a F.
ἔγω τε γαρ φιλην μ' ἇς κεν ἔνη μ' ἀυτμή’.
Saffo
Dissacrante, spesso, appare visitare luoghi liturgici nella notte scura, specialmente se da alcune vecchie bigotte son narrate antiche leggende per tener lontani i bambini dai loro traditi crocifissi. Sulla Certosa di San Lorenzo in Padula si raccontava di fantasmi, monaci sepolti nei giardini e che continuavano nell’esercizio del motto “Stat Crux dum volvitur orbis”. Quella notte del ‘61 era anche più terribile: la luna era timida, le stelle erano scese in pellegrinaggio sulla Terra e la natura era silenziosa ma attenta. Leandro percepiva piccoli occhi, viscidi come zampe di ragno sul suo collo, alle spalle. Era in scacco, impigliato in uno scacciasogni, tuttavia non temeva nulla, pieno del coraggio di un ragazzetto undicenne che ha scoperto i fuochi fatui in un cimitero di periferia. Era tardi e lui, in atteggiamento di preghiera, pregava non come farebbe un lupo alla luna, bensì in modo ascetico e nostalgico. Fumava, ma la bruma che nasceva dal suo respiro nel buio era invisibile. Un po’ come lui, nato solo al mondo. Fumava, senza contare, senza curarsi del male, come sul balcone della casupola borghese in cui viveva la nonna, dove ogni tiro era un senso di colpa nei confronti di una donna che era tanto ostile al tabagismo quanto alla depravazione della carne. Fumava ed esorcizzava pensieri: tanti viaggi ed esperienze varie alle spalle, ma anche una promessa, una cattedra al liceo del paese, sufficiente per richiamarlo alle radici. Quanto odiava quelle radici, o forse solo le pensava lontane. Gli parevano un randagio. Il paesello aveva l’andamento di un moribondo, solo la solitudine nostalgica nel cuore lo rendeva simile a lui: il rimpianto di un amore materno, perduto al primo vagito, in qualche viscida e appiccicosa cantina. Non pensava mai a sua madre, e suo padre gli compariva solo in sogno, come antidoto. Aveva solo sua nonna, sempre rinchiusa nella chiesa greca di fianco alla casupola. Gli veniva in mente un uomo, ancora sconosciuto, ancora astratto e distante: pensava alle sue labbra e al proiettile che in canna era pronto ad assassinare il cuore. Era solo, Leandro, e ne soffriva, ma non perché non si bastasse, voleva condividersi. Sull’amore aveva letto molto, e per quanto nei suoi viaggi il corpo avesse conosciuto i più voluttuosi piaceri, non era mai stato innamorato, schiavo di un cuore ibernato. Era molto tardi, il freddo stava gelandogli il naso, troppo all’insù; dormire sul prato non ancora imperlato di rugiada non gli sembrava un’idea poi così cattiva, ma cosa avrebbe pensato sua nonna al suo risveglio, dopo la prima preghiera, alla vista del letto intatto? In più, qualche ora più tardi
sarebbe entrato in ruolo, ricoprendo la cattedra di italiano e latino a tempo indeterminato. Chissà - si chiedeva - se sarebbe stato un fiato in un flauto che è sfiatato o avrebbe fatto piangere parole di giovani studenti.
