Trainspotting, tra euforia e autodistruzione
Flavio Aquino
Flavio Aquino
Sapete cosa accadeva il 22 novembre del 1990 a Londra? Margaret Tatcher, la Iron Lady, si dimetteva dalla carica di Primo Ministro Britannico; decretando la fine dell'era conservatrice e neoliberista che aveva segnato il Regno Unito negli anni 80. Al suo posto, si faceva spazio un desiderio di aria fresca, cambiamento e un po’ di ribellione: nasceva così la “Cool Britannia!” . Un movimento musicale e artistico nato negli anni ‘90 caratterizzato da un grande orgoglio nei confronti della cultura del Regno Unito. Il britpop dei fratelli Gallagher e dei Blur, le Spice Girls, la Britart di Tracey Emin e Daniel Hirst e Union Jack stampati su ogni cosa. Con la crescita economica, l’Inghilterra stava attraversando un vero e proprio periodo di trasformazione della cultura e dell’identità nazionale; passando da austerità e conservatorismo ad euforia e ottimismo collettivi.
A intaccare l’immagine patinata della Londra dei primi anni ‘90 arriva Danny Boyle, l’esponente anarchico più rilevante del cinema indipendente britannico, con la sua pellicola omonima al romanzo di Irvine Welsh -già cult generazionale- “Trainspotting”. Sia Boyle che Welsh mostrano il lato oscuro, o meglio ignorato, della cultura giovanile degli anni ‘90: la generazione di Renton non ha nulla a che vedere con l’ottimismo delle Spice Girls, anzi, è una generazione disillusa e disperata.
"Scegliete la vita, scegliete un lavoro, scegliete una carriera, scegliete la famiglia, scegliete un maxitelevisore del cazzo, scegliete lavatrice, macchina, lettore cd e apriscatole elettrici. Scegliete la buona salute, il colesterolo basso e la polizza vita; scegliete mutuo a interessi fissi, scegliete una prima casa, scegliete gli amici. Scegliete una moda casual e le valigie in tinta, scegliete un salotto di tre pezzi a rate e ricopritelo con una stoffa del cazzo, scegliete il fai-da-te e il chiedetevi chi siete la domenica mattina. Scegliete di sedervi sul divano a spappolarvi il cervello e lo spirito con i quiz, mentre vi ingozzate di schifezze da mangiare. Alla fine scegliete di marcire, di tirare le cuoia in uno squallido ospizio, ridotti a motivo di imbarazzo di stronzetti viziati ed egoisti che avete figliato per rimpiazzarvi. Scegliete il futuro, scegliete la vita. Ma perché dovrei fare una cosa cosí? Io ho scelto di non scegliere la vita. Ho scelto qualcos'altro. Le ragioni? Non ci sono ragioni. Chi ha bisogno di ragioni quando ha l'eroina?"
È con questo iconico monologo che l’eroinomane Mark Renton (Ewan McGregor) ci dà il benvenuto nella sua stravagante vita fatta di bevute al pub e piccoli furti commessi insieme ai suoi amici per finanziare la loro “sana e onesta tossicodipendenza”. Siamo nella grigia e malinconica Edimburgo di fine anni ‘80, ma i ritmi della pellicola sono tutt’altro che noiosi: non ci sono scene morte o dialoghi inutili, i personaggi si muovono sullo schermo in modo dinamico -con influenze tarantiniane- e molto spesso correndo (la corsa è un’azione centrale ed emblematica nei film di Boyle), proprio come nei primi minuti del film. Renton e il maldestro Spud scappano dalla polizia con le tasche piene di refurtiva sulle note di Lust for Life di Iggy Pop; questa scena, oltre ad essere diventata un cult per via del monologo, si avvale anche di una perfetta coordinazione tra movimento e suono: ogni passo di Renton corrisponde ad un battito ritmico; in quel momento Mark è più vivo che mai, perchè è meglio non scegliere la vita che viverne una fatta di dogmi e costrutti sociali borghesi.
La compagnia di eccentrici tossicomani è presentata quasi come un gruppo rock, con Renton nel ruolo di frontman; alla chitarra c’è Sick Boy, donnaiolo ossessionato da Sean Connery e da 007; al basso c’è Spud, goffo e imbranato ma dal cuore gentile; infine, alla batteria c’è un violentissimo ed esaltato Begbie, che al posto dell’eroina usa le risse e il maschilismo tossico per tirare avanti e critica chiunque si rivolga alla Madre Superiora, il fornitore del gruppo, per fuggire da una società che li categorizza già come reietti. Per evadere, si ricorre alla più consumante ma ammaliante delle vie di fuga: l’eroina.
