"Siamo ridicoli, noi fortunati, quando ricerchiamo a tutti i costi l'esotica povertà:
tra selfie, freddi timori, dolcezze fuori luogo, un'autocritica sociale prova a indagarne il senso, la causa, lo scopo".
V’è pratica comune nel civilizzato vecchio continente e quest’è per certo la noia.
La ricchezza era, è e sempre sarà imperfetta. Il tutto è incompleto, incompiuto; la vera perfezione la troveremo solo nel nulla, nell'assoluta mancanza, nella purezza primordiale.
La povertà si suddivide in povertà d'animo e povertà materiale:
il concetto di povertà d'animo è, all'interno dell'assoluto, relativo.
Viviamo di emozioni assolute e irremovibili ripetute all'infinito, che saranno influenzate dalle nostre insignificanti azioni personali nel corso della nostra insignificante vita.
Il concetto di povertà materiale è, all'interno del relativo, assoluto.
La società cambia insieme al concetto di povertà, ma all'interno di questo relativismo possiamo trovare l'irreversibile assolutismo dei ricchi e dei poveri, degli sfruttati e degli sfruttatori.
La noia porta a riflettersi da dentro, a stringersi il cuore con cinte pungenti, con ami forati, estraendolo con vigore d’amante e divorandolo con gusto, perché s’è romantici, s’è bisognosi d’amore.
Ecco, s’immaginino ora vecchi signori, anziane signore, o giovani già vecchi per l’eccessivo contatto con la saggezza, per la pericolosa lontananza dalla follia adolescenziale. S’immagini la loro conforme necessità di allontanarsi dalla noia, che li divora soffocandoli, e insieme li affoga e dal forte, intrinseco bisogno di conformarsi alla morale che vige, ch’è fatta non sol di libri, di cinema, d’amore nelle mostre, nei musei, nelle scuole, ma anche d’azioni, di sguardi, di saluti e d’addii, sì utile, ma opprimente, perché non v’è cultura se non ve ne son per lo meno due, non v’è bellezza se non nello squilibrio della personale rivolta alla consuetudine. Ora si pensi al descritto gruppo d’anime involontariamente prive di vis. Questo parte per la prima meta trovata, con la prima organizzazione scoperta, alla ricerca di nulla, conoscendo già perfettamente quel che si ha lasciato e quel che si vuol fare (che l’esempio comune sia un paese dell’Africa sub sahariana, affinchè sia medesima la riflessione).
L’euforia accompagna il gruppo, anzi, la folla, non per la genuinità del voler far bene, ma per l’autenticità del mondo verso cui s’incammina, la falsità della vita da cui fugge. L’arrivo nel nuovo paese si può equiparare all’immersione in un mare, dove serve maschera per vedere ed esser visti, boccaglio o bombola per respirare, in cui tutto sorprende per la straordinaria rottura del confine che circonda il castello d’esperienze vissute. Ogni oggetto, bestia, persona, perfino, è causa e insieme fine di meraviglia e stupore e la folla lo fotografa, riprende, attraversando strade vedendo sentieri, parlando a uomini vedendo servi, come se fosse in uno zoo, come se il mondo intorno fosse grande comparsa e ragione di inconsapevole scherno, non per malizia, ma per cultura, ch’è radicalmente aggrappata al cuore e insieme alla mente, che ci àncora al pregiudizio della necessaria diversità verticale.
I compiti dalla folla svolti non solo sono inutili, ma dannosi. La pericolosità sta nella superbia di credere di poter educare sol perché si è bianchi e nella stupidità d’insegnare ai piccoli che la cultura ha un colore, una fisicità, che giunge all’improvviso da settentrione, per poi dopo poche settimane andarsene, stuzzicando, non sfamando di certo, illudendo, non convincendo. L’inutilità sta, invece, nelle poche opere create, nei disegni sui muri delle classi, nelle costruzioni di precarie fondamenta, svolte per pubblicità e ripetuto vagheggiamento, vantandosi d’aver cambiato la realtà, d’aver fatto la propria parte.
Che si abbandoni il vago, la spettacolarizzazione; si adottino concretezza, coraggio; che la nostra cultura sia mezzo, non scopo, sia aiuto, non obiettivo.
04/01/2024