Goliarda Sapienza: come diventare libere in prigione. Uno sguardo su “Fuori” di Mario Martone
Goliarda Sapienza: come diventare libere in prigione. Uno sguardo su “Fuori” di Mario Martone
“Il carcere è come il fuori, c’è gente come noi dentro.”
“Fuori”, il nuovo film di Mario Martone, si chiude con queste parole di Goliarda Sapienza, tratte da un’intervista d’archivio proiettata durante i titoli di coda. Iniziare dalla fine è, in questo caso, un modo per entrare subito nel cuore del film. La frase ribalta ogni distinzione tra chi è dentro e chi è fuori, tra reclusione e libertà, tra normalità e devianza.
Con “Fuori”, Martone realizza molto più di un adattamento: firma un’opera che è insieme omaggio, interrogazione politica e gesto poetico. Al centro, la figura di Goliarda Sapienza, una delle voci più radicali e misconosciute del Novecento italiano, scrittrice che ha fatto della marginalità una condizione di consapevolezza e della scrittura uno strumento di resistenza.
Il film si ispira a “L’università di Rebibbia”, il memoir che Sapienza scrisse dopo il suo periodo di detenzione nel 1980. Questa pellicola si inserisce nel solco di un cinema italiano che sembra finalmente pronto a rileggere il proprio passato culturale con uno sguardo sensibile verso le marginalità e le voci dissidenti. In questo contesto, Goliarda Sapienza emerge come una figura paradigmatica. Il suo capolavoro più emblematico è “L’arte della gioia”, opera rifiutata in vita e pubblicata in Italia solo trentadue anni dopo la sua morte, oggi riconosciuta come un classico contemporaneo. Non sorprende, dunque, che nell’ultimo anno la sua figura e la sua opera siano state al centro di due importanti progetti cinematografici: “L’arte della gioia” di Valeria Golino e, appunto, “Fuori” di Mario Martone.
Nel film accompagniamo Goliarda dentro e fuori le mura di Rebibbia, in un continuo intrecciarsi di piani temporali che restituiscono la complessità della sua esperienza. Il carcere si rivela uno spazio inatteso di confronto, scoperta e resistenza. Con le altre detenute, Goliarda intreccia legami profondi fondati sulla condivisione di storie segnate da dolore, coraggio ed esclusione. È proprio nella reclusione che prende forma un percorso di liberazione interiore: la scrittrice rielabora sé stessa, il proprio passato e il rapporto con il mondo, cercando di preservare libertà e dignità in un contesto che vorrebbe annientarle.
Valeria Golino – in una delle sue interpretazioni più intense e trattenute – incarna con grazia e precisione la fragilità e l’indole ribelle di Goliarda, la quale dietro le sbarre scopre un nuovo spazio di senso. Rebibbia non è solo prigione, ma luogo di rivelazione: in quella “università”, Goliarda impara più sulle donne, sulla violenza sociale, sulla tenerezza e sulla sopravvivenza che in una vita trascorsa tra i salotti della sinistra romana e il teatro sperimentale, ambienti che – come lei stessa afferma – “non la vogliono più”.
Martone costruisce un racconto che non idealizza il carcere, ma nemmeno lo riduce a scenario di abiezione. Al contrario, lo trasforma in un dispositivo narrativo e filosofico: è dentro Rebibbia che si fa esperienza del fuori, della verità nuda delle relazioni, della parola che non si scrive per piacere o per carriera, ma per necessità vitale.
Le compagne di reclusione (Roberta, interpretata da Matilda De Angelis, e Barbara, una sorprendente Elodie) non sono semplici spalle narrative, ma figure autonome e complesse, portatrici di altre subalternità, altri saperi, altre forme di resistenza. È nel dialogo con loro che Goliarda riscopre il potere sovversivo dell’empatia e della scrittura. La loro voce entra nel suo taccuino, nei suoi occhi, nella sua penna. Scrivere non è più (solo) raccontarsi, ma restituire: dare corpo e dignità a chi è stato cancellato.
La fotografia di Paolo Carnera alterna con rigore e calore gli spazi claustrofobici del carcere alle aperture simboliche di una Roma estiva e satura di luce, dove le protagoniste, una volta fuori, tentano di ricostruire un senso – o almeno una forma provvisoria di convivenza con sé stesse. Non c’è alcun trionfo, nessuna redenzione patinata. C’è, piuttosto, il realismo della complessità, della bellezza storta della vita che non si lascia domare.
Emerge così una riflessione profonda – mai esplicitata ma costantemente allusa – sull’identità femminile e sul suo rapporto con le strutture del potere. Goliarda Sapienza non è, in fondo, solo una detenuta; è una donna che ha rifiutato ruoli, aspettative, rispettabilità. Il furto che la porta in prigione (un gesto assurdo e provocatorio) è l’ultima sfida a una società che la espelle perché non riesce a contenerla. In carcere, Goliarda è finalmente con le altre: non più oggetto di esclusione, ma parte di un’esperienza collettiva che la riconfigura.
“Fuori” è un film che, nel farsi biografia, si fa anche allegoria. Parla di un’Italia che non ha voluto ascoltare le sue donne più libere, e che oggi le riscopre con un misto di stupore e rimorso. In questo senso, il film non è solo su Goliarda Sapienza: è con lei. Ne sposa lo sguardo, ne adotta la postura etica, ne raccoglie la voce. È un film che prende posizione – senza proclami, ma con chiarezza.
La sua presentazione in anteprima al Festival di Cannes 2025, nella selezione ufficiale, ha confermato l’interesse internazionale per un cinema italiano capace di interrogare la propria memoria culturale e sociale. Eppure “Fuori” è tornato a casa senza premi. Una scelta che ha lasciato perplessi molti osservatori: non tanto per una questione di medaglie mancate, quanto per ciò che questa assenza sembra dire – ancora una volta – sul rapporto tra riconoscimento istituzionale e opere che mettono in discussione i codici dominanti.
Martone, da sempre regista attento ai margini e alle fratture del Paese, sembra accettare il silenzio con la stessa discrezione con cui ha diretto il film: lasciando parlare le immagini, le parole, i corpi. Ma “Fuori” continua, con la voce ostinata di Goliarda, a interrogarci, a inquietarci, a restare.
Perché, come scrisse lei stessa, “nessuno può restare innocente di fronte alla libertà altrui”.