Durante gli anni ‘70 l’epidemia di eroina si stava diffondendo in tutta Europa e di conseguenza, dopo i primi casi di overdose, storie come quella di Christiane F. ne “Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino” sconvolsero il grande pubblico con una rappresentazione cruda e angosciante della vita da junkie; anche Irvine Welsh era scettico all’idea di concedere i diritti cinematografici, proprio perché temeva che l’umorismo e l’eccentricità dello storytelling andassero persi. Boyle però non delude le aspettative, realizzando un film che paradossalmente ci mostra il lato divertente e inebriante della droga, proprio come Welsh la definisce nel libro: “The life-giving and life-taking elixir”.
Come conferma del suo successo come film generazionale, Trainspotting nel 2004 viene eletto miglior film Scozzese di sempre da un sondaggio pubblico condotto dal “The List”. Ma perchè la Scozia ne è così tanto orgogliosa? Fino ad allora, il pubblico di destinazione dei film ambientati in Scozia era quello Americano, ovviamente per mirare al successo internazionale. Con Trainspotting invece, è tutto diverso, perché rappresenta un ritratto culturale autentico degli Scozzesi: divisi tra una cultura proletaria in declino e il sogno borghese di una vita “normale”. E sì, anche se con questo si intende:
“È una merda essere scozzesi! Siamo il peggio del peggio, la feccia di questa cazzo di terra, i più disgraziati, miserabili, servili, patetici avanzi che siano mai stati cagati nella civiltà. Ci sono quelli che odiano gli inglesi, io no! Sono solo delle mezze seghe! D'altra parte noi siamo stati colonizzati da mezze seghe, non troviamo neanche una cultura decente da cui farci colonizzare.” .
Mark Renton in Trainspotting
Lo slang, il dialetto e i riferimenti al mondo del calcio sono ciò che lo rende verosimile per gli Scozzesi.
L’oscillazione costante tra iper-realismo e sequenze oniriche e psichedeliche (come le crisi di astinenza) lo rende unico nel suo genere, il tutto accompagnato da una colonna sonora che completa al meglio l’estetica del film collocandolo perfettamente nella sua epoca. Le inquadrature dinamiche, i montaggi rapidi e la colonna sonora pulsante contribuiscono a creare un ritmo incalzante che riflette lo stato mentale dei personaggi, mostrando anche la natura imprevedibile e talvolta assurda dei tossicodipendenti. Gli effetti speciali danno allo spettatore l’accesso alla mente e ai pensieri di Renton, mostrandolo anche in tutta la sua vulnerabilità nei momenti di astinenza come la disintossicazione nella sua cameretta d’infanzia, con visioni spaventose e angoscianti. Anche la cromologia ha un ruolo importante nel completare e arricchire la narrazione; due colori in particolare caratterizzano le scene emblematiche del film: il rosso e il verde. Il rosso rappresenta generalmente il pericolo o una situazione che ha il potenziale per diventarlo. Ne sono un esempio la scena in cui Mark conosce Diane, quando visita la Madre Superiora per comprare la roba, o quando sfiora la morte con un’overdose proprio su un tappeto rosso.
Mark e Diane
Mark e la Madre Superiora
Il verde d’altra parte, rappresenta la sobrietà e, di conseguenza, la salute e la stabilità. Quando Mark soffre per la disintossicazione in cameretta, la madre entra da una porta verde, con addosso una camicetta dello stesso colore, portandogli il pranzo: zuppa di piselli.
La madre di Mark che indossa il verde
Mark, nonostante la sua scarsa presenza nella vita familiare, riconosce di essere molto legato alla madre; però, al tempo stesso, vorrebbe non essere lui suo figlio, ma che al suo posto ci fosse qualcun altro capace di renderla fiera.
Renton alla fine sceglie la vita. O almeno così dice. Ma cosa significa davvero “scegliere la vita”? È un atto di redenzione o solo un’altra illusione, un altro compromesso? Dopo lo vediamo camminare verso una nuova esistenza, con la promessa di una normalità che fino a poco prima disprezzava. Eppure, dietro il suo sorriso forzato e il battito martellante di “Born Slippy”, c’è qualcosa che stona. Forse perché sappiamo che Renton non sta realmente scegliendo la vita, ma sta solo scegliendo una nuova dipendenza: il denaro e l’individualismo. Trainspotting non ci offre risposte, non ci dice cosa sia giusto o sbagliato, non punta il dito e non redime nessuno; mostra solo la realtà sporca e contraddittoria della tossicodipendenza, lasciando lo spettatore a trarre le proprie conclusioni. Forse è proprio questo il motivo per cui, a quasi trent’anni dalla sua uscita, il film continua a parlarci con la stessa forza: perché, in un modo o nell’altro, ci costringe a confrontarci con le scelte che facciamo e con le bugie che raccontiamo a noi stessi.