Come in uno specchio (Sasom i en spegel) – Ingmar Bergman
Nicolò Caggiano
Nicolò Caggiano
Nel vivo periodo della sua attività teatrale, Bergman ricomincia ad orientarsi verso il cinema con la necessità di riprendere la riflessione religiosa avviata anni prima ne “Il settimo sigillo”. Girato interamente sull’isola di Faro (luogo che diverrà protagonista anche dei film successivi) e con le luci naturali dei suoi tramonti, “Come in uno specchio” non solo apre nella filmografia del regista la cosiddetta “Trilogia del silenzio di Dio”, ma anche l’inizio di una rivoluzione nella tecnica, allontanandosi dall’approccio narrativo e ricercando una maggiore espressione poetica nel minimalismo di forma.
Avviandosi nella trasposizione di un disagio intimo e personale, Bergman basa la propria opera sulla solitudine dell'essere umano dinanzi alla confusione e al caos della vita: questo pessimismo esistenziale, frutto della schizofrenia di Karin, emerge dapprima attraverso il ritratto della famiglia, che tenta di celare sotto risate e sorrisi imbarazzati lo stato di decadenza da cui presto sarà divorata, ricadendo poi sull'intimità di ogni personaggio e smascherando il lezzo che ha ormai consumato il rapporto amoroso tra Martin e sua moglie, quello di confidenza e fratellanza tra Minus e la sorella, e le più complesse dinamiche che legano l'animo vuoto del padre David con la figlia. L’autore svedese focalizza la narrazione sulla miseria di questi pochi personaggi facendola orbitare attorno al malessere interiore della ragazza, e sviluppando in seguito una riflessione esente da ogni tipo di appianamento schematico, al contrario articolata in una complessa rete di rapporti fine all’indagine di ciascuno dei protagonisti. È dunque Karin il centro indiscusso della storia e la chiave per comprendere anche il ruolo degli altri personaggi all’interno di questa – sembra addirittura che il modo in cui tutti dipendono da lei sia trasversale al suo sentirsi frammentata e divisa. La sua malattia non è solo il semplice pretesto per innescare un conflitto che coinvolge padre, fratello e marito, bensì un vero e proprio simbolo dell’animo umano logorato e infranto dalla fragilità su cui pone la sua esistenza.
<<Siamo così indifesi a volte. Come bambini che si sono perduti in luoghi deserti. Le civette gridano e fissano con i loro occhi gialli. Senti un fruscio sommesso e un cauto mormorio attorno a te e un ansimare leggero di umidi musi e poi le zanne dei lupi.>> La depressione della ragazza viene descritta come un impulso di smarrimento fragile e cagionevole, ma anche contagioso, in quanto tutti devono confrontarsi con questo, persino l’anima razionale di Martin e quella ormai colta dell’anziano David. Suscita in loro una reazione a catena: mentre uno si chiude nella cecità dell’uomo di scienza, fermo alle evidenze empiriche ed estraneo al reale problema di Karin, l’altro rivela il suo essere spudorato di fronte all’esperienza – la sfrutta. In particolare è il giovane Minus a venire coinvolto nel vortice di follia di Karin: la sua compassione per la sorella lo coinvolge al punto da cadere nel caos e abbandonarsi ad una sessualità per lui ancora ignota e temuta, scoppiata in un incesto.
Mentre la dimensione di Karin si frammenta tra il reale e l’immaginato, tra la razionalità e gli istinti più inconsci (in questo caso rappresentati da una volontà divina kierkegaardiana che la comanda), gli altri personaggi sono invece costretti in una sorta di sospensione passiva, una condizione in cui possono solo leggere nel malessere di lei per scorgere i loro mali. “Come in uno specchio” (traduzione letterale del titolo svedese) d’altronde non è altro che una didascalia auto esplicativa di quelle che sono le intenzioni del film e del suo contenuto, della sua dialettica in grado di riflettere negli spazi, nei suoni, nei tempi e nelle immagini quei ricercati sentimenti che adesso assumono un ruolo poetico – perseguitano il personaggio così come lo spettatore.
