Questa sera mi sento rissoso. Stringo i polsi e attendo impietrito. Sono frustrato agli occhi di quello che mi tocca guardare: un bruco si sta mangiando una mela; prima la buccia, poi la polpa, il torso e il picciolo. Mangia così lentamente che forse la mela marcirà ancor prima che quello finisca di mangiarsela! Morirà di fame, insomma, ma la colpa è solo mia: -vedete- dovevo fare dei bruchi più grandi o delle mele più piccole; la fame più lenta o la bocca più veloce. Un completo disastro, mi toccherà rifar tutto daccapo, per l’ennesima volta.
Nel farsi della notte impastavo la terra.
Il mio desiderio era piuttosto semplice d’altro canto: già, ma cosa volevo? A stento ricordo ciò che ho sempre voluto.
Toccava lavorar di notte. Quando l’argilla se ne stava fresca ed il silenzio del buio mi aiutava a dipingere i corpi delle persone: li facevo coi vestiti, le camicie e le cravatte; persino con orecchini e gemelli. Ad alcuni facevo delle labbra più sottili delle mie, ad altri -forse- delle iridi più colorate e dei capelli più lunghi.
Ancora. Di notte. La terra.
Stupidamente credevo che il mondo avesse bisogno di compagnia, come se avesse avuto bisogno del respiro, dei passi e delle parole delle persone. In verità, io ne avevo bisogno. Per questo motivo faticavo e sudavo disperatamente; i miei desideri più profondi rantolavano nel buio e, coi palmi delle mie mani sudate, cercavo di portarli alla luce.
Allo sciogliersi dell’alba raccontavo una fiaba.
La terra era difettata. Ve lo giuro, credetemi: era rotta o bacata! Se ne stavano tutta la notte immobili e fisse altrove; fin su in alto nel cielo, là dove volano farfalle e rondini. E non appena i primi raggi del sole svelavano il mio egoismo, le mie fatiche si sgretolavano in mille ciottoli e polveri fino a coprirmi la vista e riportare la notte nel mondo intero. Dimenticavo qualcosa: già, ma che cosa?
Ancora. All’alba. Una fiaba.
Palpitava il mio cuore, mentre dalle macerie scricchiolavano voci e risate che mi facevano indietreggiare e sudare fin sotto i talloni; scivolare per terra e sbattere la testa su una corteccia di sughero -io sono un codardo e di farmi male non ne voglio mica sapere!
Dalla sabbia emersero delle creature estranee alla mia intenzione: le nottole. Proprio in quell’istante la mia Frustrazione si fece carne: proprio quella che stringevo quando fallivo. Erano la negazione del mio lavoro, del mio desiderio; avevano il manto fatto di Vergogna e il corpo di Lussuria. All’ombra del meriggio, il preludio della fine.
La pelle della nuca si scotta. Il sole del mezzogiorno brucia e arde la pelle: ero costretto così a fare ombra ai miei occhi, costretti a guardare dove le nottole si stavano cacciando. Vagavo senza direzione alcuna sulla sabbia calpestata solo dalle mie caviglie incrinate; le burrasche e i fulmini. Tu dove sei?
Ancora. Al meriggio. La fine.
Ve lo dico io! Quelle vedevano le cose a testa in giù: la speranza e il timore al contrario, il bene come se fosse il male; addirittura, come se le radici degli alberi fossero i rami e le frasche. Come se le nuvole fossero la terra e i prati.
La notte, l’alba e il meriggio.
Presto mi trovai costretto in una grotta e, nudo, dovevo subire le Loro cattiverie. Mi mostravano giochi di ombre, illusioni di viole e tulipani; bugie e frattaglie. Mi mentivano dicendomi che fuori -nel mondo- c’erano persone e cose proprio come io stesso me le ero immaginate. Ma io sapevo che nemmeno nei sogni la realtà poteva essere così perfetta, tantomeno qualcosa fatto da me.
Ancora.
