Il nome della rosa
Un libro che tutti vorremmo aver letto, o che raccontiamo di aver letto, ma che nessuno ha letto o ha voglia di leggere: un classico. Questo è Il nome della Rosa: un classico tra i più vicini a noi nel tempo ma almeno in apparenza tra i più lontani nei temi, un classico che parla in latino attraverso codici miniati e dispute teologiche, eresie insulse e abbazie medioevali. Un libro d'elitè, che fa spavento, e non mi sento di rimproverare chi si è tenuto distante finora da quelle pagine dense e avvelenate; tuttavia se siete ormai inseriti a dovere nel mondo della lettura, prima o poi gli scaffali della biblioteca dell'Abbazia diverranno un passaggio obbligatorio, e una volta dentro e poi fuori non resterete più alieni nelle chiacchere tra lettori, non ci sarà nemmeno bisogno di fingere di averlo letto per darvi un tono intellettuale.
“in nomine Rosae” viene rilasciato al pubblico nel 1980 (Bompiani) e nel 2020, ben quattro anni dopo la morte dell’autore, viene riedito dalla casa editrice fondata da lui stesso, La Nave di Teseo, con l’aggiunta dei disegni e degli appunti dello stesso Eco, realizzati al momento della prima stesura; ma è stato scritto a partire dal 1978, e benché ci introduca in tutt’altra realtà storica, l’autore traccia “di nascosto” un ritratto sfocato della società dei meravigliosi anni ‘70, a seguito del grande boom economico e demografico di quegli anni, un'edace occasione di avanzamento, un ansioso slancio di volontà di distaccarsi dagli anni della censura e del proibizionismo, ormai lontani.
Da studioso e intellettuale, Eco ha sviluppato tutt’altra coscienza: la consapevolezza dell’importanza degli anni passati, che potrebbe sembrare palese al giorno d’oggi ma che rare volte la massa si ferma ad ammirare: e gli uomini del basso medioevo dal canto loro poco a poco hanno dato vita alla memoria popolare di cui si compone la società odierna.
Nell'opera inoltre Eco ha infuso tutto il sapere e la passione derivatigli da anni di studi; per questo Il nome della Rosa oltre ad essere romanzo giallo, storico, gotico e filosofico è anche il mezzo con cui l’autore ci trasmette le sue numerose teorie sul medioevo, che vanno dall'analisi storiografica all'argomento teologico, trattato dagli stessi personaggi del romanzo.
Osserviamo la storia: in un classico stratagemma Manzoniano, un narratore di primo grado non esplicitamente associato all’autore ci introduce ad un manoscritto in lingua latina, scritto da un anziano monaco con nome cattolico di Adso da Melk, il quale sentendosi prossimo alla morte decide di comunicare ai posteri i fatti sibillini accaduti durante il noviziato, nel 1327, nell’abbazia benedettina di Santa Scolastica, nell’Italia del nord.
I personaggi, come in ogni giallo che si rispetti, sono delineati in tutti i loro vizi, le loro attitudini e inclinazioni; e il personaggio centrale, che Adso assiste durante l’indagine, è il brillante monaco francescano Guglielmo Da Baskerville (qui viene automatica l'associazione al celebre luogo dove è ambientata una delle prime indagini di Sherlock Holmes). Guglielmo è il maestro di Adso, e si comporta con lui in modo benevolo, rimproverandolo e prendendolo in giro; viene scelto dall’Abate benedettino Abbone da Fossanova per risolvere un tragico e a tratti blasfemo avvenimento che ha colpito l’abbazia: l’apparente omicidio di Adelmo di Otranto, miglior miniaturista dell’abbazia.
Col proseguire delle indagini, tra i corridoi, le celle, i chiostri e gli uffici dell'abbazia gli omicidi diventano sempre di più, e sempre più diabolicamente in linea con un'oscura profezia pronunciata dal monaco più anziano, sui sette giorni precedenti l'arrivo dell'Anticristo.
