L’agnello di Dio
L’agnello di Dio
Può la vita di un uomo venir condizionata, dettata e scandita dal vivere pulsante di un altro essere? Fino al compimento dei miei 17 anni, quando un forsennato e atavico cattolicesimo mi pervase e mi spinse ad adorare Dio con ogni mia vibrante fibra, avrei risposto di no. Poi, però, in una calda domenica di settembre, vidi i miei desideri più viscerali e profondi incarnarsi in Ester.
La mia benedizione terrena, il fuoco dei miei lombi, inginocchiata al primo banco della nostra chiesetta pungente di stantio. Pregava in silenzio, meravigliosamente anacronistica, fasciata in un antico d’un bianco liliale lungo fino alle caviglie, avvolta di una pudicizia quasi blasfema. All’inizio non scorsi molto di lei se non una cascata di liscissimi capelli castani, lunghi fino alla vita, e la suola consumata dei sandali. Mi stupì che una ragazza così giovane fosse seduta alla prima panca; io ero solito sedermi dietro, troppo intimorito dal cero e dalla croce accanto all’ara, deciso a mantenere le mie confidenze con lo Spirito Santo lontane dal sacerdote. Tuttavia, quella mattina arrivai in ritardo, e l’unico posto libero rimasto era proprio quello dietro Ester. Mi piace pensare che il nostro incontro sia stato provvidenziale: avevo vissuto lì tutta la vita, non l’avevo mai vista, doveva essere Dio a portarmi da lei. Arrivai affannato e i miei passi concitati e il respiro pesante attirarono la sua attenzione. La Messa non era ancora iniziata, e lei interruppe la sua preghiera per guardarmi in tralice da sopra la spalla, incuriosita. La luce delle vetrate illuminava il suo profilo; i raggi del sole come un’aureola attorno ai capelli scuri, l’austera curva del naso e le ciglia dritte; aveva le labbra viola strette in una linea, le iridi spietate, una foresta in fiamme, una punizione divina. L’avrei scambiata per un angelo tant’era terrificante. Terrificante, sì, e bellissima.
Fu in quel momento che mi innamorai – no, ne divenni ossessionato. La cercavo con lo sguardo ogni domenica, lei e i suoi vestiti cerei, le sue gambe lunghe e la figura svelta, lei e il suo petto da ragazzo, la vita stretta, il modo in cui pregava e il modo in cui le si schiudevano le labbra per prendere l’Agnello di Dio: era una visione ultraterrena. Disperato, chiesi notizie di quella devotissima ragazza a chiunque conoscessi. Nessuno sapeva niente. Nel nostro paesino in cui tutti conoscevano tutti, lei era un mistero, un fantasma tra i vivi. Dedussi quindi che si fosse appena trasferita. Finii per scoprire il suo nome solo dopo l’inizio della scuola, quando come a causa dello stesso piano divino che ci aveva fatto incontrare, finimmo in classe insieme.
Ester si sedeva in fondo alla classe, parlava solo durante l’ora di filosofia, esponeva le sue idee profetizzandole, a tal punto da farmi credere che la parola di Dio soffiasse dalle sue labbra. Un giorno, mentre evocava l’idea che aveva del Creatore l’insegnante la sbatté fuori dall’aula. Io le corsi dietro con una scusa. Volevo sentire qualunque cosa avesse da dire. Scoprire la sua anima. La trovai che si mangiava le unghie, seduta a gambe incrociate nel corridoio. Guardò verso di me, confusa, poi sorrise.
“Allora? Come lo vedi? Dio, intendo.”
“Bah, ridente. E se siamo a Sua immagine e somiglianza, anche sgraziato, sprezzante, cattivo. Dio non è buono. Ti ama, ma non abbastanza da salvarti. Suppongo sia questo il bello.” “E tu…?”
“Esdra.”
“Esdra.” mi guardò, un nuovo luccichio negli occhi. “Tu? Ci hai mai pensato?” “Sono troppo stupido per pensarci.”
“E pensi che Dio ti salverà per questo? Perchè sei stupido?”