Ma all’imbrunire balbettavo. Le nottole scappavano irretite dalle loro tane; la notte che le aveva concepite le terrorizzava e le faceva urlare maledizioni contro di me.
Solo, osservavo la luna mentre mi raccontava il vero: faceva chiaro sui miei dubbi e curava la mia pelle dalle bruciature. Riuscivo, per un momento del giorno, a sentire i Suoi mormorii: troppo lontani e silenziosi per essere ritratti. Schiariva la mia voce dai dubbi e immediatamente capivo dove sbagliavo, come se il cranio si fosse aperto ed avesse esposto la carne del cervello all’aria; le idee nocive e superflue erano volate via col vento della sera.
<<Ho fatto dell’uomo un mestiere e non un’arte; la vita una necessità, non un’opportunità! Ho deciso, voglio la Luna!>>.
La notte. L’alba. Il meriggio.
Provo per l’ultima volta con la terra: <<Questa volta senti le mie intenzioni, lo voglio a testa in su, e che guardi il mondo dal verso giusto; questa volta, dev’essere un uomo a regola d’arte!>>.
Attendo nudo nella caverna, sopportando i soliti spettacoli. Questa volta le ombre sono accompagnate da strilli, risate e versi blasfemi. Ma la Luna m’impedisce di soffocare e tiene vivo il mio corpo, oramai al limite.
La notte. L’alba. Il meriggio
Questa volta la sabbia si scioglie, cola per terra, bolle per poi evaporare. Sento dei colpi di tosse, la visione non è ancor nitida. Silenzio. Malapena respiro dall’ansia e perfino i miei pensieri balbettano alla sola idea di dover uscire, ma non ho più tempo per le domande.
La sagoma di un uomo mi si avvicina. Vedo dei colori. L’immagine sfocata s’infrange in un ghigno aberrante; stringo la mia carne. Era un giullare. Porta al collo una serpe e tutt’intorno alle braccia, delle catenelle. Fra i denti tiene una collana sporcata dal suo rossetto, lo stesso colore del naso. La serpe striscia fra la sua parrucca di mille colori e nessuno; sibila e mi mostra le fauci. Stringo la mia carne: questa è Paura.
Ancora.
<<Dammi la Luna!>>. Volevo gridagli a pieni polmoni, ma le catene di quel giullare mi strozzavano e sbavavo dalla bocca. Mi ha poi sbattuto fuori dalla grotta in pasto alle nottole. Mentre mi mangiano vivo piango. Prima, le lacrime bruciano i miei tagli poi, scavano la terra fino a inondarla del tutto: che fortuna, le nottole non possono finire di mangiarmi.
Il giullare cammina sul mare delle mie lacrime; s’avvicina con le sue meste danze mentre i miei fallimenti volano sopra di noi. <<Voglio solo che la Luna mi sussurri parole con cui raccontar delle fiabe, nulla di più>>. Mi ripeto mentre stringo la mia carne.
Ma il giullare non sente e con la collana sprofonda la mia testa nell’acqua. E con gli occhi a penzoloni sul gracidio delle sue menzogne; annego nella mia perdizione e il rimpianto di non aver potuto parlare con quelle mie creature. Avremmo potuto provare con gli specchi e col verde che fanno quando li metti uno di fronte all’altro; avremmo potuto usare i segni, i versi o le botte; avremmo potuto insieme piangere fuori dal tempo. Sto annegando.
La notte. L’alba. Il meriggio.
Infine, un pettirosso appoggia le zampe sulla mela oramai bacata da un pezzo e si mangia il bruco.
POESIE
nella notte
sentii la mia collera sbiascicare fra le mie braccia; ossia
mentre tentai di strapparmi il dubbio di dosso. Invano caddi a terra e tutto d’un tratto,
presi sonno in grembo
al deserto cocente.
di meriggio
vagabonda,
la mia mente sulle brune
Spiagge; si frantuma
in Silenzio.
all’alba
e come le spiagge
anche il cielo. i Suoi frammenti
han fatto le stelle, ed
io solamente
potei vederti fissa
lì
in alto.
06/03/2024