Apro gli occhi ma sono già sveglio da un po’.
A quest’ora è tutto così silenzioso, così mite, il mondo è ancora immerso in quel torpore denso di sogni, da cui presto tutti saranno svegliati. Silenzio. Potrei sentire i pensieri dei miei compagni di stanza che si rincorrono, che viaggiano lontani nonostante siano lì, vicini a me.
Io ultimamente dormo poco, ma quando finalmente le palpebre si fanno pesanti, e quell’inerzia inspiegabile mi porta con sé, sogno anch’io. E sogno soprattutto il mare. Il mare di Ostia, quello che conoscevo, quello che da ragazzo raggiungevo a giugno, finita la scuola e quello che agognavo per tutto il resto dell’anno.
Il mare è sempre stato la stella polare della mia vita. Mi sentivo come lui, invincibile, infinito, come lui senza una dimora precisa, ma libero di andare ovunque, abbastanza determinato per riuscire ad arrivare lontano ed infrangermi sulle coste.
È questo che più mi fa male della malattia. Mi ha tolto ogni libertà. Sono attaccato a questa maschera d’ossigeno e a questi macchinari, e lo sarò per sempre.
La luce si accende. Un’infermiera ancora assonnata controlla i parametri nel monitor. Nulla è cambiato, tutto è come il giorno precedente, e quello prima ancora, ed è così da due anni.
Come tutti i giorni verrà la mia compagna, forse mia madre, un amico passato lì per caso che decide di venire per ricordare un tempo che è stato e non sarà mai più, poi chiuderò gli occhi di nuovo.
Ecco che arriva Francesca. Che bella che è. Con quegli occhioni grandi e quel sorriso timido nascosto tra i capelli chiari entra nella stanza e la inonda di luce. È questo che mi ha fatto subito innamorare di lei: il sorriso. E anche la semplicità.
Ogni mattino temo di svegliarmi e di non vederla più. No, non per altri effetti dell’incidente. Ho paura che si stanchi di prendersi cura di un uomo che non può più fare né dire niente.
Mi sistema la maschera dell’ossigeno e mi accarezza il viso.
Quanta delicatezza dopo i gesti frettolosi dell’infermiera.
Mi asciuga gli occhi umidi, e mi guarda.
Chissà se ricorda il giorno in cui ci siamo conosciuti, una primavera di dieci anni fa, in una gelateria a Roma, quella vicino Ponte Milvio, e lì ci siamo innamorati.
Dopo l’incidente non credevo che decidesse di rimanermi accanto, io non posso neanche più parlare, dipendente da questa maschera, e lei mi rimane seduta accanto, ancorata tenacemente alla volontà di farmi rimanere in vita.
Questo amore disinteressato, innocente mi commuove e mi spezza il cuore al tempo stesso.
Le vorrei urlare di andarsene, di lasciarmi qui a combattere con i miei demoni e di non permettere che la mia vita riempia di tenebre la sua.
Ma come faccio a dirle tutto questo, io che riesco solo a muovere gli occhi.
Arriva il dottore a rassicurarla, a dirle che le mie condizioni sono stabili, che posso sentirla.
Da quando le hanno comunicato questo, dieci mesi fa, non mi ha mai rivolto la parola.
È una cosa strana. Mia mamma appena l’ha saputo ha iniziato a fare monologhi, a espormi pensieri, a farmi domande pur sapendo bene che io non avrei mai potuto rispondere.
Francesca invece no.
Si era chiusa in un silenzio denso di aspettative, di speranze.
I primi tempi credevo che provasse rabbia, o vergogna, o entrambe.
Solo ora capisco che alle volte, quando la vita va così, non c’è proprio nulla da dire.
E allora lei si siede, e mi guarda.
Non è uno di quegli sguardi vacui, di chi pensa ad altro e guarda l’orologio aspettando il momento opportuno per andarsene.
No, lei mi scruta, mi osserva per capire come sto davvero, come sto dentro.
Tra poco se ne andrà e inizierà la sua giornata, porterà Elia a scuola, andrà a lavoro e tornerà domani, pronta a farsi rompere un altro pezzettino di cuore vedendomi.
