Perché abbiamo paura dell’intelligenza artificiale?
Leonardo Chiaretti
Leonardo Chiaretti
Ci troviamo nel pleistocene inferiore, quando i primi Homo habilis, nostri lontani antenati, creano i primi strumenti in pietra: chopper, punte, raschiatoi, martelli. Per la prima volta nella storia dell’uomo, e forse della natura stessa, un animale demanda volontariamente e specificatamente a un ente esterno a lui un compito, che giova esclusivamente a lui stesso e per il quale egli riduce sensibilmente la sua responsabilità attiva, e si colloca al ruolo di supervisionatore.
E così abbiamo smesso di trasportare carichi pesanti grazie alla ruota, che agevola il movimento, abbiamo smesso di incidere a fatica su pietre e argilla, perché abbiamo inventato prima il papiro e poi la carta, abbiamo smesso di nuotare per i brevi tratti che ci sono concessi dalla nostra naturale conformazione fisica perché abbiamo creato delle rudimentali zattere, ed infine abbiamo smesso di usare il nostro corpo per produrre energia quando siamo riusciti ad imbrigliare quella presente nella natura, attraverso meraviglie ingegneristiche come il mulino ad acqua e il motore a vapore.
Ciò che accumuna tutte queste invenzioni, è il cedere il nostro compito ad un altro soggetto, che coscientemente, come un mulo da soma, o incoscientemente, lo compie per noi, e ci permette di astrarci dall’incarico diretto e di posizionarci come regolatori, amministratori, organizzatori, ma mai esecutori diretti.
Fino a quando però, questo spostamento di fatica è stato limitato, dalla tecnologia, al mero campo fisico, ci siamo illusi di essere padroni della tecnologia stessa e di esserne coscienti e conoscenti, di poterla arrestare a nostro piacimento ed esserne comunque autosufficienti senza essa. Potremmo comunque, o almeno crediamo, sussistere raccogliendo a mano i frutti dagli alberi o mungendo a mano le mucche. La guida ci è però sfuggita, quando abbiamo demandato ad un oggetto di "pensare" per noi.
Il computer infatti, noto più specificatamente come calcolatore negli ambienti accademici, è il primo oggetto a cui noi abbiamo scaricato il compito di pensare, perché, come tutti gli oggetti, migliore di noi nella sopportazione della fatica. Un computer non si annoia, non pensa ad altro mentre in passato eseguiva qualche migliaio, oggi qualche miliardo, domani non sappiamo nemmeno quale ordine di grandezza, di calcoli. Ma possiamo seriamente credere che la matematica, il nostro linguaggio universale più completo e con il quale oggi descriviamo la maggioranza delle cose che ci circondando e dei nostri pensieri più complessi, possa sostituire il nostro di pensiero, nelle modalità, approcci e risultati?
Ci troviamo circa 2.6 milioni di anni dopo l’invenzione dei primi strumenti in pietra, nel 1852, quando uno studente di matematica, Francis Guthrie, elabora una congettura: "Bastano quattro colori per colorare una cartina geografica in modo tale che nessuna regione abbia lo stesso colore di una regione adiacente". Affinché una congettura, che potremmo descrivere in termini non scientifici come un’idea di cui abbiamo una intuizione, diventi un teorema, ha bisogno di una rigorosa dimostrazione matematica. È molto semplice dimostrare, per confutazione, che questo teorema risulta falso per tre colori, e che quindi non siamo in grado di produrre una cartina in cui le regioni confinanti abbiano tutti colori diversi con solo tre a disposizione, ed è, seppur più arduo, comunque umanamente fattibile, dimostrare che cinque colori sono sovrabbondanti, ovvero riusciamo a produrre la cartina desiderata, ma non siamo soddisfatti del risultato, come spesso accade nella scienza , e vogliamo capire se quattro sono sufficienti. Ebbene, questo è il primo teorema della storia in cui, sebbene l’idea sia umana, la dimostrazione è a livello pratico del Computer, che nel 1977 ci restituisce una risposta affermativa alla nostra domanda. E così, per la prima volta, abbiamo delegato ad un oggetto il compito di pensare per noi, di provare a velocità che per noi sono inimmaginabili a calcolare, iterare e colorare per noi le mappe. Da qui, la strada per i computer sarà tutta in discesa, sebbene ancora non abbiamo riscontrato una vera ideazione, bensì solo una imitazione del nostro approccio alla matematica, ma per noi?