Su Padula sorse l'alba e Leandro abbandonò la Certosa per tornare nella casupola di famiglia a disfare il letto e fingere di aver dormito tutta la notte. A colazione baciò la nonna e si fece offrire un caffè nero bollente, gorgogliato nella moka arrugginita. Di mattina non amava parlare e all’insistenza della nonna rispondeva con noia. Le mentiva, le mentiva molto, nascondendo ciò che è stato, che è e che sarà. Uscì di casa, sospirò, estrasse una sigaretta dal pacchetto di Gauloises Caporal blu, l’accese con melanconia, diede un rapido sguardo al pacchetto con l’elmo gallico alato e in bocca smorzò il loro slogan: “Liberté toujours”. Messo il pacchetto nella tasca destra interna alla giacca, infastidito dalle lunghe salite da percorrere per raggiungere il liceo scientifico statale, in via Salita dei Trecento, si incamminò. Certo, avrebbe potuto usufruire del servizio pubblico comunale, ma come poteva sopportare il tanfo dell’ipocrisia, della falsità, del mal comune mezzo gaudio emanato da sempliciotte galline putride in vecchie gabbie di ferro e contadini con gli stivali di gomma sporchi di letame? Era un idealista, ma lo divenne per sopravvivenza. Di essere inadeguato non ne fu mai spaventato, pensava però in modo ostinato a come fosse vestito: una giacca a motivi tartan verde salvia con ricami ocra, una semplice camicia operaia pastello celeste, una cravatta acqua inquinata, annodata male, forse troppo lunga, (d’altronde non gliel’aveva mai insegnato nessuno), pantaloni grigi e scarpe di cuoio Adrian Loafers, un Loden tirolese a pelo corto e una ventiquattr’ore appartenuta al nonno, maestro prima della guerra, l’unico uomo a far vacillare la fede corrotta della vecchia nonna. Non aveva più tempo per dare adito al suo fioco narcisismo: era arrivato. Un’altra sigaretta per allentare la tensione che in realtà non aveva, gettato il mozzicone nel tombino ed ignorando le lingue pulite degli studenti che arrivavano, varcò l’ingresso.
Il liceo non era poi così buio come si immaginava, lo erano le bidelle, mummie immobili che gli riservavano i più freddi e statici saluti, come fossero state vinili infiniti. Solo una faceva eccezione: era giovane, una messa in piega bionda, truccata e con tanti gioielli da sembrare gitana, forse alta all’incirca un metro e sessantacinque, Sabrina o forse Simona, con un seno che faceva cadere i professori dalla cattedra quando portava il caffè. Su di lui, tuttavia, le sue mani, le sue risate forzate ed il profumo di fiori non avevano potere, anzi ne era infastidito. Per lui quelle mani erano viscide, il profumo era di fiori imputriditi e non riusciva a ad ignorare l’alluce valgo che le
spuntava dal tacco. La campanella segnò l’inizio delle lezioni e i corridoi erano già svuotati dalle mandrie di studenti.
Leandro si avvicinò alla bidella più ossidata e le domandò dell’aula IV B; alzando lo sguardo dalla rivista femminile “Burda”, un’edizione del ’57, la vecchia, odiandolo per averla scossa dal letargo, indicò l’aula al professore. In quel momento il preside si materializzò alle spalle di Leandro e gli andò vicino per stringergli la mano. Il preside gli apparve un uomo ordinario, era sì alto, ma aveva la forma di un’anfora, abbellito da un completo di bottega veneziana nero. Le mani erano pelose come quelle di un uomo ignorante e la sua stretta era così molle da fargli intuire si trattasse di un uomo debole.
Il preside lo salutò come se gli avesse offerto l’occasione della vita, quella della statica vita statale, ma da Leandro in cambio ebbe una smorfia facciale di un nano secondo. Lo condusse nell’aula e, una volta arrivato, Leandro si chiese come mai proprio a lui fosse toccata quella più cupa; venne lasciato sulla soglia, come se il Preside avesse timore del giudizio delle giovani menti.
