Quando gli dèi greci camminavano sulla terra. Ma sono davvero scomparsi del tutto?
Francesca Scalfaro
Francesca Scalfaro
Immagina di giocare a God of War III, ma al posto di Ermes, Poseidone e Ade ti ritrovi a dover predisporre le difese dei dodici apostoli. Non ti sembrerebbe insolito? Un tempo, a quegli stessi dèi venivano offerti in sacrificio preziosi doni, nei templi dell’antica Grecia brulicanti di fedeli; oggi, invece, essi sopravvivono in particolar modo nell’arte, nei racconti mitologici e nei media interattivi più diffusi, dove vengono reinventati come nemici da sconfiggere o guide spirituali di universi paralleli. Perché questa affascinante religione politeista è passata da essere fede vissuta a “illusione primitiva”? Alla luce della cultura in cui viviamo, plasmata in gran parte dalle religioni monoteiste, ci ritroviamo ad affermare con sufficiente convinzione il legame tra dogma/testo sacro e religione. Si ha fede in qualcosa nonostante questa non si veda. Per questo motivo, ci risulta più facile pensare che un fulmine associato alla rivelazione di Zeus sia, semplicemente, una falsità. Nel suo libro Teofania, Walter F. Otto spiega invece con estrema forza poetica cosa volesse dire, per i greci, vivere in un mondo in cui gli dèi si manifestavano nel reale. Il mito non è una finzione – quest’equivalenza è un’idea del tutto moderna –, ma una verità sacra con cui il fedele è in grado di entrare quotidianamente in contatto. Poeti come Omero ed Esiodo, e tragediografi come Eschilo e Sofocle, codificarono in versi le storie degli dèi, costruendo narrazioni mitiche che non erano fiabe per bambini, ma spiegavano i valori di una comunità e le esperienze umane interiori. Insomma, un linguaggio condiviso per parlare dell’anima così come dell’ordine del cosmo.
Quando nel 391 d.C. l’imperatore Teodosio proibì i culti pagani tradizionali, chiudendo templi e santuari, l’antica religione di lì a poco si estinse. Gli dèi olimpici vennero universalmente screditati, al punto che i poeti cristiani potevano ormai citarli senza timore, sapendo che nessuno li prendeva più sul serio. Eppure non scomparvero: nel Rinascimento ci fu una grande riscoperta dell’antichità classica, che gli umanisti vedevano come simbolo di splendore culturale. Ma proprio come si domanda Otto nel suo libro, “non dobbiamo piuttosto ammettere a noi stessi che quelle opere immortali non sarebbero mai divenute ciò che sono senza gli dèi, e più precisamente senza quegli dèi greci che sembrano non aver più nulla da dirci? Non fu proprio il loro spirito, e nessun altro, ad aver destato le forze creative i cui frutti, ancora dopo millenni, elevano il cuore e sono in grado di produrre devozione?”
Declassare a “semplice mito” (nell’accezione di “falsità”) ciò che prima era fede comporta il non prendere più sul serio quei racconti, considerandoli intrattenimento, e non vedere più in loro quei profondi significati spirituali di cui si facevano portatori. Se non interpretiamo quei miti come strumenti di comprensione di noi stessi e del mondo, perdiamo l’opportunità di imparare da essi. Questi insegnamenti non sono presenti solo nell’arte e nella natura, ma nelle stesse gesta umane; un atto di giustizia autentica, un’accoglienza generosa dello straniero, un consiglio sapiente: per i greci, tutto questo era teofania, ossia manifestazione del dio. Quella degli dèi greci è una realtà in atto, non una realtà rivelata e mai più ripetuta.
Quando oggi parliamo di quei miti come “finzioni”, dimentichiamo che per secoli sono stati rivelazioni dell’equilibrio tra umano e divino. E nel momento in cui abbiamo trasformato quella teofania in “mitologia”, abbiamo anche cambiato il nostro modo di stare al mondo. Recuperare quel tipo di spiritualità – che pur sempre continua ad esercitare su di noi un certo fascino – può essere utile a ricordarci che un altro modo di esperire il mondo è possibile. Quando una melodia ci commuove profondamente, è come se una Musa ci stesse sussurrando che c’è qualcosa di più alto dell’utile immediato. È in questo senso che l’antica religione classica continua a parlarci, perché i valori di cui si faceva portatrice non sono affatto svaniti nel mondo. Le divinità permangono come archetipi vivi nella nostra psiche, anche se ci dimentichiamo di chiamarli con i loro veri nomi e possono, ieri come oggi, dare un senso più alto alle nostre vite.