Trascorsi tutta la giornata con lei, poi la seguente, poi ogni giorno a seguire. Parlavamo di qualunque cosa ci passasse per la mente. Scoprii che sua madre era morta, che suo padre faceva il pastore, che lei lo odiava e che aveva un gregge di agnellini. Ester diceva che suo padre, come Dio, si manifestava attraverso l’assenza e la violenza. Per lei qualsiasi posto sarebbe stato migliore delle quattro mura vuote che era costretta a chiamare casa. Io non ero come lei: la mia famiglia era normale, vivevo schermato dagli orrori della vita e cercavo di introdurre nella sua una bella dose di tranquillità. Non ci riuscii mai. Il suo modo di pensare, la sua mente brillante, erano troppo eccezionali per adeguarsi alla normalità.
Lentamente iniziai a pensare come lei, a mutare in una versione diluita del suo essere. Iniziammo ad amarci stringendoci le mani al segno della pace in chiesa, sgattaiolando fuori casa per vederci di notte, saltando la scuola per andare nei boschi intorno al villaggio per intossicarci, parlare e pregare. Mi invaghii di tutto, dalla sua risata scomposta alla cura con cui spalmava la marmellata sul pane, del tocco delle sue dita appiccicose d’arancia. Al nostro primo bacio – seduti su una panchina del parco, il freddo che ci schiaffeggiava le guance, le labbra collose di vodka calda comprata a buon mercato e il suo fiato, incenso salvifico sul mio volto – scoprii finalmente cosa volesse dire la parola estate. Il freddo era agghiacciante, ma mi sentii avvampare. La mia vita prima di lei era stata un lungo inverno, ma ora il sole mi raggiungeva. La mia esistenza iniziava sulla sua bocca schiusa. Non avevo più bisogno di Dio ora che avevo lei. Ma Ester non la pensava così. Più i giorni passavano, più la vedevo sofferente. Spesso era isterica, impaurita, faceva molti discorsi sulla morte. Un giorno per calmarla le dissi: “L’amore dona immortalità a ogni creatura mortale. Ester, io e te non moriremo mai.” Ma lei sbiancò, si mise a piangere, le mani premute sul viso e le spalle scosse dai singhiozzi. Se la mortalità sembrava a molti un concetto terribile, per lei era invece il più bello mai esistito; non sapeva se fosse per la sua follia divina e la smania di riunirsi a Dio o per il desiderio malato di liberarsi dello Spirito e respirare gli effluvi infernali, essere libera seppur nella sofferenza, inchinarsi di fronte a un nuovo Essere. La seguivo pedissequamente, lei era la mia signora e io il suo vassallo, vedevo ciò che lei vedeva e sentivo ciò che lei sentiva. E proprio da questa nostra estatica simbiosi scorsi il suo animo atterrito, il suo malessere interiore, e capii che non avevo altra scelta: dovevo portarla via da lì. Elaborai subito un piano: avrei rubato qualche soldo ai miei e saremmo scappati col furgone di mio padre. Avremmo vissuto lontano da tutto ciò che conoscevamo. Io non avevo bisogno di nessun altro, lei con me sarebbe stata felice. Così, come se quella fosse una piccola festa d’addio alle mie origini e alle sue nuove, marce radici, la portai a ballare. I nostri compagni di classe erano soliti riunirsi nel bosco che circondava il centro abitato; con la musica a palla e i cuori martellanti, bevevano, fumavano, inseguivano un edonismo becero e paesano. Pensai che quell’atmosfera grottesca, fatta di corpi sudati, movimenti scomposti e stordimento le avrebbe fatto piacere, che la musica l’avrebbe distratta, che una confusione avrebbe sostituito l’altra. Non presi neanche in considerazione l’idea di prenderla da parte e parlare di ciò che la uccideva. Per noi l’amore era il coltello che ci ruotavamo nel petto, e mi convinsi che il suo vero male fosse solo quello, il troppo amore, la mancata abitudine a ferite di quel tipo. Trovai conferma del mio pensiero quando, dopo averla persa per un istante, la vidi in mezzo a tutti gli altri a ballare come un’invasata, gli occhi che brillavano di luce gialla, la testa all’indietro, la gola alle stelle. Il corpo filiforme si muoveva nella sua camicia da notte bianca, tanto da sembrare posseduto o in estasi, coi capelli al vento e le mani in aria. Ballava come se la musica le scorresse nelle vene e ballò per ore, arrivai a pensare che sarebbe crollata al suolo prima di fermarsi. Grondante del lustro della giovinezza, sembrava una Menade da baccanale, sacra e profana, libera. Urlava, cantava, era un fuoco di puro essere. A volte mi guardava, gli occhi languidi, miele dorato nelle pozzanghere di luce lunare. Quando tornò da me, le dissi che l’amavo, le chiesi di scappare con me, “Partiamo domani, non preoccuparti di nulla.”. Ma non mi aspettai risposta.
