La luna e i falò - il testamento meraviglioso di Cesare Pavese
La luna e i falò - il testamento meraviglioso di Cesare Pavese
È il romanzo del ritorno e dell’addio, contemporaneamente; è il romanzo della rassegnazione e della nostalgia; è il romanzo con cui Pavese ha salutato il mondo, è il suo testamento: “Se anche nelle mie radici non riesco a ritrovarmi, la speranza di trovarmi da qualunque altra parte – o in qualunque altra cosa – è decisamente vana”.
Il romanzo è ambientato a Santo Stefano Belbo, paese tra le Langhe; è la storia di Anguilla che, attraverso i flashback dell’infanzia e del periodo da emigrante negli Stati Uniti, torna a visitare il paese in cui è cresciuto. Qui incontra dopo lungo tempo Nuto, il mentore della sua gioventù, e fa la conoscenza di Cinto, un bambino che vive dove lui aveva un tempo vissuto. L’incontro nostalgico con l’infanzia è però mandato in frantumi dalla realtà: tutto è cambiato, comprese le persone, che sono morte. La fine del romanzo, fortemente lirico-simbolico, rappresenta l’inevitabile distruzione di tutto quello che è stato prima, delle radici.
A distanza di più di settant’anni dalla sua uscita La luna e i falò si attesta come uno dei romanzi-capolavoro del Novecento e della letteratura italiana. Pavese traccia un profilo autobiografico che è fatto di persone, di incontri, di suoni, di profumi, di verderame, d’acqua e di fango; non si definisce da solo, ma colora i contorni per far emergere se stesso; si definisce attraverso il mondo che lo circonda.
E del mondo che lo circonda è impossibile non parlare: le Langhe di Santo Stefano Belbo, di Canelli, di Alba sono il luogo dove Pavese è nato e dove è cresciuto. In mezzo a quelle colline il tempo non sembra scorrere, ma pare quasi aver ripreso la lezione del tempo etnologico dei Malavoglia: come lui da bambino si perdeva a immaginare Canelli e le feste nella casa coi balconi, così Cinto corre lungo il Belbo e desidera un coltellino svizzero per sentirsi adulto. Eccoli Anguilla e Cinto, che si guardano negli occhi. A Cesare pare di guardarsi nello specchio del tempo, e di rivedersi in quegli occhi vispi e nelle mani probabilmente sporche, di verderame e di terra, come quando da bambino correva per le colline.
Ma Pavese è anche il portavoce di quel neorealismo che investe il dopoguerra, stanco dell’esagerata pienezza del ventennio; e anche in questo La luna e i falò si presenta come un capolavoro: è l’ultimo di una serie di romanzi iniziata con Paesi tuoi (libro col quale La luna ha parecchie assonanze) e terminata qui; quel viaggio iniziato nelle Langhe non poteva che terminare lì, con una lingua che nulla ha di sbilanciato: i termini dialettali perfettamente si amalgamano all’italiano popolare (popolare, non becero o piatto) faticando a distinguere la linea dialetto-italiano che era invece ben individuabile nei Paesi tuoi. Ma questo è un altro discorso, che merita un approfondimento a parte.
Ed eccoci ora, a più di settant’anni, a cercare di capire perché Anguilla fosse proprio voluto tornare a Santo Stefano Belbo e non a Canelli, a Barbaresco o in Alba (come dice nell’incipit del romanzo); e poi capiamo che lì Pavese aveva forgiato se stesso, nel bene e nel male, tare e pregi.
Allora la soluzione diventa limpida, cristallina: nel momento di più profonda crisi di se stesso nessun posto era più adatto, per ritrovarsi, che il luogo in cui si è cresciuti. Certo, a volte però capita di non ritrovarsi nemmeno lì... E quindi così si spiega la decisione presa di porre fine alla propria vita, di porre fine alla propria grande perdizione.
E il simbolo di questa grande perdizione, di questa impossibilità di ritrovarsi è il grande fuoco. Il grande fuoco della Gaminella in fiamme, luogo dell’infanzia di Anguilla, ed il vestito bianco, che invece è il simbolo della fine dei preparativi, come dire “son pronto; ho dato poesia agli uomini ma non è bastato.
06/11/2023