Leandro entrò e improvvisamente il baccano che poco prima invadeva il corridoio morì. Salì sulla pedana e, gettata la ventiquattrore sulla cattedra, guardò i volti dei ventitré ragazzi in piedi. Non disse buongiorno, si sedette e iniziò a parlare di Virgilio. Si aspettava di annoiare, di suscitare sbadigli, ma i ragazzi ascoltavano attentamente ogni parola, facevano domande e alla fine della prima ora il rappresentante di classe ringraziò il professore. Suonò la seconda campanella, Leandro invitò il figlio del sindaco a leggere in metrica la seconda bucolica, cercò nella tasca interna della giacca il pacchetto di sigarette e se ne accese una, l’ultima. Inorridito dalla lettura del ragazzo gli chiese di andare a comprargli le sigarette, due pacchetti di Gauloises Caporal blu, al tabacchino vicino la scuola. Si alzò in piedi ancora fumando e scrisse alla lavagna “Chi è l’omosessuale?” e la lesse con la sigaretta in bocca, una mano in tasca e l’altra che impugnava il gessetto. I ragazzi avevano letto la seconda egloga ma non avevano osato fare commenti sull’amore di Coridone per lo schiavo Alessi. Quella domanda aveva indignato qualcuno, imbarazzato altri, e iniziò un vociferare assordante. Leandro fece cadere la sigaretta a terra e spegnendola con il piede emise uno schiocco che fece tornare il silenzio. Chiese di nuovo con voce stentorea: «Chi è l’omosessuale?». Entrò il figlio del sindaco con i pacchetti e il resto, li lasciò sulla cattedra e si sedette. Leandro, non ricevendo risposta, dato che il ragazzo appena entrato stava chiedendo spiegazioni sulla scritta alla lavagna, gli chiese: «Tu, sì tu, chi è l’omosessuale?». Il ragazzo si alzò in piedi e disse: «L’omosessuale è l’abominevole figlio del diavolo, l’essere che insulta il crocifisso alle sue spalle e i valori che rappresenta, è l’invertito che
sconvolge la natura e si crogiola come un porco nella palude che è lo schifo della gente». Leandro rise, pensò che erano proprio parole da figlio di un sindaco del MSI. Tutti sembravano concordare con il ragazzo che, nel frattempo, si era seduto di nuovo, quando all’improvviso una ragazza, Marcella, figlia di un mugnaio di un paese vicino, iniziò a piangere. Leandro non riusciva ad essere duro alla vista di lacrime adolescenti che erano come cascate di cristallo e così la invitò ad alzarsi e a condividere con la classe le sue lacrime. Recuperata la dignità, la ragazza iniziò a raccontare di come suo padre avesse tradito più volte sua madre con uomini, e di come, una volta scoperto che si era suicidato, lei lo avesse perdonato e come gli mancasse.
Per la prima volta da quando era entrato, la classe iniziò a brillare, ma non durò molto: gli altri studenti iniziarono a ridere e a schernire la ragazza facendola scappare piangente dall’aula. Il volto di Leandro si congelò e divenne così duro che tutti abbassarono il capo smettendo all’istante. Solo il figlio fascista del sindaco non si sentì intimorito. Il ragazzo venne fatto andare alla lavagna e costretto a scrivere allo sfinimento: “Io sono un omosessuale”. Leandro sapeva dei guai in cui si stava cacciando ma continuò a spiegare fino alla fine del giorno scolastico. Aspettò che tutti gli alunni fossero usciti dalla classe, sistemò i suoi libri nella ventiquattr’ore, si accese una sigaretta e attraversò il corridoio, ignorando il civettare della bidella bisbetica con i suoi colleghi e in un attimo fu fuori dalla scuola. Non aveva fame, raramente mangiava a pranzo, si fermò ad un bar per prendere un caffè amaro e subito si diresse verso la Certosa. Si fermò, come sempre, ad ammirare la luminosa facciata: che serenità gli trasmetteva il movimento della fascia marcapiano aggettante, dovuto a tre architravi figli di massicce colonne doriche! Salutava con sguardo devoto le statue a tutto tondo, allocate in nicchie a finestre, dei quattro santi, per lui unici amici di una vita. Salutava San Bruno, di cui amava il teschio, che per Leandro era la rappresentazione cosmica dell’individuo in quanto sede del pensiero e dell’αὐτάρκεια. Considerava il teschio alla pari della volta celeste, essendo all’apice dello scheletro, comprendente la materia imperitura del corpo, l’anima e l’energia vitale. Leandro ricordava di aver letto un passo di Livio