La storia di un’idea fin troppo innovativa e il racconto di un tipo di politica che sembra ormai perduto.
«Non siamo stati né noi né voi, compagni francesi, a coniare il termine di “eurocomunismo” con riferimento particolare alle posizioni su cui convergono i nostri partiti. Ma il fatto stesso che questo termine circoli così largamente sulla stampa internazionale e sollevi in campi diversi tante speranze e tanti interrogativi è un chiaro segno dell'interesse con cui si guarda ai nostri due partiti, alle loro posizioni e iniziative nella vita politica interna e alla visione che essi hanno dei problemi del cammino verso il socialismo e dei peculiari caratteri che esso deve avere in paesi come i nostri.»
Parigi 1976. In occasione di un comizio congiunto del Partito Comunista Italiano con il Partito Comunista Francese, Enrico Berlinguer pronunciò queste parole. Era su una tribuna dove, simbolicamente, erano state affiancate la bandiera dell'Italia e quella della Francia. Con il termine "Eurocomunismo", Berlinguer definì il progetto visionario promosso dai tre partiti comunisti con il maggiore radicamento sociale in Europa: il PCI, PCF e PCE (rispettivamente Partito Comunista Italiano, Parti Communiste Français e Partido Comunista de España), i quali si impegnavano a proporre una diversa applicazione del marxismo, basata sulla partecipazione cosciente delle masse.
Insieme a Georges Marchais e Santiago Carrillo Berlinguer comprese che per poter sfruttare in modo adeguato il loro grande consenso popolare era necessario attuare profonde modifiche ideologiche che avrebbero inevitabilmente provocato una rottura con il Partito Comunista dell’URSS, il quale finanziava e influenzava tutti i partiti comunisti d’Europa. Ovviamente, il PCUS non vedeva di buon occhio questa nuova forma di comunismo per i suoi ideali troppo moderati e non in linea con il leninismo.
In particolare, l’Eurocomunismo indica una «via europea» al socialismo, cosciente della società capitalistica contemporanea e caratterizzata da un forte sentimento democratico. Talmente forte che Berlinguer, in occasione delle celebrazioni del 60º anniversario della Rivoluzione d'ottobre definì la democrazia «un valore storicamente universale». Pronunciò queste parole rivoluzionarie al Cremlino, dove il potere era nelle mani di un sistema monopartitico.
Non a caso, l'Eurocomunismo era la base del «compromesso storico», cioè il tentativo del Partito Comunista Italiano di trovare un accordo politico con la Democrazia Cristiana, al fine di formare un governo di collaborazione e di intesa tra le forze popolari di ispirazione marxiste e le forze popolari di ispirazione cattolica. Questa idea promossa con Aldo Moro fu fortemente ostacolata sin dall'inizio, in quanto implicava che un partito di stretti legami con l’Unione Sovietica governasse in piena Guerra Fredda un paese come l’Italia, sottomesso agli USA e membro NATO. Il forte dissenso dell'estrema sinistra verso il compromesso storico comportò il rapimento del Presidente Moro nel 1978 da parte di un commando delle Brigate Rosse, i quali lo assassinarono il 9 Maggio dello stesso anno, dopo cinquantacinque giorni di prigionia.
L’ambizione del compromesso storico scomparve quel 9 Maggio, e questo pezzo di storia del nostro paese suscita a mio avviso una riflessione: ci si chiede spesso come mai negli ultimi anni la partecipazione politica e l’engagement siano in continuo calo (soprattutto tra i giovani), e ci si ritrova continuamente ad alternare forze politiche incompetenti e scoraggianti; mi chiedo quindi se questo declino possa essere attribuito all’assenza nella politica italiana contemporanea di figure politiche carismatiche, oneste e che abbiano realmente a cuore le questioni del paese. Figure come Moro, Berlinguer, Pertini o Matteotti: uomini dai quali si poteva liberamente dire che vivessero “per” la politica e non “di” politica.