Viviamo sotto il segno dell’io. Un io ipertrofico, sovraesposto, permanentemente online. Eppure, mai come oggi, quell’io è fragile, ansioso, in cerca di conferme. La promessa di libertà e autoaffermazione che il neoliberismo ci ha consegnato si è rovesciata nel suo contrario: una vita intessuta di performance, branding personale e panico da irrilevanza.
“Sii te stesso” è diventato un imperativo morale, ma soprattutto un ordine di mercato.
Lo avevano previsto in tanti. Nietzsche aveva già visto nella morte di Dio la nascita di un vuoto – un abisso che avrebbe chiamato nihilismo. Ma al posto del vuoto, noi ci abbiamo messo l’identità. L’“essere speciali” è la nuova forma di salvezza, l’unica ancora possibile in un mondo che non promette più nulla. Non si cerca più Dio, né verità, né senso. Si cerca visibilità.
Il personal branding è la teologia del XXI secolo: non ci dice solo come presentarci, ma come vivere. Scegliere cosa postare, come definirsi, quali tratti enfatizzare – è una liturgia quotidiana. Un culto in cui l’oggetto sacro siamo noi stessi, o meglio: la nostra rappresentazione.
Byung-Chul Han lo chiama “società della prestazione”, in cui non siamo più sorvegliati da un potere repressivo, ma sedotti dalla libertà di scegliere noi stessi. Una libertà apparente, che ci fa diventare imprenditori di noi stessi, capitalisti affettivi, sempre pronti a vendere un pezzo della nostra anima in cambio di attenzione.
L’identità non è più una domanda filosofica (“chi sono io?”), ma un problema di storytelling
In questo paesaggio, l’io non è più qualcosa da scoprire, ma da costruire. E più lo si costruisce, più si perde. Kierkegaard parlava di “disperazione dell’io”, una condizione in cui il soggetto non riesce ad essere se stesso, perché è separato dal proprio nucleo autentico.
Oggi quella disperazione è algoritmica: la proviamo quando il nostro contenuto “non funziona”, quando nessuno guarda, quando il mondo sembra dire: non sei interessante.
E allora rincorriamo engagement, reach, coerenza del feed. Ma chi siamo, davvero, quando nessuno ci guarda?
Nel tentativo disperato di “distinguersi”, finiamo per somigliarci tutti. Ogni feed diventa uno specchio deformante dove i tratti unici vengono impacchettati in format replicabili.
Il paradosso è evidente: l’individuo, nel tentativo di diventare irripetibile, si serializza. La soggettività si piega ai codici del marketing, e il narcisismo diventa una forma di alienazione.
Forse, allora, la questione non è come emergere, ma come non perdersi. Non in senso romantico, ma radicale: come restare capaci di abitare il dubbio, l’opacità, il silenzio.
Come restare esseri umani, non brand.
In un sistema che premia l’esposizione costante, scegliere di scomparire sembra una forma di resistenza. Il digital detox, il silenzio volontario, il rifiuto di mostrarsi possono apparire come gesti autentici, controcorrente.
Ma anche queste scelte sono rapidamente state assorbite dalla logica del branding personale. La disconnessione è diventata uno stile di vita, un contenuto da raccontare al ritorno, un modo per distinguersi in un mercato saturo.
Ma se anche scomparire fosse il nuovo trend?