L’arte di aspettare la fine del mondo
Giacomo Cristanelli
Giacomo Cristanelli
Edward Hopper (1882-1967) non è stato soltanto il pittore della solitudine americana: è stato, forse suo malgrado, il cronista di una fine che nessuno dichiarava. Formatosi tra la New York School of Art e i suoi soggiorni parigini, Hopper visse a cavallo di due mondi: l’Ottocento che tramontava e il Novecento urbano, elettrico, nevrotico. Riconosciuto tardi ma in modo travolgente, Hopper divenne uno degli artisti più iconici del secolo, amato tanto dai musei quanto dal cinema che ha rubato a piene mani dalle sue atmosfere: basti pensare al bar notturno di Blade Runner o alle finestre voyeuristiche Hitchcockiane.
Il suo stile è limpido, netto, privo di fronzoli. Hopper non dipingeva la Storia con la S maiuscola, ma i suoi interstizi: una donna seduta accanto a una finestra, una coppia silenziosa in un diner, un uomo fermo davanti a un distributore di benzina deserto. Non c’è mai il rumore di quella New York che circonda i suoi soggetti. C’è invece una luce tagliente che restituisce l’essenziale rendendolo perturbante. Nelle sue tele la vita sembra essersi presa una pausa caffè — e non è detto che torni.
Se pensiamo all’apocalisse hollywoodiana, fatta di rovine, macerie e incendi, Hopper sembra distante. Eppure, nei suoi quadri, l’apocalisse c’è: è domestica, sommessa, quasi educata. Non vediamo l’esplosione, ma il silenzio che la precede o che la segue, rendendo i suoi personaggi sopravvissuti inconsapevoli, o profeti che non hanno più parole.
Questa apocalisse senza macerie è profondamente legata al tema della solitudine e dell’alienazione, concetti pilastro del Novecento. Ma la solitudine di Hopper non è quella romantica dell’eremita che sceglie il silenzio, ma quella di chi vive in città e condivide lo spazio senza condividere nulla. Oggi siamo tentati di leggere questi quadri come metafora dell’era digitale: il paradosso di una connessione globale che amplifica l’isolamento individuale. Ma sarebbe riduttivo fermarsi lì. L’alienazione contemporanea non viene solo dallo schermo, ma da un mondo che misura le relazioni in termini di efficienza, visibilità e autosufficienza. Prima bisogna essere “completi” da soli, l’altro può al massimo diventare un accessorio; e Hopper, un secolo fa, aveva già colto che l’uomo moderno sarebbe diventato l’animale più solo di tutti.
Negli anni Trenta e Quaranta, le opere di Hopper restituivano l’immagine di un’America divisa tra slancio e crisi, tra progresso e malinconia. Erano il ritratto fedele di un paese che cresceva in altezza — grattacieli, luci, autostrade — ma che al suo interno generava figure immobili, quasi paralizzate. Per i suoi contemporanei, quelle tele erano specchi realistici della vita quotidiana, capaci di dare dignità pittorica alla solitudine metropolitana.
Oggi i suoi quadri ci parlano con ancora più forza. Perché se alla sua epoca l’incertezza era economica, oggi noi viviamo in una stagione in cui la parola “fine” è ovunque: fine del clima stabile, fine della pace in Europa, fine delle certezze globali. Guerre in Ucraina e in Medio Oriente, emergenze migratorie, e un pianeta che si surriscalda come una lampadina accesa troppo a lungo:
non è più distopia, è cronaca quotidiana, e Hopper ci ricorda che l’apocalisse non deve per forza arrivare col fragore delle trombe bibliche. Ma può insinuarsi lentamente, in silenzio, mentre sorseggiamo un caffè in un bar semivuoto, convinti che tutto sia ancora normale.
Forse la grande lezione che possiamo trarre è che l’apocalisse non coincide con la fine del mondo, ma con la fine del nostro modo di stare insieme. Hopper lo aveva intuito, e i suoi quadri, immobili e sospesi, sembrano ancora prendersi gioco di noi: “Benvenuti alla fine del mondo. Avete almeno portato un libro per ingannare l’attesa?”