Nemmeno un insetto!
Federico Scotti
Federico Scotti
È possibile desiderare la sofferenza a tal punto da posizionarla come ambizione maggiore della propria esistenza? Condurre una vita irragionevole e straziante sembra essere l’unico motivo per avere una vita dignitosa, secondo il protagonista delle “Memorie dal sottosuolo” di Fëdor Dostoevskij, pubblicato per la prima volta nel 1864.
L’individuo presentato dall’autore russo avrebbe un profondo ardore di dolore e di umiliazione, accusati da una società che corre dinamicamente tentando di diffondere ideali ottimistici e schivando il vero affanno che contraddistingue la vita di ognuno di noi. L’uomo del sottosuolo, il quale rimarrà anonimo per l’intero romanzo, è malato e maligno e cerca di integrarsi in una società che scarta, disprezzandoli, gli umani sensibili ed eccessivamente riflessivi, che non riescono ad agire e ad imporsi delle mete che possano coronare il cammino della loro vita. Il personaggio, pertanto, tenta in svariati modi di entrare in contatto con il variabile spettro della comunità, trascinato da un estremo all’altro e umiliato su ogni pigmento della sua stessa pelle, a partire da uno scontro con un ufficiale fino alla frequentazione con una prostituita. È qui che il reietto comprende l’inquietudine della vita e che la sofferenza che nasce con la stessa ci abbraccia con artigli che lasciano vivide ferite sul nostro corpo, segnando indelebilmente l’orizzonte tragico di ognuno di noi.
La preferenza dell’uomo nel confrontarsi con la sofferenza permette all’individuo che abita il sottosuolo di captare l’irrazionalità della vita, poiché la stessa è resa peculiare dal sentimento, in particolare da quello negativo, e per poterselo procurare e vivere nel desiderato tormento occorre abbandonarsi alla mancanza del razionale, esaltando la volontà individuale. Per promuovere quest’ultima l’autore propone un prodotto banale, secondo il quale moltiplicando il due per se stesso otteniamo quattro, e ritenendo di cambiare il risultato finale con un cinque crede di poter far trionfare la suddetta volontà; risultando la stessa una conquista vana, all’uomo non rimane che rifugiarsi e strisciare sul terreno delle interiora della terra: il sottosuolo.
Ma è vero che la vita è solo afflizione? È possibile, nell’uragano del rodimento, trovare uno scorcio che possa farci vedere e percepire il tiepido sole oltre la parete ventosa dell’uragano stesso? Secondo Dostoevskij ciò non è contemplabile, e l’uomo tende spesso a rincorrere una superficiale, momentanea gioia mentre il nostro protagonista continua a porsi una domanda oziosa: “che cos’è meglio, una felicità da quattro soldi o delle sublimi sofferenze?” Ed è quello che possiamo chiederci anche noi, abitanti di una realtà che maschera la tristezza e l’indolenzimento, nascondendoli sotto un’apparente felicità e una momentanea gioia pur di non sentire i sentimenti negativi, abbracciarli e far si che possano aiutarci, perché perfino il dolore può farci bene, talvolta.
Nella realtà in cui stiamo crescendo è diventato comune raccogliere il razionale in ogni cosa che facciamo, e lasciare per terra tutto ciò che concerne la sfera sentimentale, per sotterrare con piacere, cosicché non ferisca, il tormento che fa sanguinare. In tal modo
finiamo non solo nel perdere l’occasione di vivere un’emozione, ma buttiamo via pure noi stessi, rifiutando di sorridere a una parte di noi che cerca di emergere e che tuttavia riceve le nostre stesse spalle, volte a non voler vedere ciò che dentro si agita. Così, gettando noi stessi da una parte e privandoci pure di riconoscere la totalità del nostro essere, giungiamo nell’universo del nullo, e nell’oblio non riusciamo più ad essere nessuno, “nemmeno un insetto”.