che scriveva dei Galli Cisalpini nel 216 a.C.: essi tennero un’imboscata all’esercito romano dell’ex console Postumio e, una volta sconfitto, portarono via la testa del magistrato e il bottino. Adornarono il cranio con oro secondo la loro usanza e servirono libagioni festive come fosse vaso sacro o coppa per i custodi del tempio. Salutava San Paolo, per lui spada e fune. Quanto avrebbe voluto che il Santo lo cingesse, donandogli concordia, e San Pietro con le sue chiavi, che Leandro sperava potessero aprirgli le porte della biblioteca della conoscenza. Salutava San Lorenzo, a cui abbassava il capo, un gesto per farsi perdonare quanto recita il famoso aforisma «Episcopi et presbyteri et diacones incontinenti animadvertunt». Il Santo gli è sempre apparso mendicante e gli avrebbe dato tutti i
suoi pochi averi, ovvero la casupola borghese, per far sì che avverasse i desideri che nell’anonimato della notte gli sussurrava. Dopo qualche minuto, Leandro si recò nel cenacolo con i Santi, dove era solito congedarsi, per sfuggire dalla realtà e rifugiarsi nei giardini, il cui ingresso era alla sinistra della facciata. Pian piano che si avvicinava, non riusciva a non adorare la Madonna che svettava tra due angeli al centro della corona della facciata, ai cui piedi giaceva un cartiglio recitante “Felix coeli porta” che lo rassicurava e, ogni giorno di più, lo convinceva di quanto per lui fosse locus amoenus, grembo materno. I suoi pensieri svanirono solo quando si sedette all’ombra di un ampio faggio, il solito, verso cui lo dirigeva centrifugamente una forza del movimento circolare del suo sesto senso. Sospirando i versi virgiliani: “Deus nobis haec otia fecit”, prese dalla ventiquattr’ore i testi che avrebbe dovuto spiegare il giorno seguente. Quando leggeva non c’era passante o turista che potesse distrarlo. Quel giorno, però, sentì tre rombi di una Benelli leoncino del ‘56 e il rumore del motore che si spegneva. Dalla moto scese un uomo della sua età, forse un anno più grande, vestito con una giacca di pelle color cammello, una polo nera nascosta nei jeans a vita alta. Non portava calzini sotto i mocassini, infatti si intravedeva la caviglia. Aveva il ciuffo scompigliato dal vento e degli occhiali da sole Bugatti. Come lo stava odiando, Leandro, in quel momento: era così fastidioso, rumoroso, sicuro di sé. Leandro decise di fingere non curanza, e continuò a leggere. Il motociclista iniziò a chiamarlo: «Salve! Professorino, lei! Non mi sente?!», ovviamente Leandro non alzò il capo, girò la pagina, si accese una sigaretta, ma non rispose. «Non mi faccia venire fin lì, mi sporco i mocassini nuovi!» continuò il bel motociclista. «Per Dio!» esclamò e accelerò il passo, facendo suonare le pietracciole sul sentiero sterrato. Stava raggiungendo Leandro, che intanto aveva finito la sigaretta e la pagina, e una volta arrivato gli strappò il libro di mano. Il volto del giovane professore diventò ebano: era furioso, si alzò di scatto e gli tirò un destro che colpì in pieno il volto del motociclista, ne tirò un altro e un altro ancora, iniziò una lite tra i due che terminò quando furono entrambi a terra. Il motociclista, con le mani bloccate da Leandro che era sopra di lui, a due pollici dal suo volto, aveva l’affanno. Leandro si gettò di lato e si ripresero così, fianco a fianco. «Che caratteraccio, mi perdoni!» cominciò di nuovo il motociclista, «Ma chi è lei?» finalmente rispose Leandro che, di nuovo infastidito, si alzò, riprese il libro e con la sigaretta in bocca si tornò a sedere. Il motociclista, imperterrito, si andò a sedere vicino a lui e con tono ironico disse: «Buonasera chiarissimo professore! Può, se non le arreca disturbo, concedermi udienza?». Leandro chiuse il libro sbattendolo e infastidito rispose: «Cosa vuole?». A quel punto, il motociclista con sorriso soddisfatto si presentò. Si chiamava Francesco. - Che nome idiota! - pensò Leandro. Veniva dalla Puglia e stava girando il mezzogiorno in moto; voleva sapere dove avrebbe potuto trovare delle guide che gli spiegassero un po’ quella chiesa in cui era incappato viaggiando. Leandro gli
rispose: «Intanto non è una chiesa, è un monastero, e poi non troverai guide se non ignoranti paesanotti che inventeranno mitiche leggende al momento».
