Inferno è una delle parole più ricche e complesse della nostra lingua. Di origine latina, l'aggettivo infernus racchiude al suo interno la sfumatura inferus, stando quindi a indicare una zona piuttosto bassa rispetto allo spettatore, addirittura nascosta, fino a identificarsi con la dimora dei di inferi, la terra promessa dei cadaveri, la prigione dei dannati. Col trascorrere del tempo, insomma, la parola Inferno ha sprigionato una forza immaginifica tale da lasciarci spesso attoniti dinnanzi alle sue personificazioni letterarie, cinematografiche, artistiche e via discorrendo.
Nello sconfinato panorama letterario italiano, tuttavia, non è ancora apparsa un'opera tanto evocativa, profonda e viscerale da superare, quanto meno scalfire, quella rappresentazione dell'Inferno, capace di influenzare l'immaginario dei paesi circostanti (e non solo) senza dominando sulle piaghe del tempo.
Lasciata ogni speranza e superata la celebre porta, l'Inferno di Dante Alighieri si apre a noi come uno scrigno oscuro che custodisce non soltanto le cruente punizioni a cui i peccatori sono sottoposti per aver rifiutato la luce di Dio. Qui ha luogo una delle più incantevoli contraddizioni della letteratura: nonostante le atrocità a cui assistiamo attraverso gli occhi di Dante, l'opinione pubblica non accenna a cambiare: il regno dei dannati è ancora oggi la cantica più apprezzata, perché l'umanità trasuda da ogni verso. Anche quando assumono forme demoniache, ci raccontano le loro colpe e poi ci restano a guardare, incattiviti, mentre noi proseguiamo con il viaggio, le creature che Dante incontra nell'Inferno sfiorano le corde della nostra empatia lasciando un graffio rosso dentro ognuno di noi. Un tocco che il Purgatorio e il Paradiso, per quanto siano luoghi certamente più sacri e "vivibili", è in attesa di compiersi senza mai arrivare al finale, come nell'affresco di Michelangelo La creazione di Adamo.
Il fascino terribile che l'Inferno dantesco esercita sin da sempre sui lettori, forse, non è solo frutto della tendenza, propriamente umana, al non resistere alle tentazioni. O meglio, non si tratta solo di questo. Una motivazione potrebbe risiedere nella natura stessa dell'Inferno, in quanto anche il regno dell'etterno dolore, nonostante tutto, è un'opera d'amore. Una dimostrazione magistrale della giustizia divina che si compie, progettato in origine per gli angeli che si ribellarono insieme a Lucifero, una creazione che sancì la fine delle cose eterne e l'inizio di quelle periture.
Da quel fatidico giorno rifiutare Dio, e quindi servirsi in malo modo del libero arbitrio, è un peccato che va patito per l'eternità.
Tutto esiste in virtù di questo Primo Amore.
Ma si può dire lo stesso delle cose compiute dall'uomo in nome di Dio?
Esiste un punto oltre il quale operare per Lui non è più accettabile? Se l'Inferno stesso è un luogo di sofferenza, sarà forse quest'ultima il baluardo della giustizia divina?
Questi sono solo alcuni degli innumerevoli interrogativi che sorgono nel lettore quando si addentra nella lettura di "Dopo di noi venne l'Inferno". Nello scenario apocalittico descritto da Andrew Joseph White, di cui altri due romanzi sono previsti in uscita quest'anno, sono molteplici le riprese dantesche, più involontarie che volontarie, ma sono altrettante le divergenze, com'è giusto che sia.
La verticalità non è la caratteristica principale dell'avventura di Benji, il protagonista di Dopo di noi venne l'Inferno. Come sarà proprio lui a dichiarare, "l'Inferno ci ha seguito sulla Terra e io sono il mostro che gli ha aperto la strada".