Nonostante il livello tecnologico sia esploso nel corso del ’900, portandoci a livelli di ricerca che ci fanno sognare sempre più lucidamente di potere agguantare e fare nostro lo spazio che ci circonda, ossessione che abbiamo sempre avuto, questo è il primo caso in cui l’uomo, essere a cui la natura ha pratica concesso solo la facoltà di pensare, ha creato un oggetto che non comprende.
Sebbene infatti, non ci sia totalmente chiara, se non addirittura contraddittoria per la nostra natura apparentemente basata sul principio totalmente deterministico causa-effetto, la meccanica quantistica, di cui Einstein rifiutava il carattere probabilistico e non deterministico, e di cui Feyman affermava che nessuno aveva reale comprensione, essa rimane una nostra approssimazione della realtà, una storia di cui cerchiamo di scoprire sempre di più ma di cui non siamo chiaramente gli scrittori.
L’intelligenza artificiale invece, è una nostra creazione, che affonda le sue radici nella conferenza di Dartmouth del 1956, la quale afferma, proprio in prima pagina, che "Lo studio procederà sulla base della congettura per cui, in linea di principio, ogni aspetto dell’apprendimento o una qualsiasi altra caratteristica dell’intelligenza possano essere descritte così precisamente da poter costruire una macchina che le simuli". Da questo intento, si evince chiaramente la volontà di scaricare alla macchina la responsabilità e soprattutto la fatica legata al pensiero, ma nel processo per raggiungere questo obiettivo, ci è sfuggito il controllo, la padronanza della macchina.
È infatti ormai noto, come nel Deep Learning, tecnica che simula sostanzialmente il funzionamento del nostro cervello, a causa dell’altro numero di parametri, che simulano i nostri neuroni, il ragionamento sia inscatolato in complessi calcoli e regole di inferenza a noi nascoste da diversi livelli, e che restituiscono un risultato, di cui noi non abbiamo contezza del ragionamento che vi si nasconde dietro. Questo ci terrorizza, e ci rende sostanzialmente futili, privati dell’unica capacità che ci differenziava e collocava in una posizione di dominanza rispetto all’oggetto, che non aveva contezza del proprio compito: un martello non sa perché schiaccia i chiodi; una rete di Deep Learning, per quanto ne comprendiamo, ci sembra che sappia perché svolge quei calcoli. E questo ci pone genuinamente in una condizione di pericolosa e spaventosa sostituibilità.
Come diceva Heidegger nel suo saggio ’La questione della tecnica", la tecnica stessa è cieca, non si interroga sul fine, occulta il pensiero sull’essere e si impone come unica forma di verità, pertanto è cieca perché ci accieca, ci impedisce di interrogarci su altri modi di essere.
Questo non è ovviamente un manifesto luddista, ma una riflessione sulla nostra tendenza al relegare la fatica ad altri enti, e soprattutto un invito al pensiero sul nostro rapporto con gli oggetti a cui abbiamo demandato il nostro vivere. Come probabilmente è sempre stato, la paura dell’incompreso è una nostra caratteristica atavica, che affonda le sue radici in tecniche evolutive che ci hanno permesso di arrivare sin qui, ed è giusto che ci accenda una spia riguardo questa potente tecnologia che si sta insinuando a velocità sempre più esponenziale nelle nostre vite; l’importante però, è che questa spia ci accompagni ad una riflessione critica riguardo gli strumenti che decidiamo di operare ed a cui decidiamo di affidarci, senza chiuderci a riccio al progresso, ma neanche abbracciandolo ad occhi chiusi solo perché ci semplifica la vita.
L’intelligenza artificiale deve quindi, farci paura, come ci faceva paura il fuoco e come tutte le cose a noi ignote, fino a quando non ne saremo padroni, o almeno fino a quando non avremo deciso se vogliamo realmente governare tutti i processi che si svolgono intorno e per i nostri scopi, se la nostra ambizione alla comprensione del tutto voglia essere attiva, o vogliamo semplicemente leggere una storia che qualcos’altro potrebbe scrivere per noi.