«E perché non mi fa lei da guida?» chiese il motociclista, e lui con una fredda risata ribatté: «Perché dovrei? Dopo l’incontro che abbiamo avuto è già tanto che le stia rispondendo». Il motociclista allora: «Deh, si vede che lei è dimezzato». «Come il Visconte?» disse il professore ridendo ma, notando il dubbio sul volto del motociclista, lo invitò a lasciar perdere. «Dicevo, lei è dimezzato e se ha voglia di condividere la sua conoscenza in cambio le comprerò un pacchetto di sigarette e se vorrà le farò fare un giro in moto». Le parole dell’uomo lo infastidivano così tanto, ma nel suo volto vi era qualcosa che riusciva a scioglierlo. San Lorenzo aveva fatto il miracolo e così Leandro accettò: «Maledetto me, dai, andiamo!», disse. «Ma prima, come sapeva fossi un professore?».
«C’è anche da spiegare, vestito come mio nonno buonanima, sigarette francesi e libro di Virginio». «Virgilio, Virgilio! » corresse Leandro.
Leandro fu una guida senza pari, lo condusse nelle stalle, granai, pescherie, lavanderie, spezierie, nella foresteria antica, nel chiostro della foresteria, nella Chiesa e poi ancora nella sala delle campane, in quella del Capitolo, nella sala del Tesoro, nel chiostro del cimitero antico, nella cappella del fondatore, nel refettorio. Videro la cucina, il chiostro dei procuratori, la scala elicoidale, il Quarto del Priore, il cimitero dei Priori, le celle dei certosini e infine lo scalone ellittico. Tutto in un giro durato fino a tarda sera, tra aneddoti, leggende, storia dell’arte. Francesco non disse una parola se non alla fine «Wow! Grazie». Il motociclista comprò le sigarette, tre pacchetti di Gauloises Caporal blu e se ne andò. Leandro pensò si fosse dimenticato del giro in motocicletta, ma dato il suo orgoglio reale, non glielo ricordò. Si sedette sotto il solito faggio e aspettò l’alba. Fumando e pensando. Le sigarette avevano un sapore diverso e notò che il sangue del labbro del motociclista gli era rimasto sulle nocche. Non faceva altro che guardarlo. Si era innamorato? Certo che no, l’amore è furor, l’amore crea impalcature psicologiche che portano alla morte.
