King aveva già scritto molti racconti (qualcuno di questi uscito per pochi dollari in delle riviste, e poi sono stati raccolti per la maggior parte in Night Shift) e diversi romanzi (alcuni di questi rifiutati dalle case editrici) fra cui The Long Walk. Quando King si ritrova a dover scrivere Carrie quindi, non è un giovane scrittore alle prime armi che vuole intraprendere la sua prima opera, ma è già un uomo che ha dovuto superare precedentemente tutti gli ostacoli si presentano davanti a uno scrittore alla prima stesura di un libro. Alla luce di ciò, non stupiscono l’organizzazione, lo schema e la fluidità della narrazione.
Attraverso la storia di Carrie, una ragazzina bullizzata da tutti sin da quando era piccola e che vive con una madre fanatica religiosa, King riesce a dipingere e a restituire la realtà della vita nelle cittadine americane. Il romanzo è ambientato a Chamberlain, una piccola città nel Maine, in cui tutti i cittadini vivono tranquilli le loro vite e sembrano apparentemente felici. Ciò che King riesce a far risaltare con grande abilità è la caratterizzazione dei personaggi, senza mai tuttavia cadere nella generalizzazione più estrema. È proprio attraverso i personaggi che King analizza e critica tutte le componenti della vita in America.
Innanzitutto, la maggior parte dei ragazzi che frequentano il liceo di Chamberlain sono figli di borghesi benestanti, non hanno nessun problema sociale e/o familiare e trascorrono sereni la loro adolescenza. Fra questi c’è il classico gruppetto di ragazze viziate (la cui cattiveria viene mostrata in apertura di romanzo), il belloccio della scuola, il ragazzo violento pluribocciato tutto macchine e gelatina ma senza cervello. Sebbene questi possono sembrare (e lo sono) i classici stereotipi ormai noiosi, ognuno di questi personaggi vive invece un travaglio personale interiore dopo l’atto di bullismo con cui inizia il romanzo. È interessante notare come venga dato molto spazio anche agli adulti: nel libro ci sono infatti ampi dialoghi che mostrano come consciamente o inconsciamente anche loro subiscano i comportamenti dei propri figli e le ripercussioni del “caso White”.
King riesce a mostrare questo grande affresco senza mai entrare con voce giudicante all’interno del racconto, grazie al continuo cambio di narratore. Il romanzo infatti è strutturato in modo tale che ogni porzione del racconto sia estratta da fonti scritte composte in precedenza sul caso White (è un espediente narrativo dell’autore, che attraverso questa composizione riesce a mostrare i punti di vista della comunità scientifica, dei magistrati, e dei sopravvissuti al massacro che hanno scritto libri o sono stati intervistati al riguardo). Se il lettore riesce a filtrare tutte queste informazioni riconducendole ad un unico e solo grande tessitore (Stephen King), vede il punto di vista dello scrittore. King si pone come un regista con il solo intento di mostrare, e non attacca nessun personaggio moralmente. Si percepisce però l’intento da parte di King di voler mostrare l’ipocrisia di queste cittadine e dei loro abitanti, e le pressioni che la sua generazione ha subito in quell’America devastata dall’esperienza in Vietnam e di una politica noncurante dei propri cittadini. Emblematico di questo aspetto è il personaggio di Thomas Quillan. Figura che compare solo verso la fine del romanzo, e che non ha un ruolo nemmeno secondario ma terziario (se non ancora inferiore); è un onesto lavoratore che il giovedì (giorno di paga) va a sbronzarsi al pub locale. Tuttavia, ha la “sbronza cattiva” e sa che quando l’alcol sale deve andare direttamente al commissariato così da passare la notte in cella a dormire e non commettere guai. Quando Thomas racconta del suono della sirena partito a causa dell’incendio provocato da Carrie, dice: “non avevo mai sentito suonare la sirena di notte da quando è finita la guerra del Vietnam.” Ora, noi non sappiamo se Thomas Quillan abbia partecipato o meno alla guerra del Vietnam (è probabile considerando che non è sicuramente un ragazzino; ed è anche probabile che sia proprio per quei traumi che ha bisogno di ubriacarsi settimanalmente) sta di fatto che questa esperienza è stata per lui, e per la generazione di King, traumatica. Questo semplice esempio ci ricorda che il talento di un grande autore sta nei dettagli, la grande critica nelle cose non dette, e la letteratura nell’ambiguità.
Fino ad adesso non ho mai parlato della protagonista, Carrie White, se non tratteggiandola appena, e accennando solamente qualche cosa anche riguardo al massacro che compirà. Questa cosa avviene anche nel romanzo. Carrie non viene presentata subito, ma si scoprono tratti di lei man mano che si va avanti con la lettura. Carrie è una protagonista molto atipica, sappiamo il suo punto di vista ma raramente è lei a raccontarcelo. La sensazione che il lettore ha di Carrie non proviene soltanto dalle azioni e dai pensieri di Carrie, ma anche e soprattutto dalle impressioni che ne hanno i vari narratori. Nonostante questo, è ben chiaro chi sia Carrie: una ragazzina che ha solo bisogno di qualcuno che le voglia bene, ma che non l’ha mai avuto. Durante il massacro finale diversi personaggi che entrano nell’area dove Carrie sta sfogando il suo potere sovrannaturale percepiscono che lei sia Carrie White, anche se non l’hanno mai conosciuta, intuiscono che quella carneficina sia opera sua, anche ne avrebbero potuto avere idea. Carrie, persino nel momento in cui ha perso la ragione e si è lasciata dominare dal potere, fa quello che ha sempre fatto sin da piccola: ha chiesto aiuto. Aiuto da parte di chiunque passasse, di chiunque fosse disposto a immetterla correttamente nella società (e Carrie fa sempre di tutto per essere ammessa). Per questo motivo va in chiesa a nonostante le ferite, perché questo è quello che sua madre le ha insegnato: quando si deve chiedere aiuto lo si chiede a Dio.
King in Carrie si dimostra uno scrittore conscio di ciò che vuole comunicare e che sa comunicarlo. La dimostrazione di ciò si dà dal fatto che il lettore, immerso nel racconto, riesca ad empatizzare e rivedere un pezzo di sé in quasi tutti i personaggi. King sa che noi essere umani (e noi borghesi) siamo pieni di contraddizioni. Ed ecco allora che diventiamo Carrie White: persone comuni che non sono mai state ascoltate ma che in realtà dentro celano un intero mondo (fatto anche di bellezza, come è la stessa Carrie alla notte del ballo studentesco quando decide di trasgredire le regole della madre e di vestirsi da sera e di truccarsi); ma siamo anche Sue Snell: membri del branco che per mantenersi deve trovare il capro espiatorio, ma che ad un certo punto rifiutano questo modello e capiscono la giusta strada; siamo Tommy Ross: stronzi ma buoni; e infine siamo anche Christine Hargensen: non ci importa se sappiamo di essere nel torto, quando ci levano da sotto il naso ciò che abbiamo sempre avuto, vogliamo vendetta. Ed è nel finale di Carrie che King dimostra di conoscere la più grande delle lezioni che la filosofia di Schopenhauer ci ha insegnato: l’uomo non impara, e la storia si ripete.
22/05/2024