La storia non si sviluppa nell'oltretomba, ma affaccia su un futuro dove è stata presa una decisione estrema, che ha comportato la scomparsa di buona parte dell'umanità, una sorta di primo giudizio universale innescato da altri umani per "volere di Dio". Il piano non è ancora giunto al termine, ed è proprio su Benji che grava un dovere superiore, "il colpo di grazia" potremmo definirlo. A differenza di Dante, tuttavia, Benji si sottrae con tutte le sue forze alla sorte impostagli, opponendosi a tutti coloro che vogliono figurarsi come sua guida, arrivando a tentare la fuga e, fallita questa, a essere accusato di miscredenza.
Ma siccome Benji rappresenta il punto cruciale per il compimento del piano, nessuno può sbarazzarsi di lui: il ragazzo deve essere assolutamente riportato sulla diritta via.
Così Dante definisce l'allontanamento dall'ortodossia religiosa, come una strada smarrita in seguito a uno stato di dormiveglia. Va anche detto che Benji è additato come peccatore soprattutto per un altro motivo: perché non è un ragazzo vero, ma dice di sentirsi tale sin dalla nascita. E le persone facenti parte della comunità queer, specialmente negli ambienti fortemente religiosi, sono accusate di sfregiare l'ordine naturale delle cose, "così come lo ha voluto Dio". Ciò, purtroppo, è dimostrato ancora oggi dalle atroci terapie di conversione che si effettuano in diversi stati del mondo.
Già accennato prima, uno dei temi portanti della Divina Commedia è quello della guida. Sia Virgilio che Beatrice, così distanti eppure legati dalla necessità di accompagnare Dante nel suo cammino, sono permeati da una premura, un'humanitas, che nel canto II li spinge a dimenticare persino leggi fondamentali dell'oltretomba.
Sono molte di più le persone che cercano di ricoprire questo ruolo nella vita di Benji, ma senza successo. A cominciare dalla madre, dal viso angelico quanto spietato, il cui amore sembra orientato più verso il ruolo che spetta a Benji ("mamma aveva detto che sarei stato venerato come il vero strumento della volontà di Dio, santo quanto i cherubini, i troni, i regni e le virtù") che verso Benji stesso. Prima di lei c'è stato suo padre, l'unico a non condannarlo per il fatto di essere un ragazzo transgender, deciso più che mai a sottrarlo al suo destino anche se non sembra esserci altra via di fuga per Benji. Sebbene lasci la storia troppo presto, e anche in maniera alquanto brutale, le parole di suo padre sono una costante nell'avventura di Benji, una voce che gli risuona in mente durante le notti più buie e dolorose. C'è una promessa che legherà per sempre padre e figlio, anche se resta solo uno di loro a compierla attraverso l'Inferno terrestre. Infine, c'è Nick, il ragazzo a capo della resistenza, tacito e serio, consapevole che il potere di Benji sia "terrificante come quello del Diavolo e doppiamente giusto", e tuttavia disposto ad accettarlo nel suo gruppo, rifugiato nel centro di accoglienza LGBT+ di Acheson, nella speranza di vivere fino a diventare grandi, insieme.
Alla fine di tutto, è interessante osservare come per Dante l'idea di Inferno esista e persista principalmente come aldilà, restando quindi più legata al significato originale della parola. Non stupisce che il lavoro dantesco risulti insuperabile, in quanto rappresenta anche la più grande ripresa mitica greco-romana mai attuata, seppur filtrando tutto attraverso il messaggio cristiano.
L'Inferno di White, invece, è più vivo che mai, come la rabbia che vive avvinghiata all'autore. Lui stesso, nella breve lettera che apre il libro, dichiara che il tema principale è la sopravvivenza contro le atrocità che vengono commesse nel nome della fede. Anche il suo Inferno è popolato di mostri, di umani che mettono al primo posto gli umani anche voltando le spalle a Dio; e altri, quasi tutti adulti, che scelgono sempre se stessi e la propria salvezza.
L'aspetto più inverosimile del romanzo potrebbe essere il fatto che tutto si ritrova nelle mani di ragazzini, ma è in verità il tratto più solido. Perché quando non si è ancora "nel mezzo del cammin di nostra vita", lottare per la salvezza è un dovere morale per poi "uscir a riveder le stelle".
10/07/2024