La mattina seguente, come da agenda, tornò a casa intorno alle sei, disfò il letto, si vestì, fece colazione con il caffè offerto dall’insistente nonna, che di lui continuava a non conoscere mai nulla, e andò al liceo. Saliva Via dei Trecento fumando e non riusciva a non immaginare di come in fondo gli avrebbe fatto piacere un giro in moto con il motociclista, della sensazione che avrebbe provato abbracciandolo, nascondendosi dietro di lui per fuggire il vento. Quanto avrebbe voluto
tornare indietro per vederlo lì. Pensava a come era bello, gli sembrava quasi di toccarlo. Arrivato al liceo scosse la testa, quasi per esorcizzare diavoli tentatori e andò dritto in classe. Solite lezioni: Virgilio, Ovidio, Guinizzelli, Properzio; tuttavia, si rese conto che, nell’analizzare topoi amorosi, la sua mente non faceva altro che trasportarlo al pomeriggio del giorno prima e questi sentimenti lo terrorizzavano. Quella mattina, infatti, aveva fumato più sigarette del solito sperando avessero l’effetto dell’acqua fredda sul sogno, ma con scarsi risultati. Finite le lezioni raccolse i suoi libri, si accese una sigaretta e si diresse verso l’uscita. Nell’istante in cui Leandro girò il corridoio per uscire, con la coda del suo pronto occhio vide l’ombra del preside con un’ombra molto più piccola, quella del sindaco. Si girò per guardarli e, per quanto il preside fosse molto più alto del sindaco, sembrava in ginocchio nell’animo, tremava e cercava negli occhi socchiusi del professore aiuto. Leandro girò lo sguardo e fece per uscire quando sentì il passo pesante del sindaco rincorrerlo. Tuttavia, un passo più aggraziato e più veloce lo sorpassò, quello della bidella civetta, che accostatasi al professore e, toccandogli le spalle con voce erotica, gli disse: «Professore egregio, c’è all’uscita un bel motociclista che aspetta solo lei, vada!» e gli ammiccò. Appena la punta del suo naso fu fuori la scuola, sentì il suo odore: era Francesco. Si accostò alla moto e disse: «Cosa ci fa lei qui?». Il motociclista, sempre con quel genuino sorriso, rispose: «Pensava mi fossi dimenticato della sua ricompensa? Chissà come si è dannato il povero professore! Salti su!». Leandro, indispettito, ribattè: «Ma lei è pazzo! Chi si crede di essere?!». Il motociclista rispose in maniera seccata: «Si muova, salga, salga ho detto o giuro che me ne vado!»; Leandro si guardò indietro: vide il preside inerme contro il sindaco che indicava lui, osservò la scuola, gli studenti e dopo un sospiro, tra lo sconfitto e lo scocciato, salì sulla moto che subito sfrecciò via. Da lì l’aria era diversa, il maggese era diverso; le voci delle persone venivano macinate dal trambusto del motore e Leandro si sentiva davvero libero. Il motociclista si girò verso il professore invitandolo ad abbracciarlo dal momento che sarebbe andato più veloce. – Ecco! -, pensava Leandro, - Ora lo abbraccio e addio alla libertà in nome delle catene dell’amore -. La velocità ormai era insostenibile e fu costretto a stringerlo forte al petto. Forse si sbagliava: l’amore era l’unico modo per affrancarlo dalla schiavitù del suo dimezzamento. I due giovani viaggiarono per tutto il giorno, fino a Napoli, e non tornarono a casa fino alle sette del mattino seguente. Leandro si sentiva come un veliero la cui ancora fosse riuscita ad agganciarsi in mare aperto ad una rara barriera corallina.
Tornato a Padula, Leandro passò alla casupola solo per cambiarsi, poi scese al bar dove il suo giovane motociclista lo stava aspettando. Quella mattinata si sarebbe svolta diversamente dal solito: avrebbe preso comunque un caffè amaro e le sue Gauloises Caporal blu per colazione, ma