E infatti si alza, mi da un ultimo bacio sulla guancia, e attraversa quell’uscio bianco, portando via con sé il calore di un amore che è solido, integro, e lasciandomi in pasto ai miei dubbi, alle mie paure.
Credo che gli altri dormano ancora ma non riesco a vederli e non sento nemmeno le voci dei loro parenti, di chi ancora non si rassegna a vederli come vegetali, a vedere me come un vegetale.
Il nostro reparto è paradossale.
Spesso mi chiedo il perché uomini che conservano solo un anelito di vita, che a volte non hanno la mia stessa fortuna e non riescono nemmeno a muovere gli occhi, siano circondati da una speranza di vivere così prorompente.
Tutti sembrano ricordarci che siamo vivi, ma che ne sanno loro di quale sia la nostra vita?
Che ne sanno loro del freddo che si sente la notte, del fastidio del bip delle macchine, della maschera che stringe e irrita il volto, eppure ci tiene in vita.
Mia madre oggi non è venuta, come biasimarla.
Sono già le sette, un’infermiera sistema la flebo per nutrirmi, accende la tv e se ne va.
Alle nove sulla stanza cala il buio, solo la luce di qualche lampione giù in strada riesce prepotente a penetrare oltre le serrande mezze rotte, e si sente qualche voce lontana, forse ragazzi pronti per una festa, forse due anziani che dopo una passeggiata tornano a casa, forse una famiglia felice pronta per la cena.
E mi addormento così, con l’immagine impressa nella mente di quella che avrebbe potuto essere la mia famiglia, la mia condizione, e invece non è questo che il destino aveva scritto per me.
Mi risveglia un turbinio di voci, apro gli occhi ancora annebbiati dal sonno, e penso di essere arrivato in Paradiso.
La stanza è inondata di luce e intorno a me ci sono un uomo dal camice bianco, Francesca, Elia, mia madre, Vittorio, grande amico e collega, e mia zia.
Se tutta questa gente si è riunita devo essere morto. Sai me la immaginavo peggio la morte. A catechismo ti dicono che devi comportarti bene, altrimenti finisci dritto all’Inferno. Quello però non sembrava il luogo buio e tetro descritto da Dante, ma anche come Paradiso era un po’ deludente. Il Paradiso in un ospedale.
Mi chiamano, apro gli occhi e tutte quelle figure etere e sfocate divengono più vivide, più materiche. Sono ancora vivo, il bip della macchina me lo conferma.
A parlare è mia madre, che con le parole non ha mai fatto fatica:” guarda, guarda cosa siamo riusciti ad ottenere grazie all’aiuto dell’ospedale, guarda, guarda che bel regalo”.
Ora lo vedo, il dottore tiene in mano un piccolo schermo nero.
Mi spiegano che attraverso un sensore ad infrarossi e non so quale altra sperimentale tecnologia potrò avere una voce, e parlare, non più solo con gli occhi.
Sistemate le attrezzature mi chiedono di provare a visualizzare con gli occhi una scritta e questo è il vero dramma.
Erano due anni che pensavo a quante parole avrei voluto dire alla mia famiglia, alle frasi che non avevo mai pronunciato e erano rimaste in sospeso, a creare voragini tra me e loro.
Eppure l’unica cosa che riesco a pensare e che poco dopo il computer dice in modo metallico ad alta voce è “voglio morire”.
L’ilarità generale si spegne dopo questa affermazione e anche io mi pento subito di queste parole che mia madre, Francesca, ma soprattutto mio figlio hanno sentito.
No, non è vero che mi sono pentito.
Diciamo che mi stupisco del coraggio che tutto d’un tratto sento pulsare nelle vene, nella testa, alimentato dal bip assordante delle macchine.
È vero, io volevo morire, e lo voglio ancora.
Voglio morire perché dopo una vita intera da magistrato, pronto in prima linea a smascherare stupratori, assassini, ladri non voglio dipendere da una maschera.
Voglio morire perché ho sempre difeso i diritti degli altri, soprattutto il diritto alla libertà, e ora voglio che anche il mio venga salvaguardato.
Voglio morire perché questa per me non è vita, rilegato su un letto d’ospedale, elemosinando cure, attenzioni, senza però poterne dare nessuna.
I giorni seguenti sono un inferno.
Francesca tace, come sempre, e raramente porta Elia in ospedale, a salutarmi.