La casa sull’isola di Faro e le sue pareti marcie, illuminate da deboli spiragli di luce ed ornate da sole ombre, sembrano affondare tra le scure acque del mar Baltico, così come la mente dei protagonisti nella loro (e ormai nostra) realtà. Gli attori si muovono rigidamente in un vero e
proprio teatro di posa en plein air, in spazi che malgrado suggeriscano la loro semplicità con l’impiego di luci e scenografie naturali, risultano alla fine oppressivi. La cinepresa segue movimenti precisi che scandiscono il ritmo dell’opera e ne esaltano la tensione, talvolta lasciando aria all’immagine in brevi inquadrature sui paesaggi desolanti, e altre incorniciando i personaggi in rigide riprese frontali: i protagonisti subiscono una sorte in cui sono disarmati da ogni volontà e indipendenza, prigionieri dell’isola, costretti a vivere di un’attesa vana e inconsapevole – l’attesa di un significato. L’impossibilità di non rivedere più in loro stessi il senso e di non riconoscere più nell’amore, nella passione e nell’ammirazione la causa sui della vita è dovuta alla sincerità con cui sono costretti ad osservarsi: solo grazie a questa scoprono che ciò che li attrae e li lega non è altro che l’immoralità dei loro pensieri e il vuoto che li riempie. Il conflitto innescato tra di loro vicendevolmente non è altro che una guerra interiore protratta fino alla scoperta del proprio male.
Bergman sembra voler spiegare allo spettatore quanto può essere angoscioso dover ritrovarsi soli ad osservare sempre fuori dalla stessa finestra, in un varco spalancato che al contrario di far sentire più liberi – incorniciando spazi e paesaggi dove con la vista ci si può perdere – mette a soggezione. E si è immobili a scrutare, avvertendo che qualcosa ormai non così lontano sta per colpire o che tutto ciò che è così bello alla vista non si può possedere, bensì si viene condannati alla staticità rinchiusa tra
quattro mura. In entrambi i casi si percepisce di essere bloccati, e di come comunque vada si debba stare fermi e inerti a subire quell’ondata di vento celata dalla finestra; una tempesta così violenta da abbattere qualsiasi parete e trascinare i corpi via con sé, spogliandoli completamente e, ormai nudi, umiliandoli di fronte a loro stessi, poiché questi prima di tutti sanno quali verità celavano, che ora
sull’erba verde paiono sfuggirgli stanche di essere tenute nascoste.
Se la malattia di Karin è per la sua famiglia in un certo senso contagiosa, allora si può anche dire, viceversa, che la sua famiglia è complice dell’alienazione che vive la ragazza. La mancanza di punti di riferimento, sia da parte del marito sia dal padre, è la condizione che forse più di tutte favorisce le sue visioni “blasfeme” (oltre ad essere ciò che la avvicina così tanto al fratello Minus, e ciò che rende entrambi dei personaggi infantili e ancora smarriti di fronte alla vita). Karin distaccandosi dalla realtà ha smesso di conoscere l’amore, ma nessuno le è stato veramente accanto per rammentarle cosa l’amore fosse. Abbandonata alle proiezioni del suo subconscio ha dato vita agli istinti dettati da un Dio privo di affetto e bontà, manifestatosi a lei sotto il segno di ragno-pazzia. Nell’assecondare le sue sofferenze la ragazza vive una fede contorta, confonde il “bene” e il “male”, o meglio li scopre in quanto uno la conseguenza dell’altro – Dio non si distingue dalle altre ombre ripugnanti sulle pareti, al contrario pare essere proprio la fonte, la luce che ne proietta le sagome. La relazione tra l’uomo e ciò in cui crede si può dire spaccata dal silenzio che li separa – il silenzio di un punto di riferimento assente, dello scetticismo di anime marmoree verso la vita – lasciando spazio all’ambiguità che le visioni di Karin suggeriscono. La divinità di “Come in uno specchio” sembra addirittura nascere proprio da una necessità portata dal profondo, sospettoso timore di fronte a un pessimismo incurabile, lo stesso che ha costretto secoli interi a tenersi attaccati coi denti a un’interpretazione religiosa dell’esistenza.
Bergman racconta la religiosità attribuendole un dualismo: il buio di un credo che nato come maschera della lussuria può rivelarsi la lussuria stessa, nella sua forma più subdola, oppure la via per un’elevazione spirituale, tale da permettere all’uomo di coltivare i suoi sentimenti più nobili, la passione e l’amore, come spiega David nell’ultima e repentina battuta, in risposta al figlio:<<Dio? Dammi una prova. Non puoi.>> <<Si che posso. Dio è la certezza che l'amore esiste come cosa concreta in questo mondo di uomini... Ogni genere di amore, il più elevato e il più infimo, il più oscuro e il più splendido. Ogni specie di amore... Non so se l'amore dimostri l'esistenza di Dio oppure se l'amore sia Dio stesso... Questo pensiero è il solo conforto alla mia miseria e alla mia disperazione. Di colpo la miseria è diventata ricchezza e la disperazione speranza. E' come essere graziati sul punto di morte.>> La visione di Dio come amore viene però affermata con tacita esitazione, poiché in contraddizione con l’esperienza vissuta dai quattro personaggi: come si può
vivere in mondo che ha già smesso di credere?