con Francesco non avrebbe avuto alcuna insofferenza nel parlare. Il giovane mangiava un cornetto, beveva un cappuccino e si sporcava tanto di crema sul naso, nel frattempo ascoltava Leandro che per lui era un libro onnisciente, biglietto per tutti i moli, stazioni o aeroporti. Mentre lui parlava, bastava chiudere gli occhi per essere ovunque ed essere immune e puro. Si era fatto tardi, Leandro aveva lezione e il motociclista si offrì di accompagnarlo ma il professore rifiutò. Fumava e sospirava, avrebbe voluto che le sigarette fossero il suo Francesco. Arrivò all’entrata di scuola e quell’insolito buonumore venne subito sublimato dallo sguardo di paura del preside e da quello bellico del sindaco. Leandro aggrottò le sopracciglia e con passo veloce raggiunse i due. Il preside iniziò il colloquio, sottolineando l’onore che avevano i due ad interloquire con il sindaco. Ci fu un momento di silenzio, probabilmente i due interlocutori speravano che Leandro aggiungesse qualcosa, ma prese solo la sigaretta dalla tasca e l’accese. In realtà Leandro non stava davvero ascoltando, pensava alla moto, al motociclista e alla fuga: programmava la sua evasione da quel mondo. La sua attenzione venne ridestata dalla voce ridicola del sindaco che cercava di intimorirlo. Pretendeva scuse, per lui, per figlio, per la scuola. Continuò per un po’, poi chiese: «Professore, allora, ha qualcosa da dire?», Leandro aspirò ed esalò il fumo, si diresse infine verso la classe. Sentì il sindaco dire: «Si vede, deve essere un finocchio!». Leandro avrebbe voluto girarsi, tirargli un destro, ma poi pensò al motociclista: a quale scopo cacciarsi nei guai per onore, quando fra qualche ora sarebbe potuto fuggire, via, lontano? Le ore fuggirono velocemente, si fece subito mezzogiorno. Leandro avrebbe staccato un’ora prima quel giorno e Francesco lo sapeva, infatti sarebbe andato a prenderlo. All’uscita, però, non c’era nessuno. Leandro consumò la prima, la seconda, la terza e la quarta sigaretta ma non arrivava nessuno. Dopo un’ora nessuno. Si sentì tradito e forse una parte di lui desiderava che fosse così, in modo da dirsi - Hai visto Leandro? L’amore è furor, stritola tutto e tu ci sei ricaduto. Bada, è l’ultima volta! -
Iniziò a scendere, per giungere in Certosa, quando vide la vecchia nonna, da tempo immemore perpetua, parlare con il parroco. Discutevano se celebrare o meno la morte di un finocchio. La nonna diceva: «No, Don Giuseppe no, niente funerale, già siamo beati nel tumularlo» e il buon parroco a lei: «Figliola, il buon Dio ama tutti, e considera le circostanze della morte». La vecchia, curiosa, chiedeva: «Come è morto?».
«Lo hanno buttato giù dalla moto, lo hanno portato in alcune terre sperdute, vicino il battistero paleocristiano a Fonti e lo hanno picchiato fino a ucciderlo».
«Va bene, va bene, non hanno fatto bene ma, parroco, non hanno fatto male. Come si chiamava?».
«Francesco».
Leandro, che nel sentire quel breviloquio si era pietrificato, morì dentro. Corse fino al suo faggio nei giardini e qui, sicuro tra le braccia dell’unica madre che abbia mai avuto, per la prima volta nella sua fredda e cupa vita, pianse. Leandro era un marinaio la cui vela era stata tradita dal vento. Aveva avuto un attimo di felicità che poi era presto svanito. La sua mano tremava ma aveva deciso di scrivere; a chi non lo sapeva, decise di non inserire destinatari. Tornò a casa, non era il suo orario, andò in camera da letto, chiuse la porta scricchiolante con una spinta molto forte sbattendola, consegnò quei fogli che aveva portato dalla Certosa alla scrivania.
Si accese una sigaretta…Odiavo la puzza dentro casa mia, ma non sapevo fosse la prima e l’ultima che fumò nella nostra casupola. Sentii un colpo di pistola, gettai i piatti in aria, avevo il cuore in gola, pensai i ladri, i briganti. Girai un po’ per le camere e aperta quella di mio nipote, non mi hanno retto le gambe, e sono esplosa in grida disperate e in un pianto che avrebbe potuto dare inizio alla Apocalisse. Solo dopo il funerale ho notato dei fogli raggruppati sulla scrivania, fra i libri latini e i pacchetti delle sue sigarette. Avevo gli occhi gonfi, Leandro rendeva immortali gli ultimi giorni qui raccontati, desiderava morire perché era già morto una volta, desiderava incontrare la madre, curarsi da una nostalgia durata una vita, desiderava abbracciare il padre, e non risvegliarsi dopo averci provato nel sogno, e avrebbe voluto incontrare Francesco per curargli le ferite. Chi non nominava son io.
