Hai sentito il bisogno di controllare i tuoi documenti dopo aver letto un romanzo? Tranquillo, hai solo letto Dostoevskij
Giuliana Fossati
Giuliana Fossati
Quante volte, guardando un film o leggendo un romanzo, vi è capitato di provare una sorta di soddisfazione nel riconoscervi in un personaggio? Come se il destino vi avesse offerto, attraverso quella figura, una risposta ai vostri quesiti esistenziali? Ecco: nelle opere di Dostoevskij, qualche pagina dopo averle cominciate, vi ritrovate spesso a vivere il dramma di quel personaggio. E lì accade qualcosa di destabilizzante: il nostro ego viene ferito, ci sentiamo smascherati, disorientati.
Dostoevskij è stato il precursore di una tecnica narrativa capace di privarci di ogni certezza, di spogliarci di ogni risorsa illusoria, lasciandoci a navigare in un mare di dubbi.
Questa esperienza tipicamente umana è conosciuta come identità narrativa: un concetto che affonda le sue radici nella filosofia contemporanea e che studia la relazione tra narrazione e realizzazione dell’identità personale. Leggere, dunque, diventa un espediente per confermare chi siamo, rispecchiandoci in un personaggio. Dostoevskij aveva intuito tutto questo ancor prima che tale teoria venisse formalizzata. L’autore si avvale di questa consapevolezza per confonderci, smuovere le nostre certezze e toccare qualcosa di profondo dentro di noi.
È il caso, ad esempio, del racconto La mite: un penoso monologo interiore, un flusso sconnesso di pensieri in cui la narrazione segue un crescendo di angoscia, adornato da contraddizioni, ripetizioni e situazioni disturbanti. In poche pagine si racconta il tragico epilogo di un matrimonio. La narrazione si apre con l’immagine di un pover’uomo prostrato davanti al cadavere della moglie. All’inizio suscita compassione e una certa empatia; ma, man mano che la narrazione avanza, l’uomo si rivela per ciò che è realmente: un persecutore egoista ed incapace di amare. Il lettore, costretto a ritrarsi, vede l’identificazione con il personaggio incrinarsi. Lo specchio si rompe. E quindi? Le nostre certezze svaniscono. Ed è proprio qui che la narrazione si rivela efficace: quel vuoto di incertezza ci spinge verso una riflessione più profonda. Non è il personaggio in sé a lasciarci qualcosa, ma la frattura che provoca in noi.
Un altro esempio straordinario della maestria dostoevskiana è I fratelli Karamazov. In questo romanzo, attraverso tre personaggi tormentati da dilemmi morali, Dostoevskij affronta temi universali e atemporali. Sembra quasi di trovarsi in uno scenario in stile The Truman Show, una simulazione creata su misura per noi. Ed è proprio quando i valori incarnati dai personaggi crollano, come la passione di Dmitrij che lo porta al parricidio e la razionalità di Ivan che sfocia nella follia, che anche il lettore è costretto ad affrontare una tempesta interiore.
Dostoevskij entra nella nostra intimità, gioca con le nostre certezze, ci illude… per poi travolgerci con una verità dolorosa. Ci spoglia dell’egoismo con cui solitamente ci mostriamo allo specchio, forti e sicuri. Dopo averlo letto, ci ritroviamo invece davanti a quello specchio a disagio, ma un po’ più curiosi. In un’epoca in cui l’individualità giace in un
luogo umbratile della nostra essenza, Dostoevskij ci induce ad abbandonare l’illusione di ciò che vorremmo essere, per fare spazio alla scoperta del nostro vero Io.