Lei sorrise, le labbra curve in un gesto d’antica tenerezza, e mi baciò piano mentre faceva intrecciare le nostre dita. Mi trascinò nel pieno degli alberi e facemmo l’amore sulla terra nuda. Pensavamo che ci avrebbe inghiottiti, che il nostro amore avrebbe alimentato il terreno fluendo nel fiume che scorreva nel cuore della foresta. Le nostre ossa si univano a incastro, come se il suo corpo fosse stato fatto per incontrare il mio. Mi si era insinuata nel sangue come una malattia, un parassita, ed io non volevo guarire. Ci stendemmo a guardare il cielo, le tenni la mano, le baciai ogni dito, il dorso, il palmo. Volevo adorare ogni centimetro di lei, ma lei si tirò su, si arrampicò su di me e mi baciò tutto il volto, dalle palpebre alla punta del naso, lasciando le labbra per ultime. Quel bacio aveva un sapore diverso dagli altri, sapore che non seppi identificare. Decisi di non pensarci, bearmi solo di lei.
“Ora va’, ci vediamo domani.” Volevo portarla a casa, ma lei rifiutò, voleva ancora ballare, disse. La baciai un’ultima volta, prima le labbra e poi la fronte, infine tornai a casa.
L’indomani uscii all’alba, rubai un po’di soldi dai risparmi dei miei, salii sul furgone e andai a prenderla. Non era fuori casa. Entrai nella sua stanza dalla finestra, trovando il letto rassettato, tutto in ordine. Ester non c’era. La cercai per giorni. Come poteva essere partita senza di me? Come poteva avermi lasciato lì dopo avermi portato via il cuore dal petto? Non era possibile, non sarebbe mai andata via senza avvisarmi, non era da Ester. E non ero l’unico a pensarlo, il villaggio intero si unì alla mia ricerca disperata, di giorno e di notte. Poi, un’illusoria quiete. La trovarono, sì. Ripescarono Ester dal fiume, orrenda, bluastra, esangue. Il mondo si zittì, si fece buio su tutta la terra. Cercai di avvicinarmi. Mi tirarono via mentre urlavo, mi dicevano che non dovevo darmi colpe, ma io sapevo. Sapevo che era un messaggio per me che, accecato dall’amore, non l’avevo capita, non c’ero mai riuscito.
Del suo dolore avevo fatto religione, e lei ne era diventata vittima. Ero stato io a sgozzarla sull’altare, era morta anche per la mia cecità. Al suo funerale non piansi. Sapevo che non mi sarebbe mancata e che ormai le appartenevo per sempre. Stavano seppellendo il mio cuore assieme a lei, a marcire nella nuda terra. Era tutto ciò che avevo, tutto ciò che ero riuscito a darle. E lei, come in un testamento, mi aveva lasciato il suo ricordo in patrimonio, la sua voce nel vento, il suo profumo nei miasmi dell’incenso. Perché Ester voleva che la ricordassimo tutti, quella morte, voleva staccarsi dalle donne morte e composte, dalle Ofelia che affogano aggraziate tra le acque e il cui corpo ripescato, cianotico e gonfio per l’acqua, non viene mai mostrato.
Perché, se in vita non ero riuscito a vederla, nella morte l’avrei vista ovunque.
06/11/2023