Quanto avrei voluto morire, quanto cattiva, bigotta e insensibile son stata, quanto ho insultato il crocifisso tutti questi decenni. Ho tradito mia figlia e la sua promessa, suo figlio sarebbe dovuto essere il mio pegno d’amore, in me avrebbe dovuto ritrovare l’affetto materno, al mio collo sarebbero dovuti pendere gli abbracci. Avrei dovuto baciarlo, quando era in lacrime, baciarlo per lei, il peso della casa, della morte e del dolore mi schiaccia. Ho nascosto a lui le lacrime, le vaghezze, nella notte mi nascondevo dai sentimenti e all’effige del mio sposo parlavo come se avesse potuto rispondermi. Vorrei tornare indietro a quel bambino che è stato il mio dono, stringerlo di più in quei giorni in cui, Leandro, mi hai amato solo tu, in quei giorni in cui ero assente, non ci sono stata mai. Vorrei rivederti bambino, quando leggevo e fumavo, forse non ricordi ma io ero come te. Ma intanto se ne andavano i tuoi occhi e con loro ogni affetto, com’eri bello quelle sere e come sono ormai lontane, avrei dovuto cantare per farti addormentare ma le mie ninne nanne erano di dolore, di rabbia vera, di ombre e oblio. Nel paese, lo sai, si vive di lunghi letarghi, si tenta di aggrapparsi a qualunque zattera, lì fuori ci sono sparsi frammenti di anime povere, di lividi e mancate parole. Avevo smesso di scrivere, polsi legati mi dissi, ed eri tu a
scrivere per due, te l’ho trasmesso io, sai? Qui dentro il dolore è sempre stato un ospite usuale e mai l’amore, unica croce in questo inferno che fa male. Non ti ricorderò per le tue parole che mi hanno fatto piangere e riflettere, né per il tuo cuore verde, ti ricorderò per il tuo cuore quando di me aveva più bisogno, quando ti ho soffocato di notte i sogni, ti ricorderò quando ti frenavo i soffi dell’amore, quando dormivi con me e il nonno stretto al mio seno e ci svegliavamo quando le stelle tentavano di far guerra alle persiane. Sarai sempre il bambino da cui mi nascondevo sola in un angolo chiuso della chiesetta, fumavo anch’io un tempo sai, per non vivere, non avevo direzioni, non avevo porti o strade, non avevo cieli a cui arrampicarmi. Di te ricorderò i miei sbagli che non hanno scuse, le mie finestrelle sempre chiuse, la tua infanzia quando buttavo nel fuoco le poesie, i vinili e la magia. Non chiederò mai il perdono, né il tuo, né della tua dolce mamma né quello del Signore. Leandro, io ti ho perduto perché non mi sono mai trovata, sono caduta molte volte e quando sognavi non ti sfioravo perché avevo paure che purtroppo ti ho trasmesso. Ho incontrato spesso la morte, siamo amiche care, e presto dovrò anche io lasciare questa tenda, è quasi giunto il tempo di sciogliere le vele ma continuerò a camminare finché vedrò la luce. Affiora adesso alla memoria la povera storia della mia vita intessuta, attraversata da misere azioni di un ineffabile bene, azioni manchevoli, imperfette, sbagliate, insipienti e ridicole. Dio conosce la mia stoltezza, quest’avventura stentata, gretta e meschina ma devo far presto, fare bene, fare lietamente ciò che grazie a te, Leandro, ho capito e anche se supera immensamente le mie forze, curvo il capo e ruggisce il mio spirito, avrò coscienza della nostra natura e della nostra predestinazione. Il dolore mi uccide, e il rimorso mi consuma come Eco, io te lo devo e prima dell’umanità, devo partire da me, lasciare il crocifisso e rincorrere la verità.
Per sempre a te devota, la tua straziata nonna.
Padula 1961
04/01/2024