Capelli neri, Cassandra, lunghi, Cassandra, pelle d’avorio, Cassandra, luccica di riflesso, Cassandra, forma spigolosa, Cassandra, pungente, Cassandra, parole di ghiaccio, Cassandra, occhi artici, Cassandra, espressione marmorea, Cassandra, labbra dure, Cassandra, voce nera, Cassandra, maledetta Cassandra.
Mi fisso le dita troppo affusolate, aghi per filare, sbagliate rispetto alle mani di soffice delicatezza delle altre donne. il piatto d’argento mi mortifica rinviandomi l’immagine spiritica, inveisce al mio orgoglio, le altre brune ed io di neve sono tinta; la bellezza non mi appartiene, non come alle mie sorelle.
Mi giro, schiocca il legno della porta, entra Ecuba, forse dovrei chiamarla madre. No, la sua bellezza non mi appartiene, la chioma di terra non è la mia, la pelle ambra non mi si accosta, le forme abbondanti ed accoglienti non si riflettono nelle mie: mi è sempre stato fatto notare. Elegante, regale anche nel feroce passo domestico, viene verso di me col pettine intarsiato. Vorrei urlare ma non mi è permesso aprire la bocca. Vorrei scappare ma sono assediata.
Dita, tanto fini quanto violente, mi stringono tenendomi da sotto la nuca: la mia testa è ribaltata, i capelli notturni sfiorano il pavimento. Si accanisce. La tortura quotidiana inizia: tira, strappa, risale, riscende:
Quanti capelli perdi. Mah, almeno se diventi pelata ti metto una parrucca di un colore normale.
io ci sono nata così. Ne ho colpa. Strappa ancora, il dolore è soffocante, velenoso, tagliente.
Io Cassandra maledetta, con le parole distruggo e da parole non mi lascio narrare, blocco e porto sfortuna, errori di distrazioni ma poi maleficio, distruggo quel che mi riguarda perché di me niente si sappia, perché di me niente rimanga.
Le mura della mia cella sono decorate, fini di donne ben posate, donne giuste dai sorrisi lucenti, calde nei seni e nei caratteri. Propiziatorie. Le guardo, il cuore si ferma, sono errata, la macchia nera sulla stirpe di Priamo. La mia morte è auspicabile e lo so bene. Mi viene ripetuto sempre:
Che gli dei prendano te prima che chiunque condivida la tua aria muoia.
L’amore mi ripudia, quello dei genitori sempre negato, tramutato in odio che ormai mi scorre nelle vene. L’amore di fratelli e sorelle congelato nell’attimo in cui dissi le prime parole funeste, fingono ora che io non esista, ma la mia esistenza effettivamente è effimera, esisto solo nella condizione di esistenza datami da queste quattro mura che mi rilegano. Gli uomini mi fuggono, non vogliono morire nel talamo né condividere la casa con un rigurgito dell’Acheronte, figlia illegittima delle melme dell’Ade.
Lentamente, mentre assorbo quelle immagini, il mio cuore ricomincia a battere: dei tonfi irregolari, tuffi nel vuoto che risalgono dal profondo dello stomaco, stomaco nel quale Paride doveva infilare una lama lucente; sale e il cuore ci si tuffa, dolore che piange dalle mie viscere, silenzioso serpeggia levandomi il respiro, bloccandomi ogni pulsione vitale. Le donne davanti a me vivono più di me, sopravvivo vanamente per dispiacere la mia terra; loro dipinte nella pietra sono morbide, invitanti, io scolpita nella carne, repellente. Hanno uomini, hanno amore: ricordo a palazzo ambasciatori che apprezzavano la meraviglia di queste donne danzanti, la amavano come la bravura canora delle mie sorelle, parole d’oro e fiumi d’ambrosia dalle loro gole dicevano, abissi di morte e aliti d’inferi dalla mia bocca, dicevano.
Sono contrapposta ad un mondo che rovino, sono estranea nella bellezza della terra, terra che non mi è mai stata mostrata, l’avrei distrutta con il mio passo.
La luce è fuggita dalle nostre terre, abbandonato disertando la mia stanza. Non ho candele, ceri né qualsiasi altro tipo di fonte di luce. L’unica scelta è quella di mettersi nel letto, sprofondare in una tomba oscura di disperazione stratificata. Sono pietra. Con movimenti rapidi rimbocco e sistemo il giaciglio nel quale anche questa notte morirò con la speranza di non resuscitare, di tornare nell’Ade dal quale sono stata sputata fuori.