Mia mamma piange disperata, e cerca in tutti i modi di dimostrare a quell’unico, sventurato figlio la bellezza della vita, una vita sicuramente diversa, ma non meno valida, non meno dignitosa.
Ogni tanto porta in ospedale don Luigi, un omino basso e sempre allegro, che conosco da sempre poiché era il sacerdote della parrocchia che da ragazzo frequentavo.
Parlo a lungo con lui.
In realtà è don Luigi a fare il suo monologo.
Dopo la disfatta della mia prima prova mi ero infatti rifiutato di continuare ad usare il computer e mi limitavo ad ascoltare, esattamente come prima.
È molto bello ascoltare le parole del don.
Parla spesso di una qualche speranza nuova, di una salvezza piena e gioiosa che aspetta me e chiunque vuole essere salvato.
Parla di un Dio che capisce il valore delle creature ferite, o cadute, perché anch’egli si era fatto uomo.
E poi sorride, di un sorriso che viene da lontano, che viene da un’anima che si sente serena anche in mezzo alla tempesta, di un’anima che aveva sperimentato un amore disinteressato, puro, e ora voleva annunciarne la bellezza.
Sono sempre stato guidato, in tutta la mia vita, da un forte senso di spiritualità, non per un dio in particolare, il faro che ha illuminato i miei passi sono stati i grandi ideali: la giustizia, l’amore, la libertà.
E io don Luigi lo capisco, capisco anche mia madre.
Io stesso se fossi stato dall’altra parte, se fossi stato io lì, in piedi, di fronte al letto di un uomo morto solo per metà, non so se mi sarei arreso all’idea di lasciarlo andare.
Perché chi non lo prova sulla propria pelle non può capire cosa voglia dire vivere morto su un letto, percependo i ritmi di una vita che non potrà mai essere tua ma allo stesso tempo non ti abbandona, tenacemente attaccata a ciò che rimane di un corpo.
La chiamano eutanasia, “bella morte”. Stronzate. La morte non è mai bella, soprattutto se hai vissuto la vita, quella vera, e poi non puoi più farlo e conosci perfettamente il valore di ciò che hai perso.
La morte ora non mi spaventa.
Forse anche per tutti quei discorsi fatti con don Luigi, non che abbia iniziato a credere ad un Aldilà fatto di luce in cui ritroverò tutti coloro a cui ho voluto bene, però la vedo come una porta verso qualcosa di infinito, e di infinitamente straordinario.
Mia madre crede che sia un pazzo, un folle che ora ha perso anche quel briciolo di lucidità testimoniato dagli occhi vispi, e pronti a cogliere tutto quello che era loro concesso.
Invece oggi per la prima volta Francesca mi parla e con un sussurro dice tutto ciò che vorrei sentirmi dire.
Bisbiglia che capisce, comprende, che se potesse mi strapperebbe lei la maschera che ho in viso.
Mi chiede di aspettarla, ovunque andrò dopo la morte mi chiede di rimanere lì, di proteggerla, di proteggere Elia, perché poi un giorno mi raggiungerà.
Ma lei è bellissima, fragile stella senza cielo, e io sono solo una testa senza corpo.
E poi non è così facile, non siamo sposati e lei non potrebbe dare il permesso di staccare i macchinari, oltretutto in Italia, dove situazioni come le mie, decisioni come le mie, vengono ignorate se non giudicate, e l’eutanasia è illegale.
Nonostante questo, sono felice che almeno lei, da sempre capace di guardare oltre, non mi consideri un pazzo, capace solo di portare dolore nelle vite degli altri.
Ci guardiamo, e come sempre accade quando due anime affini si trovano e non si lasciano più, una pace pervade il mio corpo, e sono certo di poter dire anche il suo.
E rimango di nuovo ancorato qui in ospedale, con un peso nel cuore che sembra un macigno.
Immaginando la vita di altri, non potendo vivere la mia.
Chiedendomi come stia mio figlio, come vede le cose, come le sente.
Chiedendomi quanto ancora mia madre resisterà, in quella devozione totalizzante nei confronti dell’unico figlio.
Chiedendomi quanto ancora resisterò io, schiacciato dal peso di una maschera che non voglio mi appartenga più.