Il romanzo è appunto diviso in sette grandi capitoli che coincidono con i sette giorni passati da Guglielmo all'Abbazia, e ogni capitolo è scandito dalle ore tradizionali della giornata del monaco (mattutino e laudi, ora terza, ora sesta, ora nona, vespri, compieta): in questo lasso di tempo, la storia segue anche una seconda linea narrativa; infatti in quegli anni le tensioni tra l’Imperatore Ludovico il Bavaro e il Papa Giovanni XXII erano quasi sul punto di scoppiare, e il Bavaro al fine di uscirne vincente si era ingraziato i monaci francescani, sostenitori delle tesi pauperistiche che si opponevano agli ideali di ricchezza del Papa. Il francescano Michele da Cesena dunque viene messo a capo della delegazione imperiale che giungerà il terzo giorno per dibattere nell’abbazia (che in quanto benedettina è territorio neutro) con la delegazione avignonese del Papa, che arriverà il quarto giorno. Fra Guglielmo è un francescano e parteggia per la delegazione imperiale ma si mostra molto distaccato e lontano da qualsiasi secondo fine di ricchezza o potere, e il suo impegno principale è volto verso la risoluzione del caso: egli possiede ottime doti deduttive acquisite al tempo in cui svolgeva le sacre funzioni di inquisitore, e il suo intervento sarà indispensabile per calmare il litigio verso cui la colta discussione stava iniziando a pendere. Questa seconda linea narrativa si chiuderà con la partenza di entrambe le delegazioni e nell’incertezza, senza arrivare ad un accordo vantaggioso per entrambe le parti; questa serie di incontri tuttavia sarà importante per la maturazione del giovane e inesperto Adso, che porrà al suo maestro e ad altri monaci diversi interrogativi, e a seguito dell’incontro con Salvatore, monaco gobbo e deforme che parla un ensamble di tante lingue romanze, il novizio conoscerà la storia del cosiddetto “fiume ereticale” iniziata dal francescano Fra Dolcino, che riunì una setta di seguaci con cui occupare centri abitati di campagna e condurre una vita primitiva e blasfema agli occhi degli altri sacerdoti, che mandarono al rogo molti dei dolciniani.
Nel monastero oltre a Salvatore vi è un altro dolciniano, Remigio da Varagine, cellario, che sarà punito (in quanto ha portato una popolana all’interno dell’abbazia per ricevere favori sessuali) dall’inquisitore Bernardo Gui, capo della delegazione papale nel quale si può vedere un’opposizione naturale alla figura di fra Guglielmo, un ex inquisitore che ha scelto di proseguire la ricerca della verità escludendo l'autorità e la violenza.
Merita una menzione la biblioteca, luogo cui gira intorno tutto il mistero, la cui struttura interna è nota solamente al bibliotecario e al suo assistente, che dopo l’abate ricoprono la posizione più in vista nell’ambiente clericale.
I personaggi sono praticamente tutti monaci e, come asserisce l’abate, hanno il compito di essere i “pastori” del “gregge” (il popolo). Tuttavia ad un più attento esame ci si accorge che il romanzo strizza l’occhio al popolo, costretto nella sua ignoranza e nella sua semplicità a vivere alle dipendenze dei pastori; questi ultimi dal canto loro si rivelano spesso ipocriti e schiavi dei vizi che le loro vite appartate e le loro preghiere dovrebbero invece reprimere. all’interno della storia il popolo è rappresentato dall’unico personaggio esterno al mondo della chiesa: un'umile ragazza entrata nel monastero di soppiatto per offrire la sua virtù al cellario in cambio di cibo per la sua famiglia. Adso, ancora giovane e bello, sarà sorpreso da lei durante una veglia notturna, e la fanciulla gli si offrirà senza che il giovane casto potesse opporsi: sconvolto, l'apprendista si confesserà solo con il suo maestro, che non lo punirà e lo inviterà ad una riflessione più pronfonda.
Questo incontro è forse l'unico elemento poetico di tutto il romanzo, e rimarrà per sempre impresso nella mente del giovane, che alla fine del suo manoscritto descriverà la vivida immagine della ragazza che amò solo per una notte, “l'unico amore terreno della vita mia, di cui non seppi, né saprò mai, il nome”. Per i lettori però, troviamo forse un indizio nella sibillina formula di chiusura dell'opera: “Stat Rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus” ("la Rosa primigenia esiste solo nel nome, possediamo soltanto nudi nomi").
04/01/2024