Tremo leggermente, tutto tace, le cicale non suonano più. Sento delle risate, le palpebre iniziano a tremolare, come un tic nervoso. Mi agito. Sta per succedere. Il mio corpo scatta, lo sento aprirsi a stella, non risponde ai miei comandi. Gli occhi si spalancano. Tutto è nero, gli occhi non vedono. Il rumore risorge dal profondo del mio animo, boati e fiamme, legno che arde nelle mie orecchie. Vorrei strapparmi i timpani. Vorrei strapparmi il cuore. Le ombre si manifestano, prendono limiti, confini. Si muovono. Urlano distruggendo la mia razionalità. Sono in un’estatica tortura sulla quale non ho potere. Troia è assediata, mio padre morto, mia madre schiava. Mio fratello solca il la circonferenza delle mura con il cranio spaccato. Il sangue sgorga dalla trachea di Eleno, corre giù per le mura annaffiando le terre aride. Troia brucia, un rogo di legno equino, il cranio di Paride è infilzato su una lancia, i muscoli del collo penzolano sbrindellati. Mi alzo di botto, urlo, vomito, il cranio mi sanguina per le ciocche di capelli che mi sono strappata.
È tornato tutto nero. Calmo. Piango.
Sono risorta anche questa mattina. Sono stanca, il cuoio capelluto è coperto di sangue raggrumato, la mia linfa è stata bevuta dalla maledizione di Apollo: maledetta dal giorno in cui mi negai al Dio. Sbatto le palpebre e in quel millisecondo rivedo tutto, le fiamme e la morte. Sono perseguitata. Arida dentro dalla consapevolezza che le mie parole non sono ascoltate, solo un malaugurio destinato all’avversarsi.
Mi alzo e vado davanti lo specchio d’argento, voglio farmi mortificare, voglio essere giudicata. Mi guardo e la mia immagine è tanto distrutta quanto le mie viscere: la pelle sotto gli occhi irritata e spaccata dalle lacrime e lo strofinio per asciugarle, lo scalpo pieno di capelli solo in alcuni punti, impastato di marrone sanguigno; gli occhi artici spenti, non riflettono più, pieni delle ombre della morte, pieni della guerra. Sono pazza. Ho l’aspetto di una pazza. Sono rinchiusa e nonostante questo la mia follia riesce a rovinare l’esistenza idilliaca disegnata dagli dei. Ha ragione Ecuba, nella mia anima corrotta serpeggia il soffio di follia instillatomi dalle anime dannate, sono dannata e dannatrice, peccato e peccatrice.
Rido e rido di gusto, una risata essenziale e primordiale. Continuo a ridere guardando il cadavere nello specchio. Gli occhi sono spalancati più del normale, il dolore sta scappando nero dal mio corpo. Mentre rido si riversa nella stanza, quando guardo fuori dalla finestra si riversa sul mondo. Continuo a ridere perché mi sta salvando, gli occhi continuano ad aprirsi; sto inondando il mondo della mia sofferenza. Voglio guardarmi. Corro avanti e indietro per la camera: cerco quel che riflette, ogni superficie che possa sdoppiarmi. Rido, rido, rido perché non trovo niente, non ho mai avuto diritto a nessun oggetto non essenziale:
Sarebbe sprecato per te.
Allora continuo a ridere perché ora lo vedo, il dolore mi abbandona e la lucidità di un’esistenza schifosa si palesa sempre di più. Salto, urlo euforica ed in preda all’estasi più totale. Trovo l’unico oggetto che possa sdoppiarmi, ma ha anche il pregio di liberarmi.
Mi allungo saltando verso il letto. Afferro una daga affilata e lucente, regalo e messaggio di quel che avrei dovuto fare anni fa. Mi devo liberare. La sollevo e un raggio la fa riflettere di speranza e vendetta. Rido con tutto il cuore in festa, letizia pura. Lo abbasso. Lo punto dritto sull’unica uscita disponibile in quella stanza. Lo spingo con tutta la forza che ho, giro la lama tanto fredda quanto affilata per aprire la fessura il più possibile, intanto rido.
Non rido più. L’uscita è spalancata. Sono libera.
Mi guardo il ventre: la veste bianca è inzuppata di sangue zampillante, socchiudo gli occhi e non sorrido neanche più; godo della libertà, godo della vendetta. Tutto il mondo ora sarà conquistato e distrutto dal mio sangue nero, tortura liquida a cui mai nessuno ha voluto dar retta. Ora tutti se ne pentiranno.
06/03/2024